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giovedì 3 dicembre 2015

CLAUDIO VICARIO: "INEDITI"


Claudio Vicario

La pittura di Alberto Burri


Creazioni astratte
in ogni sua fatica dissimili
d’una materia
con l’impeto di una amorosa violenza
squarciata,
frantumata,
lacerata,
come da una geniale violenta catastrofe
annientata,
consunta,
che, con la volontà forte
di farla ancora vivere,
ai secoli futuri la consegna
cicatrizzata
e forte ancora per essere.
E’ l’attuale realtà nostra
e avvenire
rivelata dall’anima
di un genio profetico
fulgente di poesia.
E’ un mondo in rovina
espresso in altro modo
complice la tela:
è questo capolavoro,
in ogni suo animo perfetto,
del Supremo Essere,
che al divino amore
infuocato di un astro
e alle cure
consegnò
vergine intocco,
e che l’uomo,
sé proponendo,
dell’eterna forza creatrice
orgoglioso riflesso,
sta con sé assassinando.
E’ questa nostra terra,            
da secoli di colpa straziata,
che al sole volge i suoi rivoli
di sangue e di pianto
perché li asciughi
e ricomponga,
nell’attesa,
ansiosa attesa,
che un genio buono e diverso
dalla sua inesorabile catastrofe
la purifichi e salvi.


La neve

(A mia madre)

Questa neve che cade

in un tombale silenzio,

bianca e greve,
sulla terra,
dopo la tua dipartita,
or che l’abisso
infinito dello spazio e del tempo
ti divide da me,
me la sento piombare
addosso
ed io, assiderato,
sembro fermarmi
per sempre.
Io solo te avevo
a cui parlare,
confidare, narrare;
solo tu mi sapevi ascoltare;
e sovente
io parlo con me stesso
or che più non ci sei,
e dico liberamente, a lungo,
tante cose,
e non temo di alzar la mia voce,
perché l’anima mia,
udendomi,
s’illuda di confidare
ad alcuno le sue pene,
perché, felice di non trovare in sé
impedimento di pensiero,
si sdoppi,
ascoltando e parlando,
in un dialogo
scevro di turbamenti,
perché nella solitudine,
si senta con sé,
fonte attiva dell’esprimere e udire
dolci e tristi pensieri,
nell’illudersi
che un concettuale “io”
li ricetti
e si compiaccia per essi,
perché la mia anima
alfine si sazi
nella finzione.
E pur talvolta
mi piace immaginare
che tu, madre, mi ascolti;
e allora a te io parlo,
spesso,
nell’illusione che tu,
pur muta, da lontano
possa udire la mia voce.



La nostra Terra


Questa Terra s’è fatta piccola,
un povero osso spolpato,
un corpo sventrato,
svuotato di sé,
con ormai poche risorse,
un avanzo che s’immisera
sotto gl’innumeri
tentacoli della civiltà
sempre insonne,
cieca della propria luce,
inesorabile contro se stessa,
suicida inconscia,
in instancabile cammino
al cataclisma del Tutto.
Ognuno nel tempo
moltiplica
all’infinito
se stesso,
e in ogni nuovo figlio
di questa Terra
l’avidità di agi
s’accresce,
restando sempre uguale
anzi depauperata
la madre,
e spreco e lusso
e orrenda lussuria
e avidità di denaro,
non più serietà
di vita,
né ordine,
né amore fraterno
domina il mondo.
Gli uomini: bestie
da ingrasso non mai sazie
alla ricerca
di raffinati
cibi e primizie.
Ogni più grande valore
umano
sovvertito;
la vera
religione d’un tempo
ridotta
a sontuosi banchetti
nei dì di festa,
senza più carità
né fervor di preghiera,
e la vigilia,
rimedio un tempo
alla salute
dell’uomo,
passata
pasteggiando le carni,
e l’amore uno scherzo
vuoto di contenuto,
e talora
i casti voti
una beffa,
e la scuola
un groviglio di leggi
avide
di sovvertire il passato
che pure
grandi uomini generò,
e il lavoro un inganno
e il pane,
un tempo benedetto,
pur muffito,
a pezzi rifiutato
e irriso,
sparso ovunque
a schernire chi ha fame!



La mia chitarra


Bianchi vapori
s’attardano nella valle
umida e nebbiosa
ed io ho ripreso
a pizzicare le corde
della mia chitarra
che ha accompagnato
i sentimenti più belli
della mia gioventù,
dimenticata nel buio
di una soffitta
per tutta una vita.
Dolce è il lamento
della mia chitarra
che ho fatto tacere
per tanto, troppo tempo,
in un muto silenzio
che sconvolge i sensi
e risveglia memoria
di antichi ricordi.
Mi pongo domande:
ma non c’è  risposta
al voluto silenzio
del pianto del vento
sulla collina.



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