Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Claudio Fiorentini, collaboratore di Lèucade
Fermata del bus, di Claudio Fiorentini
(Ciampino,
"Il Piccolissimo" - 10 / 05 / 2016)
Fermata del bus, di Claudio Fiorentini, è la storia, scritta in prima persona ma non
autobiografica, di un manager aziendale
cinico, egocentrico, che, bersagliato da una girandola di amare e comiche
vicissitudini, viene infine sopraffatto da una crisi devastante di valori, da
cui esce profondamente rinnovato. E' questa la storia, dunque, di uno
smarrimento esistenziale che si snoda con vari colpi di scena, in un crescendo
rossiniano, per buoni tre quarti del libro. Ma è anche la storia di una
rinascita interiore, di un'innocenza ritrovata, che prende corpo nelle
ultimissime pagine con parole sobrie e senza indugi retorici, in una disarmante
semplicità.
Il protagonista non ha
nome, è un uomo qualunque, uno dei tanti di cui la storia non parla (e neppure
la cronaca), la cui humanitas è
comunque paradigmatica. E' l'esempio vivente di ciò che dirà un personaggio
secondario del testo il vecchio,
leggendo ad alta voce alla fermata del bus: "Vedete, si può essere un uomo
insignificante, un pessimo marito, un padre mediocre o una nullità al lavoro,
ma c'è sempre un momento, un magico momento in cui qualsiasi uomo, per quanto
il suo passaggio sulla terra possa apparire inutile, si annovera tra i molti
eroi che popolano questa terra e di cui non si sa nulla".
Fiorentini ama i
toni bassi, non quelli ridondanti e retorici, non i compiacimenti sentimentali
e patetici, e presenta con asciuttezza, con moderazione, il rinsavimento di un
uomo che, dopo tanto squallore, ritrova il gusto per la vita, per le cose
semplici, per i sentimenti puliti, elementari. Ed è la stessa misura con cui
tratta, nel primo tempo del racconto, situazioni squallide e grette, scene
morbose, rancorose, dense di meschinità. Neppure in tal caso l'autore indulge agli
eccessi, al gusto per il tragico, per il fosco, per i turbamenti psichici. La
scrittura è lieve, sobria, limpida e frizzante, piacevolmente incline all'umorismo
sottile e surreale.
La seriosità è al
bando (la serietà è un'altra cosa). All'autore piace giocare, ma il suo - ce ne
rendiamo conto pian piano nel corso della lettura - è un gioco serio, non un
gioco puramente evasivo. Lo svolgimento è cronachistico: praticamente un diario, distinto per i vari giorni della
settimana, la cui azione si protrae per tre settimane, con un'appendice brevissima
che ritrae l'autore ad un anno dalle vicende narrate. Scrittura spassosa,
esilarante fin dalle prime battute. L'auto del protagonista, finita contro un
albero, è dal carrozziere, così lui è costretto a prendere l'autobus per andare
al lavoro. L'azione inizia così.
Sulla banchina
incontra gente di cui non avrebbe sospettato l'esistenza, come quel vecchio che
legge, appunto, e che sghignazzando annuncia la fine del mondo; o come la
signora piacente con cui familiarizza sperando in una tresca amorosa; o come il
ragazzino con lo zaino che puntualmente lo spintona, ma con cui si sforza,
malgrado tutto, di essere educato. E scopre l'esistenza di una tacita,
stravagante e libera associazione, i cui adepti, dietro l'esempio del vecchio,
scrivono e leggono a turno le loro storie. Un'umanità che lo infastidisce e che
lui cerca di ignorare (con esclusione della signora, s'intende, per ovvie
ragioni). Lui non ha tempo da perdere, ma è gente, quella, con cui deve pur condividere
quei momenti della giornata. E si sforza di essere conciliante, accomodante, "per
non essere scortese".
Questa locuzione,
"per non essere scortese", è ripetuta molto spesso nelle pagine del
libro, come un ritornello della falsità e dell'ipocrisia, delle sproporzioni
tra il pubblico e il privato, della maschera imposta dalle convenienze sociali.
"Buongiorno, buonasera, come va?, eccetera": non è vero interesse per
l'altro, che in realtà si vorrebbe ignorare e di cui si farebbe volentieri a
meno. Non è rispetto, ma adeguamento bugiardo al piattume, alla banalità, allo
scialbore. Tutti uguali, tutti fatti con lo stampino, fotocopie l'uno dell'altro,
senza autenticità e senza originalità. Il quieto vivere, il livellamento, il
ritratto della massificazione e dell'omologazione, della società liquida in cui
viviamo.
Amiamo nasconderci,
chiuderci nella nostra mattonella, nell'illusione di non avere ripercussioni. Invece
le ripercussioni ci sono, perché ci nascondiamo a noi stessi, o tentiamo di
farlo con risultati fallimentari. Possiamo infatti nasconderci agli altri, non
a noi stessi, perché l'inconscio ci ritrova. L'inconscio non vuole mordacchie e
spezza ogni briglia, con scossoni paurosi, con mostri e fantasmi, con
esplosioni irrazionali su cui il nostro autore giustamente ironizza per
sdrammatizzare. Ed ecco all'improvviso la crisi. Giunge con passi felpati, non
la riconosci. Una sensazione di vuoto improvvisa rivela l'insensatezza del tran
tran quotidiano: "Mi sento incompleto, mi manca qualcosa".
Per compensare, il
protagonista si tuffa nel lavoro, si porta a casa il lavoro, si ritira nello
studio, ma è un disastro. Il tablet, su cui sono i dati per lavorare, annega
nel caffè e resta inservibile. Il giorno dopo va in ufficio come un robot; poi
esce dall'ufficio, va con Lor, una collega, con cui automaticamente consuma un
atto sessuale. Torna a casa: solite cose. Si sveglia al mattino: solite cose.
Ma se qualcosa di diverso accade, come quella mattina che alla fermata del bus
non trova nessuno, se ne rammarica. L'abitudine è una droga, non se ne può più
fare a meno. E la sensazione che manchi qualcosa si fa sempre più pressante.
La moglie e l'amante
(Lor, che a sua volta se la fa pure col capufficio) sono entrambe incinte. Lui,
certo di essere sterile, le tratta da troie entrambe: "Questo mondo
ignobile, popolato di cretini e sgualdrine, e io che devo combattere con loro
tutti i santi giorni". Intanto però compare anche Ivana, una sudamericana
conosciuta durante un viaggio che costituirà il perno involontario del suo
rinsavimento. E poi ci sono altre donne, come la moglie del carrozziere e la
signora del bus di cui abbiamo parlato, con cui non succede niente, ma che
alimentano le sue fantasie sessuali. Oltre alle donne che gli complicano la
vita, ci sono altri problemi, come la macchina, la station wagon che, appena ritirata dal carrozziere viene di nuovo
ammaccata, per finire poi in fiamme dopo un serio guasto meccanico.
Ed ecco l'orologio
svizzero di alta precisione che all'improvviso smette di funzionare. Tutti gli
oggetti, tutti i feticci (donne comprese) che riempiono la sua giornata si
sgretolano e anche sul lavoro le cose non vanno bene, con il capufficio rivale
in amore. La scrittura si fa sempre più nervosa, la punteggiatura ansimante,
per seguire l'affastellarsi onirico di tante situazioni paradossali. E di tanto
in tanto il vecchio che si tuffa
sulla scena con i suoi deliri apocalittici. Per non parlare dell'atletico
pedone che chiede scusa per essersi lasciato investire, e ci manca poco che
ringrazi i suoi investitori. In tanto frastuono, il protagonista, sopraffatto
dal vuoto e dalla noia, dice a se stesso: "Non succede mai niente qui,
tutto uguale".
L'assurdo invade le
pagine in un umorismo non sghignazzante, ma freddo e controllato. Nel suo
ufficio il protagonista piange e si dispera, quindi si addormenta e sogna la
sua anima sotto forma di una bionda dolcissima che gli si concede. Prima di
andarsene, la donna gli dà una rivista con sei pagine mancanti: sono le foto di
Ivana, la sudamericana assassinata da uno spasimante che gliela aveva contesa.
E di nuovo il vecchio con la sua fine del mondo: compare e scompare. Intanto,
dalle analisi impostegli separatamente dalla moglie e dall'amante, il nostro
risulta fertile, non sterile come aveva sempre creduto e sostenuto. Le cose si
complicano, con le due donne incinte e con il nostro che ha l'ardire di
prendere appuntamento, via internet, con una "bella quarantenne calda e
vogliosa".
Una trappola comicissima
che finisce in un furto, con la casa devastata e svuotata. Mi rendo conto che
sto raccontando tutto il libro e questo non si deve fare. L'epilogo almeno non
lo racconto, con la crisi ed il pianto catartico di un uomo che all'improvviso si
chiede: "Perché non ci vogliamo tutti bene e la smettiamo di farci del
male?". E poi finisce in terra "a fare i conti con se stesso".
E' questo che gli mancava, in fondo: la compagnia di se stesso. Lo ritroviamo
dopo un anno completamente rinsavito, sensibile alla natura e alla famiglia,
rispettoso del prossimo e di tutto ciò che gli respira intorno. Amico anche lui
di quell'allegra brigata che passa il tempo a inventare e a raccontarsi storie:
usanza che cambia radicalmente la vita di chi la pratica, facendogli scoprire
la socialità, qualche valore umano da condividere fraternamente.
Franco Campegiani
Eccome non essere contenti di questa bellissima recensione... Grazie Franco e grazie Nazario!
RispondiEliminaSpero che chi leggerà il libro vorrà commentarlo!
Grazie
Claudio Fiorentini