Claudio Fiorentini, collaboratore di Lèucade |
Le parole sono sacre. Meritano rispetto.
Se scegli quelle giuste nel giusto ordine, puoi spostare un pochino il mondo.
(Tom Stoppard)
Le parole possono essere forti, deboli,
inutili, incomprensibili, clandestine, provocatorie, ignoranti, ciniche,
fuggenti, brillanti, utopiche, vane, pesanti, ridicole, inventate, insane,
bullistiche, impressionanti, false, vere… ma alla fine sono solo parole. Il
punto è, cosa ci facciamo con le parole? Cosa tentiamo di inserire in questi
suoni e ritmi? Tentiamo di comunicare, di esibirci, di conquistare, di
persuadere, di ingannare, di sedurre, di imporci… o semplicemente di
conversare, di giocare, di dare un senso… a ciò che senza parole un senso non
ha? E poi, da ogni discorso ci sono sempre delle parole che sono state escluse
perché considerate non necessarie… eppure continuano ad essere strumento per
noi che con esse ci collochiamo nella realtà. Se le parole escluse dai discorsi
fossero utilizzate per fare altro? Vediamo però cosa facciamo con le parole, a
volte anche cose importanti. Cito Franz Josef Strauss: i dieci comandamenti
contengono 279 parole, la Dichiarazione Americana d’Indipendenza 300 e le disposizioni
della comunità Europea sull’importazione di caramelle esattamente 25.911.
Parole… e pensare che il fine della parola dovrebbe essere quello di
comunicare.
Ma come è nata la parola? Diceva Gabriel
Garcia Marquez: Le parole non vengono create dagli accademici nelle accademie
bensì dalla gente per strada. Gli autori dei dizionari le catturano quasi
sempre troppo tardi e le imbalsamano in ordine alfabetico, in molti casi quando
non significano più ciò che intendevano gli autori.
A me piace immaginare questa scena. Due
uomini delle caverne che comunicano a gesti e suoni si allontanano dalla
caverna, sono per un attimo soli, lontani dal branco, animali liberi che
decidono di andare al fiume e aspettare che i pesci si lascino catturare. Sono
lì che osservano il fiume, non emettono nessun suono, conoscono il silenzio, è
un loro alleato per le uscite di caccia o di pesca… d’un tratto un pesce salta
sulla superficie dell’acqua, uno dei due emette un suono specifico, articolato,
forse Glublulu, e si rende conto che ha fatto qualcosa di nuovo, ha risposto a
uno stimolo dell’ambiente con un suono preciso che riproduce in lui la stessa
sensazione che ha avuto quando ha visto il pesce saltare. Guarda il suo
compagno e gli dice glublulu, il compagno lo guarda e sorride senza sapere
perché, il primo indica l’acqua e dice glublulu. Aspettano ancora, un altro
pesce salta e il primo ripete, sorridendo, glublulu, glublulu… allora il
secondo dice glublulu perché ha capito. Glublulu significa pesce che salta sul fiume.
I due non ce la fanno più, iniziano una danza sfrenata ripetendo glublulu,
sanno che per dire “andiamo a cercar pesci possono evitare di grugnire e
gesticolare, basta dire glublulu: hanno scoperto la parola. Allora tornano al
branco senza bottino di pesca, ma guardano gli altri ridendo e dicendo
glublulu, glublulu. Il branco non capisce, ma a gesti i primi due li convincono
ad andare al fiume, allora tutti seduti in silenzio aspettano finché salta un
pesce, i due dicono felici glublulu, ridono, saltano, giocano, ballano… e piano
piano il branco capisce… e tutti a dire glublulu. È nata la parola. È nato un
codice di comunicazione che con un suono riassume un evento, un simbolo
fonetico, necessariamente onomatopeico, necessariamente bio-logico, già, perché
la parola ripete la sensazione dell’evento senza che l’evento debba riproporsi.
La parola è come uno yoga della mente e degli organi vocali, è esercizio
fisico, respiro, azione inattiva… la parola è comunicazione di qualcosa
attraverso un’altra cosa, la sensazione, appunto, quella che si riproduce
attraverso un suono emesso in un certo modo, non in un altro modo… per questo
la parola deve essere detta come si deve, usata come si deve, pronunciata come
si deve… un mantra, insomma.
Del resto, anche Keynes diceva: Le parole
debbono essere un po’ selvagge perché sono l’assalto del pensiero
sull’impensato.
Bene, oggi che ci siamo allontanati da
quella purezza cavernicola, cosa facciamo delle parole? Dice Pirandello: Come possiamo intenderci se nelle parole ch’io dico metto il senso e il
valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta,
inevitabilmente le assume col senso e il valore che hanno per sé, del mondo
com’egli l’ha dentro? Ecco cosa abbiamo perso con i millenni: il
senso univoco della parola, il significato universale, accomunante,
identitario. E tutto questo perché? Perché l’educazione linguistica ci
allontana sempre di più da quello che è stato in principio il senso,
aggiungendo sensi personali, legati all’esperienza personale. E allora, come venirne fuori? Come ridare alla parola il suo senso
primitivo e primario? Qualcuno ci ha provato con la filosofia, ma non è
bastato, la confusione ha preso il sopravvento… altri ci hanno provato con
qualcosa che non si spiega, e che chiamiamo arte. E non era arte quello che i
nostri due amici trogloditi hanno espresso nel loro scoprire la parola
glublulu? Non era poesia quella prima spontanea parola? O era scienza? O forse
in quel primo momento scienza, filosofia, arte e discipline esoteriche si sono
fuse per dar forma a quel suono?
Diceva Meister Eckhart: Le parole non sono
identiche alle cose. Conoscere delle parole relative a dei fatti non equivale
in nessun modo alla comprensione diretta ed immediata dei fatti stessi.
Ora però fermiamoci qui, non cadiamo nella
trappola della filosofia. Riassumiamo solo dicendo che l’arte nasce per
comunicare quello che i codici di comunicazione non riescono a comunicare. L’arte è
un modo inedito di comunicare. Che si usi il colore, la forma, il suono, il
ritmo, in sostanza si usa lo spazio-tempo. E l’arte, usando lo spazio-tempo che
gli è contemporaneo, deve vivere ai margini perché nasce da un disegno
interiore e profondo, non ha senso, non ha guida razionale, non ha spiegazione.
Come i nostri due amici trogloditi che hanno scoperto la parola in un momento
di totale abbandono, lontano dal gruppo, così il poeta vive, perché c’è
probabilmente un momento in cui il poeta (l’artista in generale) rivive quella
scoperta troglodita, riscopre quel glublulu, capisce che ha in sé la
potenzialità dello stupore, e lo cerca, cerca in sé la formula che traduce
l’abisso, la grandezza, la vita senza forma, e gli dà forma. La poesia, per sua
natura, è esclusa da tutto ciò che razionalizza. Almeno da lì nasce. Come si
sviluppa poi è affar suo.
E concludo citando Giovanna Mulas: Ciò che
ti domando è un'assoluta perdita di controllo dominata da una perfetta capacità
di controllo. Nudi davanti al Lettore: le parole devono farsi nuove,
frastornare, stupire senza ipocondrie morali. Fino a quando non sarete pronti a
questo, non fatevi chiamare ‘scrittori’.
Claudio Fiorentini
Grazie Claudio per questa tua bella riflessione. L’arte, qualsiasi arte, io credo tenda a rappresentare un evento. La forma che l’artista persegue è quanto di più vicino possa sentire alla sostanza. Ontologicamente, nessuna produzione artistica, potrà mai eguagliare la perfezione dell’evento che la genera. Lo spazio e il tempo, la loro relatività, ormai conosciuta, sono percezioni che portano con sé, oltre al qui e ora, anche un prima e un dopo. Il tutto si inscrive, si pensa, nell’evento percepito. Il cassetto dell’intuizione, dell’esperienza e del sensibile, ci dà l’apparenza della realtà, la sua possibilità. Cos’è un evento se non l’osservazione di un fenomeno? L’osservazione di un fenomeno prodotto da mente e cervello in relazione al mondo esterno. Esso dunque, non potrà avvalersi di completezza assoluta poiché è contemporaneamente anche altro, anzi, soprattutto direi. Lo scarto essenziale sta, a mio avviso, nella scoperta, in contraddizione al pensiero logico della nostra mente; nella mancanza; nello spazio vuoto della forma. Lo spazio è ciò che abbiamo in mente. E’ locus mobilis. Ciò che è corrispondente al reale, è mobile e mutabile ad ulteriori fattori intrinseci ed estrinseci, ai fatti e alla percezione degli stessi. Punto di vista, spazio-tempo, fenomeno e osservatore sono gli attori, il nucleo attorno al quale tutto “gira” e si dipana. Viviamo, vediamo, percepiamo, giudichiamo eppure qualcosa ci sfugge. Qualcosa di non visto, non ascoltato che pure esiste. “Di tutte le cose sicure la più certa è il dubbio”, ci dice Brecht. Straniamento dunque, ci vorrebbe nell’osservazione di un fenomeno che è corruttibile. In letteratura le cose non cambiano di molto. Un testo(parola) prende forma dall’intuizione dell’autore per passare a quella del lettore modello il quale diventa a sua volta, autore di un nuovo testo. E allora, non ci resta altro che cercare la logica dell'illogico, di quel che sta tra il sensibile e il non conosciuto. Questa è la mia l'utopia, cioè la possibilità che attende di essere. La realtà è plastica, arrendevole e, forse, potrebbe esistere tra il significante e significato, tra un’immagine e la sua specularità.
RispondiEliminaPatrizia Stefanelli
E' possibile un linguaggio senza pensiero? L'onomatopea è una spiegazione molto esauriente dell'origine delle parole, ma come mai gli animali, i vegetali e i minerali, che vivono come l'uomo dei primordi a contatto con la natura, non sentono il bisogno di riprodurne gutturalmente i suoni? Evidentemente, affinché nasca la parola, c'è bisogno del pensiero, o meglio di quel particolare modo di pensare che è proprio dell'uomo. Io non credo che gli altri esseri del creato siano sprovvisti di pensiero. La vita è tutta intelligente, ma ci sono varie tipologie di intelligenza, e quel tipo di intelligenza che crea le parole è propria soltanto dell'essere umano. Nell'uomo stesso, d'altro canto, esistono svariati modi di pensare. C'è quel tipo di pensiero che elabora per proprio conto e si astrae dalla vita (intelligenza razionale), e c'è quel tipo di pensiero che vive in comunione con il creato (intelligenza vitale), dal quale nascono le parole con effetto di stupore rivelativo. Ed è questo il miracolo della poesia. La poesia nomina per la prima volta il mondo, e lo rinomina sempre per la prima volta a prescindere dall'uso di parole già note. Ciò che conta, affinché nasca il linguaggio, è che ci sia un effetto rivelativo. E che cos'è la rivelazione, se non conoscenza? Le parole nascono dall'esigenza di conoscere il mondo, ma di conoscerlo vivendolo intensamente in prima persona, e non astrattamente, razionalmente, aridamente, come per sentito dire. Nell'uomo tutto è conoscenza, tutto è cultura. Bisogna tuttavia distinguere tra cultura intellettualistica (che ovviamente ha il suo ruolo da svolgere, nessuno lo esclude) e cultura creativa che dà cose nuove, conoscenze di prima mano.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Intervengo con piacere raccogliendo le sollecitazioni di Claudio,davvero molto interessanti. D'altro canto, la parola è lo strumento attraverso il quale è possibile dare forma al pensiero, ed è ovviamente indispensabile a chi voglia cercare di comunicare in modo diverso dall'ordinario.
RispondiEliminaTuttavia - come si legge nell'articolo proposto, citando Marquez -: "Le parole non vengono create dagli accademici nelle accademie bensì dalla gente per strada. Gli autori dei dizionari le catturano quasi sempre troppo tardi e le imbalsamano in ordine alfabetico, in molti casi quando non significano più ciò che intendevano gli autori.".
Ecco, vorrei prendere spunto da questa giusta considerazione per avvalorare il concetto espresso da Fiorentini: la parola è il mezzo (dell'uomo; non solo degli scrittori) che abbiamo per comunicare, laddove - però - la comunicazione venga intesa come trasmissione di qualcosa che travalica il significato stesso e si spinga al di là del circoscritto ambito colloquiale, necessariamente formale e infarcito di luoghi comuni.
Per queste ragioni, non è facile rintracciare il senso originario del discorso; ciò nonostante esso c'è, c'è sempre. E quando la parola (in momenti di grazia) riesce in questo intento, diventa rivelatrice e, in qualsiasi epoca, si fa poesia.
Dice ancora Claudio, immaginando la scena dei primitivi (ottimo esempio): "non era arte quello che i nostri due amici trogloditi hanno espresso nel loro scoprire la parola glublulu? Non era poesia quella prima spontanea parola? O era scienza? O forse in quel primo momento scienza, filosofia, arte e discipline esoteriche si sono fuse per dar forma a quel suono?" Era un tutto indistinto - aggiungo -; era l'uomo nella sua interezza (anche se sulle discipline esoteriche bisognerebbe discutere, ma non è questa la sede).
Ciò che mi preme sottolineare, però, è che tutto questo non è andato perduto, è qui, con noi, dentro di noi: non può spegnersi il fuoco che ci tiene in vita.
E concludo - ringraziando, e complimentandomi con Claudio, per lo spunto, al quale, me lo auguro, anche altri amici vorranno dare seguito - sposando in toto il pensiero di Giovanna Mulas: "Ciò che ti domando è un'assoluta perdita di controllo dominata da una perfetta capacità di controllo": mi sembra un'indicazione validissima per chi, della parola, voglia fare arte.
Sandro Angelucci
Apprezzo molto il modo arguto e colto con il quale Claudio Fiorentini tratta l'argomento proposto. Per quanto mi riguarda ho sempre avuto un grande rispetto per le parole. Certo, per dirla alla Pirandello, in esse io posso mettere “ il senso e il valore delle cose come sono dentro di me”, ma già cercare di intenderle come potrebbero essere interpretate da un ipotetico interlocutore, costituisce un buon esercizio utile alla chiarezza della comunicazione anche quando, nel modo che richiama l'Angelucci “la comunicazione è intesa come trasmissione di qualcosa che travalica il significato stesso e si spinge al di là del circoscritto ambito colloquiale.”
RispondiEliminaPer le cose difficilmente esprimibili o addirittura indicibili l'unica via possibile anche se terribilmente difficile è l'Arte facendo leva su quella Cultura Creativa a cui fa cenno Franco Campegiani.
Un plauso al'autore de: Le parole sono Sacre!
Ubaldo de Robertis
Leggo con piacere i commenti di Patrizia, Franco, Sandro e Ubaldo. Grazie dei vostri contributi. Vi saluto con un mio piccolo testo, pubblicato su Grido un anno fa:
RispondiEliminaEsplodono lapilli nuovi
dove prima era vento e sabbia
si sfaldano volando e si scolorano
fino a scoprirsi pietra inerte
Quest’esplosione è in fondo la poesia?
se adesso le parole sono pietre
cos’eran prima, magma borbottante?
Claudio Fiorentini