Adriana
Pedicini: I luoghi della memoria.
(Racconti sul filo della memoria e altri racconti). Edizioni Il foglio.
Piombino (LI). Pg. 150. € 12,00
I luoghi
della memoria il titolo di
questa plaquette; due le sezioni in cui si divide l’opera: la prima eponima; la seconda Altri racconti, che narra di vicende umane, di ostacoli, vicissitudini, di un viaggio attraverso cui
guadagnarsi la luce di un faro; la scopetta di se stessi: “… Il titolo del
romanzo della sua breve vita era chiaro: “La prima volta che ho incontrato
davvero me stesso”.
Già avevo avuto occasione di scrivere sul libro dell’Autrice “I
luoghi della memoria” editato per i caratteri di Arduino Sacco Editore.
Roma. 2011: “… narrazione agile, paratattica, apodittica, dove
l’Autrice, con recuperi memoriali di grande intensità emotiva, riesce a
trascinare il lettore nelle storie che si susseguono con incalzante fecondità;
che ci dicono di vita, e soprattutto di immagini risultanti da una realtà
rimasta a decantare nell’animo della Pedicini; che si fanno presenti con empito
suggestivo e coinvolgente; tanto che naturale è seguire i contenuti delle
storie, leggerne i risvolti, coinvolti da trame semplici nella loro complessità
umana. I luoghi, i personaggi, gli ambienti, reali o immaginari, sono
delineati con tratti ora gentili, ora forti, ora georgico-bucolici, ma pur
sempre scaturiti da un’anima zeppa di vita e adusa ad una poesia di ricerca
meditativa; e il tutto finalizzato a concretizzare la psicologia dei personaggi
in gioco. Sequenze narrative, introspettive, descrittive si alternano
vicendevolmente, affidate al supporto di una narratologia di pienezza
ontologica…”. Una narrazione quella della Pedicini pervasiva e persuasiva che
con una pratica adusa alla scrittura riesce a cantare storie che tengono in
seno volti, fatti, profumi di campagna, amori, affetti, illusioni, delusioni;
un viaggio che tanto ci dice della vita della Scrittrice, in tutti i suoi
risvolti, in tutte le sue dilatazioni; ma soprattutto un recupero partecipativo
di memorie che, unite l’una all’altra, si combinano in una collana di perle rimasta in
un cassetto per tempo e tornata verniciata di nostalgia, saudade, inquietudine;
di voglia di vita salvata in tutta la sua interezza da un oblio che tutto
annienterebbe. E’ questo il filo rosso che fa da focus coagulante delle storie: il
memoriale. Ha una grande funzione, dacché è il serbatoio principale a cui
attingere per il processo creativo di immagini di un travaglio intimo della
realtà. Ogni fatto, ogni abbrivo, ogni paesaggio, ogni incontro, ogni vicenda
ha bisogno di sedimentare nella mente di un pittore o di un musicista o di uno
scrittore; ha bisogno di incrostarsi di tempo e di sostanza epigrammatica per tramutarsi
in immagine; per farsi nutrimento del verbo, dei corpi lessicali che la devono
concretizzare. Questo avviene in Adriana Pedicini; il suo è un repêchage
armonico e autobiografico; una lotta continua contro il fluire della sabbia di una
clessidra volta ad annullare i tratti emotivi a cui Ella è avvinta
tenacemente. D’altronde l’anima dell’arte è il sentimento; la ragione, semmai,
tende a freddare quegli impulsi emotivi che nascono improvvisi, imprevisti, e
imprevedibili dentro noi: “Höldernin nove anni prima di essere ricoverato in
una clinica per alienati mentali, chiede nella lirica Iperione o l’Eremita della Grecia,
al “canto” che sia per lui “rifugio amichevole”, affinché la sua “anima,
raminga e senza radici/ non smanî di oltrepassare la vita” e divenga “luogo di
felicità (…) giardino curato con premuroso amore,/ ove aggirandomi tra fiori in
perenne fioritura,/ in sicura semplicità io abbia dimora,/ mentre di fuori con
tutto il suo ondeggiare/ il tempo possente, il tempo mutevole rumoreggia
lontano”; e nell’elegia Pane e
vino invita tutti i poeti a
unirsi in un’universale fratellanza: “… e molto (buono) ascoltare dei giorni
d’amore,/ dei fatti che accaddero un tempo/… Sono i poeti, a fondare quel che
rimane (Was bleibt aber stinte die Dichter)”. Trovare la serenità là da dove
siamo partiti è forse il sistema migliore per calmare il disagio che
incontriamo misurandoci con il tempo e la morte, se non si vuole impazzire.
Questo è il giardino della Nostra ed è in questo lembo di terra che crescono
fiori policromi, soli straripanti, terre feconde disposti ad alimentare api per
il miele della narrazione; disposti a un travaso di palpiti poetici in questo
timbro di scrittura. E non è di sicuro azzardato parlare di prosa poetica,
soprattutto in momenti in cui la Scrittrice ri-visita mura, stradette,
orizzonti, o volti della sua storia. Ha intenzione di dar loro una iniezione di
foscoliana memoria, ricorrendo al passato o all’onirico per vincere il potere
del tempo; ricorrendo, epicamente, alla natura, a tutte le sue vertigini
paniche, per farne una cornice in cui inquadrare gli impatti ontologici
lievitati nella sacca dei giorni; a lungo andare tutto si fa degno di essere stato
vissuto e di essere tramandato oltre lo spazio breve di un soggiorno; un
leitmotiv che unisce indissolubilmente: emozione, scoperta, meraviglia, sorpresa. Sì, la Pedicini sparge
la sua anima in tutte le cose che tocca, tinge di sé ogni parvenza, ogni
brandello del vissuto. Fantasia, immaginazione, realtà si susseguono, dandosi
la mano in una simbiotica fusione di affetti e di speranza in questo spartito
narrativo che poggia il suo stilema su un andare fresco e risolutivo; amabile e
fluente; su un proporsi che riporta a memoria una pagina di un grande romantico: “La ragione non ha mai
asciugato una lacrima e la filosofia può riempire pagine di parole magnifiche,
ma dubitiamo che gli sfortunati vengano ad appendere i loto vestiti al suo
tempio…” (Génie du Christianisme di Francois-René de Chateaubriand).
“Noi siamo quello
che ricordiamo/ il racconto è ricordo/ e ricordo è vivere” afferma Mario Luzi.
E ricordare significa anche avere coscienza del tempo che fugge, della
precarietà del nostro esserci ma anche l’unico verso di vincere la morte. D’altronde sentirci umani vuol dire entrare
in quella dualità fra luce ed ombra che logora e inquieta; è il nostro destino:
piedi a terra e anima votata all’azzurro; un pascaliano “… milieu entre rien et
tout” simboleggiato in un fiore reciso dalla falce del tempo. Questa è la storia
umanamente complessa di Adriana Pedicini; una storia che richiama, con le sue
meditazioni, ad una partecipazione, dacché ognuno di noi vi trova gran parte
del suo vissuto; un desiderio che trova posto nel silenzioso grido di un canto:
Vorrei che l’ultimo bacio
sfiorasse le mie labbra
come il primo,
quando petalo
di rosa odorosa umido posava
con lama di luna
sulla bocca mentre a stento
il pudore frenava
il carro impazzito del cuore.
Lacrime di ambra
saranno a me diadema
e lieve mi coprirai con coltre
di purpuree foglie
sazie di luce e
gialli petali stanchi di sole.
Nazario Pardini
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