Pasquale Balestriere collaboratore di Lèucade |
L’ACCENTO
NELLA TRASLITTERAZIONE DEL GRECO ANTICO
Pubblico questo contributo su Lèucade nella
speranza che possa destare l’interesse di qualche frequentatore del blog e, magari, essergli
utile.
È però opportuno partire da una premessa. Il
processo e l’acquisto culturale non può né deve essere prerogativa o
addirittura esclusiva di ceti
elitari o abbienti. In un paese civile (o che pretenda
di essere tale) la conoscenza e il sapere devono essere a disposizione di
chiunque se ne voglia nutrire, indipendentemente da ogni condizione sociale ed
economica. Credo si sia capito che sono favorevole a un processo di “democratizzazione
culturale”, espressione che va intesa
come effettiva possibilità, per
chi voglia, di accedere al sapere, di elevarsi alla scienza.
Da questa premessa deriva la domanda che sta
alla base dell’argomento che intendo trattare: visto che nella traslitterazione
del greco antico in italiano è usanza
diffusa e quasi canonizzata -ma, a mio
parere, non giustificata- di trascrivere
le parole greche senza accenti, come potrà leggere correttamente tali parole
una persona che ha scarse conoscenze di quella lingua o la
ignora del tutto?
Per
tanto tempo nessuno si è posto il problema in nome -presumo- di una malintesa aristocrazia culturale o forse di dotta alterigia; o anche per il semplice disinteresse di chi ha la
pancia piena nei confronti di chi fa fame di conoscenza. E così sono rimaste
chiuse le porte di una corretta lettura
per tutti coloro che non avevano adeguate conoscenze della lingua greca.
Per meglio capire di che cosa si sta
parlando, prendiamo per esempio l’espressione ὀνομάκλυτον Ὀρφήν (Orfeo dal nome illustre). Se traslitteriamo senza accenti avremo onomaklyton
Orphen e, per chi ignora il greco, sarà un problema leggere
correttamente le due parole; ma se
scriveremo onomàklyton Orphèn (anche con l’accento acuto, giacché tale
segno nella traslitterazione ha solo valore neutro di ictus), ognuno potrà leggere senza sbagliare.
D’altronde, se nella trascrizione del greco antico le parole – poche nell’epoca antica, più
numerose dal periodo bizantino, quasi tutte dall’umanesimo in poi, tutte, almeno dal
secolo scorso - sono state accentate e
quelle che ne avevano bisogno corredate di spirito, quale motivo valido
potrebbe giustificare in fase di traslitterazione la perdita (o, se si vuole,
l’omissione) di un segno - l’accento,
appunto- che comprometterebbe la
corretta pronuncia? Si fa attenzione a traslitterare lo spirito aspro in /h/ e
si trascura od omette l’accento che è più forte di qualsiasi aspirazione?
Ampliando per un attimo il discorso
all’italiano, si può serenamente affermare che se adoperassimo di più l’accento
grafico, come per esempio fanno i Francesi, avremmo tutti una migliore
conoscenza della nostra lingua e tanti errori di pronuncia in meno.
Recentemente (potrei anche fare data, ora e
nomi) sono stato impressionato da tre errori di pronuncia sparati a raffica da un giornalista
scientifico durante la trasmissione pomeridiana del programma GEO, in onda su
un canale RAI, nella rubrica “Tetto verde”.
Eccoli: “guàina”, “ìncavo”, “evàpora”, in luogo dei corretti “ guaína”, “incàvo”,
“evapóra”. Risparmio al lettore i motivi della corretta dizione e protesto
-prevedendo eventuali osservazioni circa il fatto che la lingua si evolve- di essere a conoscenza che l’uso vince sulla
grammatica, cioè che se un tipo di
pronuncia si è diffuso al punto da
essere in bocca alla stragrande maggioranza dei parlanti, allora quell’uso,
inizialmente sbagliato, viene adottato in lingua a soppiantare quello corretto,
al punto che diviene errata la forma
inizialmente giusta. Però mi viene da pensare all’imbarazzo che, nelle more di
questa singolar tenzone tra la forma giusta e la sbagliata, affligge il parlante di una certa cultura,
incerto sulla forma da usare, se privilegiare cioè la certezza della grammatica o la novità dell’uso. Mi spingo ad
affermare, con un pizzico di sana ironia, che occorrerebbe un misuratore
affidabile per verificare quando la forma errata ha il diritto di essere
considerata corretta. In ogni modo questo è stato il percorso di parole come “gratùito” lat. gratuìtus, volgare “gratuìto”; “fortùito” lat. fortuìtus, volgare “fortuìto”. Queste forme volgari (è quasi superfluo
notare che qui “volgare” significa “popolare”, senza alcuna connotazione
negativa) sono peraltro ancora presenti in alcuni dialetti meridionali,
minacciate e assediate da un paraitaliano mediocre e standardizzato.
Tornando alla traslitterazione dal greco
antico, resta da dire che, in caso di dittongo, l’accento che in greco si segna
sulla seconda vocale ma si legge sulla prima, nella forma traslitterata si
segna direttamente sulla prima. Esempio: greco ποίησις,
traslitterazione “pòiesis”. E ciò sia per ragioni di
opportunità, cioè per mettere in condizione di leggere correttamente il termine
anche chi non conosce il greco o chi non s’accorge che la parola è greca, sia
perché questa soluzione è adottata da testi autorevoli del settore (uno per
tutti: il Dizionario etimologico della mitologia greca del G.R.I.M.M. -Gruppo
di Ricerca sul Mito e la Mitografia- dell’Università di Trieste). Infine, a mio
parere e sempre per amore di chiarezza, in fase di traslitterazione, oltre a fornire
di accento le parole sdrucciole (proparossitone) e tronche (ossitone e
perispomene), come già alcuni fanno, occorrerebbe dotare di ictus, per
eliminare ogni incertezza nel lettore, anche quelle piane (parossitone e
properispomene).
Sarebbe un passo avanti nel percorso verso
quella democrazia culturale cui prima ho fatto cenno.
Pasquale
Balestriere
Mi pare ovvio che qui Pasquale Balestriere dimostra di essere, oltre che poeta eccellente, anche uno squisito linguista, per la precisa lezione che ci offre con la sua nota colta e chiarificatrice sulla opportunità dell'uso -e dell'uso corretto- dell'accento nella traslitterazione del greco antico (che purtroppo non conosce più neppure la maggior parte dei Greci a noi contemporanei). Trovo la sua nota ancor più opportuna soprattutto per la motivazione che egli adduce sulla necessità di indicare sempre l'accento per il suo "valore neutro di ictus", e cioè per la necessità di una "democratizzazione culturale", ad uso di chi non ha conoscenza del greco antico. Non costa poi tanto, a parte di eliminare LA SPOCCHIA di chi eventualmente ritiene di dover rimanere padrone - in compagnia di pochi (?) privilegiati,ormai, di un sapere sempre più raro. Che dire poi degli errori ascoltati alla televisione per la frequentazione di sedicenti "esperti" e giornalisti sempre più amanti del "brivido" ? Ricordo -accadeva solo qualche anno addietro- di una pubblicità in cui due parole "latine" venivano lette in inglese e "platinum plus" diventava pressappoco "platinam plas".
RispondiEliminaIn questi tempi in cui la nostra lingua appare sempre più bistrattata ed inquinata da bestialità ingiustificabili e da frequenti strafalcioni (come si diceva una volta) credo si possa rendere un buon servigio a chi vuole ancora parlare e scrivere con la dovuta correttezza, soprattutto nell'incertezza se gli errori siano fatti nella lingua di una imprecisata maggioranza, come tu dici giustamente, consigliando le regole che saggiamente ci ricordi.
Bravo, Pasquale, non fermarti qui.
Umberto Cerio
"Per quanto mi riguarda l'obiettivo dichiarato da Pasquale Balestriere di destare l’interesse degli assidui del Blog è stato perfettamente raggiunto. Avendo trascorso gran parte della mia vita lavorativa tra fuochi e alambicchi sono uno di quelli che, per ignoranza, ha pronunciato un'infinità di volte la parola evàpora in luogo della forma corretta evapóra. La questione della giusta pronuncia deve essere affrontata ricorrendo alla certezza della grammatica e non inseguendo ciò che deriva dall’uso. L'italiano è una lingua neolatina e il latino si è sviluppato grazie anche al contributo dell'idioma greco per molti secoli lingua ufficiale dell'Impero romano d'Oriente, almeno fino al 1453. La traslitterazione dal greco antico all'italiano è dunque da considerarsi una scienza e come tale deve rispondere a regole ben precise, non a correttivi di comodo.
RispondiEliminaPoiché mi sorge il dubbio circa la corretta lettura di molte altre parole, di sicuro sarò più prudente e questo ripensamento è la dimostrazione che il Balestriere ha raggiunto il secondo fine dichiarato: destare interesse ed anche essere di utilità. Ultima riflessione personale: ogni intervento che tende alla democratizzazione, in questo caso culturale, deve essere accolto dagli spiriti liberi più che favorevolmente."
Ubaldo de Robertis
Concordo pienamente con Pasquale Balestrieri sul garantire l'«effettiva possibilità, per chi voglia, di accedere al sapere, di elevarsi alla scienza», nonché sull'uso dell'accento nella traslitterazione di parole greche. Anche in italiano, come accade per lo spagnolo, sarebbe opportuno e utile indicare l'accento nelle parole che non siano piane, e nei dittonghi quando sia accentala la seconda vocale (es. baùle, guaìna). La cosa sarebbe utile non solo agli stranieri che imparano la nostra lingua, ma a tutti noi che non sempre siamo esperti etimologisti. Complimenti a Pasquale per aver sollevato la questione e proposto una soluzione semplice ed efficace.
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RispondiEliminaGrazie al professor Balestriere per questa lezione.
RispondiEliminaNel linguaggio medico abbiamo sovente problemi di pronuncia, motivo per cui alcuni dicono stènosi altri stenòsi, alcuni sclèrosi altri scleròsi, alcuni alcàlina altri alcalìna, etc. Spesso ci si giustifica dicendo che si segue l'accentazione greca e viceversa latina. Alla fine entrambe le dizioni sono lecite e accettate dalla comunità scientifica.
Maurizio Soldini
Buongiorno professore,
RispondiEliminavorrei sottolineare - in veste di non addetto ai lavori - quanto sia prezioso ed importante il concetto di "democratizzazione culturale" da lei perfettamente espresso nel senso di fornire a chiunque ne abbia desiderio gli strumenti atti a sviluppare la consapevolezza delle infinite possibilità di arricchimento culturale e linguistico che sono nel diritto di tutti. Alla base di tale processo, ovviamente, c'è la passione. Quella di colui che generosamente mette a disposizione di tutti i traguardi raggiunti e le proprie riflessioni e quella di chi, come me, è affamato di quel sapere che fino a ieri sembrava irraggiungibile e che invece, spiegato o meglio trasferito da chi ne è padrone e capace ed unito all'impegno e allo studio col tempo può divenire patrimonio personale. E quale regalo si può avere più grande di questo? Grazie mille, dunque, professor Balestrieri per questo suo interessante intervento, rimango in attesa della prossima perla.
Un caro saluto a lei e a tutti i lettori del blog.
Paolo Buzzacconi
Una bella lezione di linguistica quella del prof. Balestriere, sostenuta da concetti etico-sociali a mio parere fondamentali:- la democratizzazione del sapere, “il processo e l’acquisto culturale non può né deve essere prerogativa o addirittura esclusiva di ceti elitari o abbienti”; -“ in un paese civile (o che pretenda di essere tale) la conoscenza e il sapere devono essere a disposizione di chiunque se ne voglia nutrire contro ogni malintesa aristocrazia”….
RispondiEliminaL'uso del linguaggio stabilisce una differenza abissale tra l'uomo, animale storico, e qualsiasi altro essere vivente che l'evoluzione naturale abbia condotto a un grado di organizzazione anche molto elevato e la sua storia linguistica, da cui è nato il nostro italiano, è un patrimonio di conoscenza irrinunciabile.
A partire e dentro questa forte premessa, accolgo favorevolmente le proposte del prof. Balestriere sul tema della traslitterazione del greco antico: sono semplici, abbordabili, facili da attuare.
La scuola per prima se ne dovrebbe far carico, senza alcuna pretesa di normatività, semplicemente, come si impara il linguaggio quando si è bambini. L'insieme di parole, significati e l'insieme di abilità comunicative comunicano l'immagine del mondo che ne consegue, e contribuiscono a creare ciò che si dice 'attività simbolica' e a poter abitare con consapevolezza lo stesso mondo di altri che condividono la medesima attività. Nondimeno occorre un sano equilibrato sereno ripensamento di quello che lo stesso Professore sottolinea: la lingua si evolve- e l’uso vince sulla grammatica-
Le due circostanze non mi scandalizzano in alcun modo.
Caro Balestriere,
RispondiEliminain qualità di autore di poesia sono per una sana democratizzazione della parlata italiana, però ritengo utilissima e buona causa quella di chi si batte per la accentuazione della lingua italiana. Quindi complimenti per la tua erudizione, ma ormai l'italiano lasciato ai giornalisti, ai poeti e ai politici si rivela essere un ircocervo ombroso e irascibile, verbi sbagliati, sostantivi fuori luogo, aggettivi inventati etc. ormai è un diluvio di semantemi in libertà. e si salvi chi può E dio salvi la regina !
La “democratizzazione culturale” auspicata da Pasquale Balestriere costituisce senz'altro un intento nobilissimo, non fosse altro che per una sorta di redistribuzione della ricchezza (di quella del sapere, s'intende), che oggi sempre più tende a concentrarsi nella disponibilità “esclusiva di ceti elitari”. Si tratta, a mio parere, di una tendenza accentuata dalla frenetica corsa alla semplificazione (e al progressivo impoverimento) della comunicazione nell'era di Internet e delle nuove tecnologie; corsa che, in particolare tra le nuove generazioni, fa letteralmente strame non solo di grammatica, ortografia, sintassi e, insomma, della complessa architettura della comunicazione stessa (e figuriamoci degli accenti!...), ma tende a cancellare e a rimuovere (nel “migliore” dei casi a violentare-distorcere-falsificare) anche il patrimonio di conoscenze accumulato nel tempo. Un fulgido (si fa per dire) esempio di simile barbarie resta l'indimenticabile aneddoto (il “fattore Biperio”) riportato in una sua rubrica dal giornalista Giampaolo Pansa. Alla domanda del professore di Storia del Risorgimento su chi fosse quel luogotenente a cui Garibaldi si rivolse con il famoso “Qui si fa l'Italia o si muore!”, una studentessa universitaria rispose: “Biperio” (!). Risparmiando ai sei lettori (più il "bonus" Nazario Pardini...) che mi seguono il resto della storiella, si fa presto a risalire all' “etimo”, diciamo così, di quel “Biperio”, divertente neologismo storicograficomico (!) tratto dagli appunti donati alla studentessa da una sua amica: leggendo infatti la parola “Bixio”, alla ragazza era parso naturale “tradurla” in “Biperio”, in ossequio alle nuove “regole” del linguaggio (giovanile e non solo) di cui abbondano gli esempi: “xkè”, “xo”, “ai xso”; e poi “C 6 scem8?”, “ki/ke”, “6 3mendo”, “TVB” e mille altri esempi ancora...
RispondiEliminaHo rappresentato tutto ciò innanzitutto per mettere a fuoco il contesto di riferimento, ovvero il terreno in cui si compie quel processo che io chiamerei di destrutturazione linguistica, processo che appare inarrestabile e, c'è da temere, addirittura irreversibile; in secundis, e conseguentemente, per sottolineare come appaia di difficilissima attuazione l'altro processo, quello appunto di “democratizzazione culturale”, invocato da Pasquale Balestriere. Da finissimo studioso, e da visionario promotore di scienza e conoscenza, egli sottopone alla nostra attenzione la necessità di “sdoganare” corrette modalità per una trasparente ed efficace traslitterazione, esigenza che anch'io assolutamente condivido. Al di là dello specifico tema proposto (trattato con l'abituale assoluta padronanza e competenza), però, credo comunque che Pasquale Balestriere abbia voluto esemplarmente estrapolare, tra i tanti, solo un singolo aspetto dello stato di generale precarietà del nostro habitat culturale e specialistico, che progressivamente va perdendo pezzi e connotati (gli errori di pronuncia cui egli accenna non sono che l'iceberg di una più estesa e profonda ignoranza dei fondamentali). Ma per estendere a tutti, in particolare alle nuove generazioni (credo che sia questa, caro Pasquale, la prospettiva del tuo invito/denuncia. O no?...) la possibilità di accedere al sapere, per rendere reale il diritto di fruirne e di elevarsi ad una dimensione umana e sociale più alta e nobile, per portare a termine cioè quell'auspicabile “democratizzazione culturale”, non basta evidentemente la buona volontà di solitari, ancorché lodevoli, “missionari”; sarebbe invece necessario un intervento sistematico e strutturale da parte delle istituzioni per rivoluzionare e adeguare un sistema formativo ormai logoro e non più al passo coi tempi (ma qui torniamo a navigare nei mari dell'utopia...).
Umberto Vicaretti
Ascolto con vero interesse Pasquale Balestriere e ritengo che il problema da lui suscitato sia importante per uno scrittore. Lo è sicuramente per uno come me che non ha dimestichezza con il greco, ma che si trova spesso a fare uso di termini provenienti da quell'area linguistica, essendo affascinato da quella cultura. Più volte mi sono chiesto: esisterà un dizionario di vocaboli traslitterati e debitamente accentati? Mi giunge pertanto gradita questa informazione (il dizionario del G.R.I.M.M.) e cercherò di acquisirne una copia. Per l'italiano sarei meno drastico, data la competizione, cui lo stesso Balestriere accenna, tra la grammatica e l'uso. E' importante tuttavia porsi il problema e riflettere prima dell'uso. Anche se - mi rendo conto - "il misuratore" alla fine non può che essere soggettivo. Il rischio "degrado" purtroppo esiste, e non soltanto in materia linguistica. Onde gigantesche ci stanno portando alla deriva e "conservare" rimane sempre più difficile. Mi appello pertanto all'umanesimo interiore, visto che quello esteriore sta andando in rovina. Ma resto comunque in attesa di ulteriori, luminose e sapide lezioni di buona e sana scrittura.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Ringrazio di cuore Pasquale Balestriere per il contributo nuovo, arricchente per tutti noi, che svolgiamo attività di operatori culturali e mi lego in particolare al commento di Umberto Vicaretti, che ha messo in luce come il concetto di 'democratizzazione culturale' auspicato dal Nostro, non debba essere slegato dalla salvaguardia delle giuste accentazioni. Spesso, purtroppo, si cerca l'espressione di nicchia e si incorre in gravi errori di grammatica. Basta pensare agli esempi citati da Balestriere. I giornalisti televisivi ci hanno abituato a errori di consecutio, a svarioni verbali, per cui, in teoria, si potrebbe soprassedere sugli orrori di accentazione. Ma il punto nevralgico di questo bellissimo dibattito credo sia proprio coinvolgere in primis coloro che si definiscono addetti ai lavori, e in secondo luogo, coloro che usufruiscono dei contributi culturali e che devono trovarli accessibili, ma non errati! Meno forme astruse, perché arcaiche, poco conosciute dai più... spesso dimenticate anche da coloro che hanno svolto studi classici; ma linguaggio preciso nelle accentazioni, curato nella punteggiatura, altro grande problema di coloro che scrivono articoli, racconti, romanzi. Cerchiamo di ascoltare il caro Pasquale Balestriere. Di imparare a non sbagliare e di entrare a far parte di una democratizzazione culturale che ci renda più vicini e più desiderosi di crescere.
RispondiEliminaLo ringrazio per questo grande stimolo e m'impegno a curare gli accenti.
Un saluto affettuoso al Professor Nazario e a tutti gli ospiti del Suo magico Scoglio.
Maria Rizzi
Non vorrei che a Balestriere tocchi un problematico quanto arguto accostamento all'enigmatico don Quijote. Egli ha ragione sul tema della democrazia del sapere e sulle questioni dell'ortografia di una lingua come il greco antico, ma tutto questo è un segno dei tempi - così come un segno dei tempi è stata la storia del travisamento dello spirito sapienziale in quell'oblìo che è stata la filosofia a partire dall'affermazione del lògos (ok, metto l'accento..). Sta di fatto, e per fortuna, che ritengo si tratti di un falso problema: le parole greche hanno accento e spirito, la translitterazione è solo una omissione che comporta errate letture in un'altra lingua. Per ascoltare il greco, come ogni altra lingua, bisogna entrarvi, perchè tradurre è tradurSI nello spirito del popolo che parlava quella lingua rivivendone i passaggi che le mutazioni linguistiche registrano e serbano. In questo senso il problema sollevato da Balestriere è quello della messa in discussione di una banalizzazione che non riguarda solo l'ortografia, ma che investe il destino di tutto quello che dobbiamo alla grecità.
RispondiEliminaVito Lolli
Ringrazio vivamente tutti i commentatori, ognuno dei quali ha prodotto un contributo prezioso in termini di riflessione sull'argomento da me trattato.
RispondiEliminaDesidero aggiungere però qualche precisazione.
Nel mio articolo intendevo principalmente ( e sommessamente ) indicare una strada di possibile uniformità nella traslitterazione del greco relativa solamente agli accenti; ché, per il resto, da tempo è già tutto stabilito, condiviso, confermato. Appare infatti davvero strano che, una volta fissati con precisione i criteri e le forme della traslitterazione dell’antica lingua, risulti scoperta solo la casella degli accenti, dove attualmente ognuno si regola come gli pare. Il mio intervento si limita insomma a proporre una soluzione unificante.
Aggiungo che tale traslitterazione è in genere occasionale, episodica: si traslìttera una parola o una frase -quasi mai di più- o quando in fase di scrittura non si hanno a disposizione i caratteri dell’alfabeto greco o quando si vuol permettere di leggere il greco anche a chi non lo conosce (ma in questo caso occorre anche la traduzione). Ecco perché, sia per l’episodicità della traslitterazione sia per la diversità di comportamento di chi compie quest’operazione (c’è chi non usa affatto l’accento e chi lo segna su termini sdruccioli e tronchi), mi sono permesso di proporre la soluzione più semplice, chiara e sicura di accentare tutte le parole greche traslitterate. Proprio come avviene nella lingua e nell’alfabeto originari.
(continua)
Quanto poi alla breve digressione nella quale auspicavo un più adeguato uso dell’accento anche nella lingua italiana, in particolare sulle sdrucciole, ma talvolta anche sulle piane, vorrei portare un paio di esempi a sostegno della mia idea. Nella fanciullezza e nella prima adolescenza, quando nelle mie letture incontravo la parola “baule” la leggevo -sbagliando- “bàule”. Quando un insegnante mi fece notare che la lettura corretta era “baùle”, il primo sentimento, che mi giunse come una frustata, fu quello della vergogna, accompagnato da una brama di immediata verifica, che fornì al mio orgoglio ferito risultati deludenti. Il secondo esempio mi riporta a una quarantina d’anni fa quando, giovane professore, in pieno collegio docenti, pronunciai l’espressione “quando valùto i miei alunni...”. Proprio così, con l’accento sulla “u”, perché, essendo il verbo denominale in quanto deriva dal sostantivo “valùta” (con l’accento sulla “u”, perché nessuno si sognerebbe, anche oggi, di dire “la vàluta americana” per indicare moneta di quel paese), non esisteva e ancora non esiste un solo motivo valido (che non sia quello dell'uso) per ritrarre l’accento, nel caso del verbo, sulla prima sillaba. La reazione dei colleghi, fatta di paroline sussurrate, di saputi sorrisetti e di ammiccamenti beffardi, sollecitò la mia reazione con relativa, puntuale e risentita spiegazione/giustificazione etimologica. Faccio notare che quarant’anni fa le due forme (vàluto- valùto) erano ancora in aperta competizione. Oggi il “vàluto” dell’ignoranza linguistica ha stravinto sulla forma corretta, e va bene. Ma io mi rifiuto di usarlo a livello orale e cerco sinonimi e circonlocuzioni, perché non mi sento pronto a supportare (o sopportare) un autentico, e per me troppo recente, errore di pronuncia dell’italiano. Se si fosse usato qualche accento grafico in più da parte di autori ed editori, nel primo caso io non avrei sbagliato l’accento sulla parola baùle , nel secondo non avrebbero sbagliato “valutazione” i miei colleghi.
RispondiEliminaTutto questo per dire che la lingua -ogni lingua- è un codice. Con segni e regole. Proprio come il codice della strada. E se è vero che trasgredendo il codice-lingua non si va in galera né si muore (come può avvenire invece in caso di trasgressione dell’altro codice), è altrettanto vero che nessuno deve sentirsi abilitato all’arbitraria infrazione e all’ingiustificata violazione. Perché, se salta il codice, se cioè saltano le regole, non ci si comprende più, si va alla babele linguistica che già si manifesta in forme preoccupanti, visto che la scuola e la televisione non riescono a svolgere più in questo settore il ruolo positivo d’una volta. E anche la strisciante sottovalutazione dei problemi linguistici, che mi è parsa occhieggiare da qualche commento, contribuisce a minare alla base il processo della comunicazione. Stupisce che qualcuno non se ne sia ancora accorto o non ne abbia piena contezza. Certamente la lingua è organismo vivo e pulsante, quindi soggetta a cambiamenti e integrazioni. Necessarie però, non gratuite. E sempre facendo i conti con il codice, con la regola, cioè con la grammatica. In mancanza, c’è il caos.
Di nuovo grazie a tutti
Pasquale Balestriere