Giannicola Ceccarossi: BIRKENAU. Ibiskos Ulivieri. Empoli. 2016. Pg.
56. Euro 12,00
Non ci sono uccelli
Non stridi
Non canti
Lontani dalla morte
Vi è qui tutta la desolazione che
esprime un deserto di morte e di solitudine. Vi è l’energia di un lessico che
cerca con tutta la sua forza di aggrapparsi ai subbugli di un’anima. E vi è una
natura secca, senza suoni, senza voli, senza presenze: tutto sta lontano da una
terra memore di eccidi. Questa plaquette di Ceccarossi segna un passo in
progress. Una stesura diversa da quelle a cui ci ha abituati.
Sì, linguaggio nuovo, più stretto,
affollato, conciso, verticale; le parole si susseguono con grande spessore
etimo-visivo; gli elementi naturali con la loro asciuttezza contribuiscono a
dare forza iconica al linguismo. Un gioco sottile e drammatico di verbi che si
rovesciano sul foglio gorgogliando come fiotti di acqua da una fiasca
rovesciata. Tanti sono gli etimi che vogliono uscire; tante le passioni che si
vogliono concedere ad un a visività fatta di corpi straziati, di mondi
solitari, di forze maligne, di dolori indicibili, di memorie infangate dalla
malvagità umana. Campi di concentramento nazisti; Dacia, Bergen-Belsen,
Auschwitz; e Birkenau che dà il titolo all’opera. Il poeta nella sua esplosione
epigrammatica si fa lago che riflette immagini segmentate, frastagliate per
l’ondulare delle acque; nuove, allungate,
ingrossate, svisate da una forzatura di naturale empito. Questa plaquette ci dà
la netta visione della potenza creativo-verbale su cui l’Autore gioca. Una
parola attenta, costruita con inventiva, con energica intuizione, con iuncturae
metaforico-allusive, associative; con abbrivi che toccano punte di alta
drammaticità:
E’ grano maturo il cielo
Cielo perduto
Quanti?
Quanti?
Qui l’inferno
Si estingue un debito
Un tributo
E’ inutile prolungare versi in espansioni
narratologiche. Il lettore deve restare colpito da un dettato breve e conciso;
da saette che arrivino con forza devastante al cuore, alla mente e all’anima:
Campi, campi
Senza fiori senza fiori
Ciminiere
Betulle betulle
E rotaie
Consumate
E’ fumo il tempo
Madri figli padri…
Tutto è indirizzato allo scopo;
ogni singolo termine è tanto robusto da essere di per sé sufficiente al verso:
reiterazioni verbali e sonore per captare l’attenzione; per convogliare la
lettura verso l’essenziale: tutto è brullo, non ci sono fiori, solo betulle che
con le loro enormi chiome toccano il cielo (forse per chiedere perdono); natura
e umanità si embricano fra loro in una sintesi dai colori grigio-scuri; rotaie consumate quanto l’animo umano; il
tempo è fumo che vola ma che non potrà mai cancellare la memoria di tale
brutalità; un fumo agro, forse, dall’odore di carne umana; un fumo di carni cremate
che si alza verso le nubi; verso una
redenzione e una spiritualità che condanna e rifiuta la terra.
Infinite le occasioni di
accorpamento fra dire e sentire: un elenco terminologico senza riposo dove
risulta persino inutile la punteggiatura nella foga di dar corpo ad un dettato
di forte entità ontologica. E qui studiare il verbo, destrutturalo, scomporlo,
frazionarlo per ricomporlo in tutta la sua forza evocatrice significa andare a fondo
al significato e al significante di questa sinestesia poetico-filologica; di
questa operazione poematica che si conclude con un grido violento in un
silenzio di luci spente:
Un grido
Violento
Prolungato
Poi
la luce
spenta
Per sempre
Per sempre
Nazario Pardini
È un Ceccarossi insolito, questo di Birkenau. Abituato a un poeta che declina la vita negli aspetti più suadenti dell’amore, sono rimasto inchiodato di fronte a un titolo che evoca ben altra realtà.
RispondiEliminaTuttavia parla chiaro il colophon, che reca come data di stampa il 27 gennaio; e anche il sottotitolo, “memoria”. Ma, prima ancora, nella mente del lettore si accampa, gravido di suggestioni dolenti, il titolo. Di Birkenau, luogo di efferata violenza e di bieco annullamento di ogni umanità, non v’è chi non sappia. Della necessità di ricordare, anche. E Giannicola ha buona memoria.
Eppure, alla lettura, il cuore, che pur si teneva difeso, subito si è fatto pesante; poi è entrato in sofferenza. A mano a mano che una sintassi secca, scandita, incisiva e un lessico quasi esclusivamente nominalistico (solo nell'incipit dell’ottava poesia si incontrano, in frequenza eccezionalmente alta, ben cinque verbi in cinque versi) mi ponevano di fronte uomini, cose, situazioni, paesaggi nella loro terribilità, una forma di opprimente malessere -non so se a piccoli fiotti o a lento corso- invadeva i precordi, poneva l’assedio al cuore. Il fatto è che il lettore si trova preso a volo dal laccio del doloroso coinvolgimento, della travagliosa partecipazione: dove la parola -ogni parola- è amo aguzzo che artiglia, si nutre di potenza epigrafica, si erge, da sola, a verso e irrompe, riempiendo con la sua carica semantica tutto lo spazio bianco, gridandovi la costernazione verso la barbarie. La parola si offre, molto frequentemente attraverso lo strumento della reduplicazione, a sottolineare, anche fonicamente, l’orrore che è capace di generare l’essere umano disumanizzato e inselvatichito .
Se Giannicola Ceccarossi, con il suo “Birkenau”, aveva intenzione -come pare del tutto evidente- di portare il suo contributo poetico al “giorno della memoria”, ha raggiunto in pieno il suo obiettivo. Per di più supportato da un dettato poetico ch’è il distillato d’un accavallarsi di pensieri, di un susseguirsi di sensazioni, di un affollarsi di recuperi memoriali; e che raggiunge la sua acme con un linguaggio prosciugato fino alla più lapidaria essenzialità.
In ultimo vorrei fare i complimenti a Nazario per la sua accurata e penetrante lettura dell'opera protagonista in questa pagina.
Pasquale Balestriere
Magistrale lettura questa di Pasquale: una straripante forza emotivo-verbale di rara potenza esplicativa di un maestro della parola; di un uomo che sa tradurre le frustate della terra nella bellezza del canto. Grande esegesi, caro amico.
RispondiEliminaNazario