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lunedì 27 giugno 2016

SALVATORE DOMENICO FURIATI: "POESIE"


Poesie forti, incisive, apodittiche, essenziali, che coi loro verbi significanti abbracciano l’amore e il dolore, l’illusione e la delusione, le emozioni e le sconfitte di una vita che volge le sue vele verso porti misteriosi e inspiegabili. La natura non fa solo da cornice a questo tripudio di estasi, a questo rinnovo di empatie e solitudini, a questo tentativo di vincere una realtà che tutto consuma e ingoia. Anzi, coi suoi odori, primizie, vegetazioni, caos, frenesie, mari, fiumi e laghi si fa interprete e corpo di vicende inquietanti e personali. Sembra che il mare con la sua  voce ampia e rumorosa, coi suoi orizzonti senza fine, si faccia verbo dominante nella poesia del Nostro. Forse è proprio in quella immensità misteriosa e eterna che vede la possibilità di spegnere le sue malinconie; le sue disperazioni; in un’alcova in cui ritrovare immagini care e insostituibili con cui poter rinnovare antiche primavere. Per cui porsi domande su questa vita che di risposte ne dà poche non è certo cosa disumana:

 La disperazione è un angelo istrione? 
Mistero guazzabuglio. 
Un esercito 
serrato nei ranghi, 
eremo 
di armi per combattere. 
Questa, 
la mia mente balzana.

Anche se le magre e dolorose risposte si possono trovare in tramonti che tanto sanno di fine, di soglie che l’Autore non osa oltrepassare:


Sentieri aspri 
baratri celesti, 
seguo imperterrito 
un malinconico tramonto. 
Pozzi di fuoco 
attorniati da iene schiumanti,
ahimè
l’angoscia del cuore 
ha stremato le restanti forze del mio spirito. 
Apro 
immobile fermo 
non oso oltrepassare, 
non voglio guardare oltre 
mi soffermo, 
dietro la porta.

Nazario Pardini





Figli loquaci

L’odore dell’aurora ancora alto,
primizie di stagione. 
Sotto al promontorio la vegetazione. 
Vedo mare, gente, caos e frenesia. 
Dermatite costante.
La madre guarda il suo bambino,
gli chiede cos’ha sulla guancia... 
una pustola. 
La guancia si ingrossa 
si screpola e schiude.
Dalla cicatrice si intravede 
un terzo occhio...
laido. 
Inghiottiti da una tempesta.
I corpi oscillano
indirizzati verso sud, 
dove il tepore si incanala nelle falde più arcane.
Il sole brucia la terra,
la notte schiaccia la città. 
Oh oh  figli loquaci 
continuate a giocare
con le vostre immaginazioni. 
Il vostro eco 
arriverà all’udito dei fenomeni naturali. 
Tramutate in pianta vostra madre,
in albero vostro padre. 
Annaffiate le loro radici ad ogni crepuscolo, 
correte a casaccio 
affrontate minacce e paure,
il vostro unico conflitto
è stato  di aver chiesto troppo dal tramonto.
Il sole illumina per istanti 
le vostre schiene curve. 
Esaurite il vostro oblio.


L’iride

Quante lacrime versate, 
mescolate con la pioggia 
per nascondermi,
non volevo che mi vedessero. 
Falde acquifere sgorganti,
liquido salato. 
Le lacrime hanno accarezzato mari, fiumi e laghi
fino all’accampamento 
la desolazione.
Vestito nei panni delle labbra del maragià, 
bagnate da un sorso di vino 
dopo aver attraversato il deserto. 
Pozzanghere prosciugate 
dai raggi del sole, 
come lame di pugnale luccicanti. 
Faticoso il cammino del Sole 
per compiere la sua missione, 
terra fertile e madida 
acclama calore. 
Un canto non udito, 
solo dopo la morte sarà considerato. 
A caduta libera 
prendetemi vivo, 
affogo per alitare. 
Finitimo a me 
visibile nel cielo, 
una visione 
di archi colorati.


Urto frontale

Urto frontale, 
convoglio in corsa 
penetra 
nella mente sgombra, 
sconvolgimento dei sensi.
La felicità è un angelo serioso? 
Urlo prolungato, 
tepore proveniente dall’ignoto. 
Privo di conoscenza, 
arti mutilati 
occhi spiritati, 
spavento intramontabile.
La disperazione è un angelo istrione? 
Mistero guazzabuglio. 
Un esercito 
serrato nei ranghi, 
eremo 
di armi per combattere. 
Questa, 
la mia mente balzana.


L’uomo dietro la porta

L’idea della rinascita ancora viva, 
occhi puntati sulla nudità del mare. 
Onde eremi di vascelli. 
Egloghe indossano sontuose vesti, 
tacchi riposti 
danzano sullo specchio del mare. 
Alla soglia della fusione porta chiusa, 
cielo e mare 
color smeraldo. 
Una leggenda dice che dall’altra parte 
sia dispotico l’estremo. 
Il cuore in petto 
come un fiore di cemento piantato. 
Privo di odore e colore, 
reso curvo 
dalla troppa rivendicazione 
per le mie esili spalle. 
Sono il guardiano 
posseggo le chiavi, 
accompagnato da una segreta paura. 
Finitimo alla porta, 
luci e ombre 
nuvole si ammassano 
a ridosso del mare. 
Sentieri aspri 
baratri celesti, 
seguo imperterrito 
un malinconico tramonto. 
Pozzi di fuoco 
attorniati da iene schiumanti,
ahimè
l’angoscia del cuore 
ha stremato le restanti forze del mio spirito. 
Apro 
immobile fermo 
non oso oltrepassare, 
non voglio guardare oltre 
mi soffermo, 
dietro la porta.


SALVATORE DOMENICO FURIATI: "POESIE"


Poesie forti, incisive, apodittiche, essenziali, che coi loro verbi significanti abbracciano l’amore e il dolore, l’illusione e la delusione, le emozioni e le sconfitte di una vita che volge le sue vele verso porti misteriosi e inspiegabili. La natura non fa solo da cornice a questo tripudio di estasi, a questo rinnovo di empatie e solitudini, a questo tentativo di vincere una realtà che tutto consuma e ingoia. Anzi, coi suoi odori, primizie, vegetazioni, caos, frenesie, mari, fiumi e laghi si fa interprete e corpo di vicende inquietanti e personali. Sembra che il mare con la sua  voce ampia e rumorosa, coi suoi orizzonti senza fine, si faccia verbo dominante nella poesia del Nostro. Forse è proprio in quella immensità misteriosa e eterna che vede la possibilità di spegnere le sue malinconie; le sue disperazioni; in un’alcova in cui ritrovare immagini care e insostituibili con cui poter rinnovare antiche primavere. Per cui porsi domande su questa vita che di risposte ne dà poche non è certo cosa disumana:

 La disperazione è un angelo istrione? 
Mistero guazzabuglio. 
Un esercito 
serrato nei ranghi, 
eremo 
di armi per combattere. 
Questa, 
la mia mente balzana.

Anche se le magre e dolorose risposte si possono trovare in tramonti che tanto sanno di fine, di soglie che l’Autore non osa oltrepassare:


Sentieri aspri 
baratri celesti, 
seguo imperterrito 
un malinconico tramonto. 
Pozzi di fuoco 
attorniati da iene schiumanti,
ahimè
l’angoscia del cuore 
ha stremato le restanti forze del mio spirito. 
Apro 
immobile fermo 
non oso oltrepassare, 
non voglio guardare oltre 
mi soffermo, 
dietro la porta.

Nazario Pardini





Figli loquaci

L’odore dell’aurora ancora alto,
primizie di stagione. 
Sotto al promontorio la vegetazione. 
Vedo mare, gente, caos e frenesia. 
Dermatite costante.
La madre guarda il suo bambino,
gli chiede cos’ha sulla guancia... 
una pustola. 
La guancia si ingrossa 
si screpola e schiude.
Dalla cicatrice si intravede 
un terzo occhio...
laido. 
Inghiottiti da una tempesta.
I corpi oscillano
indirizzati verso sud, 
dove il tepore si incanala nelle falde più arcane.
Il sole brucia la terra,
la notte schiaccia la città. 
Oh oh  figli loquaci 
continuate a giocare
con le vostre immaginazioni. 
Il vostro eco 
arriverà all’udito dei fenomeni naturali. 
Tramutate in pianta vostra madre,
in albero vostro padre. 
Annaffiate le loro radici ad ogni crepuscolo, 
correte a casaccio 
affrontate minacce e paure,
il vostro unico conflitto
è stato  di aver chiesto troppo dal tramonto.
Il sole illumina per istanti 
le vostre schiene curve. 
Esaurite il vostro oblio.


L’iride

Quante lacrime versate, 
mescolate con la pioggia 
per nascondermi,
non volevo che mi vedessero. 
Falde acquifere sgorganti,
liquido salato. 
Le lacrime hanno accarezzato mari, fiumi e laghi
fino all’accampamento 
la desolazione.
Vestito nei panni delle labbra del maragià, 
bagnate da un sorso di vino 
dopo aver attraversato il deserto. 
Pozzanghere prosciugate 
dai raggi del sole, 
come lame di pugnale luccicanti. 
Faticoso il cammino del Sole 
per compiere la sua missione, 
terra fertile e madida 
acclama calore. 
Un canto non udito, 
solo dopo la morte sarà considerato. 
A caduta libera 
prendetemi vivo, 
affogo per alitare. 
Finitimo a me 
visibile nel cielo, 
una visione 
di archi colorati.


Urto frontale

Urto frontale, 
convoglio in corsa 
penetra 
nella mente sgombra, 
sconvolgimento dei sensi.
La felicità è un angelo serioso? 
Urlo prolungato, 
tepore proveniente dall’ignoto. 
Privo di conoscenza, 
arti mutilati 
occhi spiritati, 
spavento intramontabile.
La disperazione è un angelo istrione? 
Mistero guazzabuglio. 
Un esercito 
serrato nei ranghi, 
eremo 
di armi per combattere. 
Questa, 
la mia mente balzana.


L’uomo dietro la porta

L’idea della rinascita ancora viva, 
occhi puntati sulla nudità del mare. 
Onde eremi di vascelli. 
Egloghe indossano sontuose vesti, 
tacchi riposti 
danzano sullo specchio del mare. 
Alla soglia della fusione porta chiusa, 
cielo e mare 
color smeraldo. 
Una leggenda dice che dall’altra parte 
sia dispotico l’estremo. 
Il cuore in petto 
come un fiore di cemento piantato. 
Privo di odore e colore, 
reso curvo 
dalla troppa rivendicazione 
per le mie esili spalle. 
Sono il guardiano 
posseggo le chiavi, 
accompagnato da una segreta paura. 
Finitimo alla porta, 
luci e ombre 
nuvole si ammassano 
a ridosso del mare. 
Sentieri aspri 
baratri celesti, 
seguo imperterrito 
un malinconico tramonto. 
Pozzi di fuoco 
attorniati da iene schiumanti,
ahimè
l’angoscia del cuore 
ha stremato le restanti forze del mio spirito. 
Apro 
immobile fermo 
non oso oltrepassare, 
non voglio guardare oltre 
mi soffermo, 
dietro la porta.


ELIO CATERINA: "SEDUTO NEL VENTO"


Seduto nel vento
m’illudo di ritrovare il cane nero,
compagno della mia gioventù.

Intravedo a valle l’ondulata nebbia
che tra i borghi
nasconde le chiese e le preghiere.

Acerbo e disperato
m’illudo
ancora
di ritrovare il tempo
che più non posseggo.

Da Tra questi luoghi spogli di fiori, Tricase, Lecce, 2015



Elio Caterina, nato ad Avellino attualmente risiede a Modena. Poeta, narratore e pittore. Vincitore di svariati concorsi letterari e artistici. Ha pubblicato sei raccolte di poesia e quattro romanzi. Ha esposto le sue opere pittoriche in varie mostre personali e collettive. I suoi dipinti sono in collezioni pubbliche e private.

VINCENZO CARDARELLI: "AUTUNNO"

Vincenzo Cardarelli





AUTUNNO

 Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d'agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.


SALVATORE CASTIELLO: "IL SENTIERO DEL MARE" DI MARIA RIZZI

Il sentiero del Mare
di  Maria Rizzi

Maria Rizzi collaboratrice di Lèucade


Carissimi, voi non lo potete sapere, ma in questo momento stiamo riallacciando, io e Maria Rizzi, un racconto di vita, iniziato da ragazzini, sospeso e mai interrotto. Confesso di essere emozionato, oltre che per codesto mio momento personale, anche per questa prestigiosa location.
Essa rinnovella in me cari ricordi passati di quando ero ragazzo.
Anche io, come Maria, ho vissuto la mia giovinezza a Portici.
Diceva Hercule Poirot: “Per chi ha buona memoria il passato non è mai passato”.
Veniamo al tecnico.
Posso racchiudere tutto lo scritto di Maria Rizzi fra due parametri o colonne fondanti: emozione ed umanità.
Mi spiego.
“Il sentiero del mare”.
Nella sua logica, il titolo del libro suona come una contraddizione dialettica, quasi un’assurdità, ma essa svanisce non appena si cominciano a scorrere non le prime pagine del libro, ma già nella prima pagina, dall’ottavo al dodicesimo rigo.
La ragazza lasciata sul tavolo potrebbe essere sua figlia. La figlia mai avuta e tanto desiderata. Una belva l’ha tenuta in ostaggio due giorni, per abusare di lei tante e tante volte e poi ucciderla nel più assurdo dei modi. Lasciando sui suoi occhi una benda nera. …..”.
Quattro righi devastanti, assurdi, spaventosi, raccapriccianti.
Quattro righi che sospendono il respiro, ma, nel contempo, ti rapiscono e ti stimolano. Sapete perché?
Perché è la vita di per sé stessa ad essere più o meno assurda, spaventosa ed affascinante ad un tempo.
I protagonisti, vittime e carnefici, complici ed artefici delle vicende, presentate dalla nostra Maria, sono i giovani.
I giovani ed il loro mondo, tanto vicino e tanto lontano.
Diceva Bertrand Russell: “Fortunatamente e sfortunatamente, i giovani non sono una categoria sociale. Fortunatamente e sfortunatamente, poiché, con la loro spinta emotiva e la loro forza prorompente, attuerebbero delle riforme sociali in meno di una generazione, senza, però, dare alla generazione precedente ed a quella successiva il tempo di adeguarsi”. Un disastro sociale.
I giovani, dicevamo, e le loro emozioni.
Le emozioni, che grande motore e carica esistenziale!
Senza di esse, chiudeva un suo sonetto un poeta napoletano, “…sarriame tanta pupazze ‘e stoppa!”.
Un antico proverbio indiano recita: “Dimmi un fatto e apprenderò, dimmi una verità e crederò, ma raccontami una storia e vivrà nel mio cuore per sempre”.
Gli “anta” che mi porto sul groppone mi hanno fatto calare in codesta storia con il mio bagaglio di passato, donandomi delle emozioni, di cui antea.
Ma questo succede, a seconda del proprio vissuto, in diversa entità, misura, intensità ad ogni lettore che si cala nelle pagine del libro.
“Il sentiero del mare” a codeste emozioni dona un volto, un nome, un compito, un’attività, una ragione, una motivazione, ricoprendo di umanità, ripeto, tutti i facenti parte del caleidoscopio di vite, racchiuse in esso libro.
Questo fin dall’esordio, dalle prime battute.
Torno al capitolo I, al quinto rigo questa volta.
“….Luisa cerca tepore. Accelera il passo, si stringe nel giaccone di pelle e spera di trovare in casa Roberto. Per provare a stordire la nausea tra le sue braccia….”. Ciascun lettore, per le sue vicende personali, il carattere, la cultura, in sintesi, per tutto il suo pregresso storico, vede e si figura questo o quel personaggio, e lo immagina in un modo suo, personale e differente da ogni altro lettore.
Codesta premessa ne richiama un’altra.
Gli “anta”, come dicevo, che mi porto sul groppone, mi hanno imposto di aver un angolo di visuale ben preciso e determinato: quello di genitore.
A mano a mano che o “sorbivo” il caffè con l’anatomopatologa, Luisa, o “mangiavo” un panino con Segni o “stavo seduto” accanto alla psicologa Laura Perlaghi, mi sono messo nei panni dei genitori ora di Chiara Lanna, ora di Serena Alletti, ma anche di Francesco Lonardi, Elisa, Tiziana.
Mi ha agghiacciato, a pagina 55, l’apparire dei genitori di Chiara e, “…estranei alla vita della figlia…..barricarsi dietro la fiducia, l’apertura mentale”.
Albert Einstein metteva in prima posizione, sotto l’aspetto della difficoltà, il mestiere di genitore.
Codesto libro ne è un asseverazione e certificazione, nobile e monumentale.
E mi sono tenuto basso!
Nel mestiere di “genitore” non si va mai in vacanza e ancor di più in pensione.
Presso la mia tribù, nel bene o nel male, cascame ultimo di un processo di fusione fra le lave dell’Etna e le lave del Vesuvio, codesta fusione ha lasciato sempre una traccia nei nostri modi di essere, di pensare e vivere.
Ci ha segnati nel cuore e nell’animo.
Eduardo in “Filumena Marturano” mette in bocca a Filumena, una verità assiomatica per noi napoletani, frutto del processo, di cui antea.
Filumena dice: “ ‘E figlie so’ chille ca se teneno ‘mbracce…”. (Sembra una frase che si può facilmente trovare su F/B. Oggi, grazie a F/B, so’ tutte puete, ma si domande quaccosa ‘e Boccacio, te portane ‘e mulignane sutt’uoglio! Perdonatemi codesta bizza senile. Grazie).
In questo libro i figli (per non parlare dei nipoti, ca coceno cchiù d’’e figlie! Ma questo è un discorso a parte. Mio personale) i figli, dicevamo, sono presenti nella loro “essenza”.
Sono presenti per quello che sono o per quello che, a volte, nessun genitore, nel suo intimo più intimo, vorrebbero fossero: adulti, decisionali, indipendenti, autonomi. Maria Rizzi ci cala e ci accompagna, nelle vicende, che si sgranano nel libro, con amore, sensibilità e materna comprensione.
Quasi tocchiamo con mano quell’umanità, cui accennavo antea e che fa la cifra distintiva e caratterizzante di tutti quegli investigatori, i quali si ritrovano a scrutare e scavare all’interno della vita, vuoi delle vittime vuoi dei loro carnefici.
Codesta umanità smussa, a tratti, la ferocia degli avvenimenti, addolcisce quell’estrema crudeltà, la quale purtroppo scorre latente.
Quasi come il fenomeno del “niño”, con andamento discontinuo, questa ferocia sprofonda, risale ed aggalla, ora nella dichiarazione di un teste, ora nella scoperta di un nuovo delitto o nel referto dell’anatomopatologo.
Riusciamo quasi a vedere codesto manto d’umanità addosso all’Ispettore Segni, in uno ai suoi collaboratori, e permeare il loro vivere o mentre stanno al bar, a sorbire un meritato caffè, o in rosticceria a mangiare uno spuntino.
A cavallo fra fine-pagina 49 e pagina 53, Maria Rizzi delinea uno stupendo bozzetto di vita familiare. Un meraviglioso cammeo, si direbbe in termine teatrale, che prende corpo e vita, in modo scoppiettante, generato dalle pirotecniche asserzioni di principio della mamma di Francesco, la “virago”, dalla controscena del marito di questa e dalla pacata, quasi serafica, professionalità dell’Ispettore Stefano Segni.
Va, a latere, solo accennato che l’ottima Maria già ci ha dato le giuste definizioni e parametrazioni, in ordine alla professionalità degli organi inquirenti, nella sua “Anime Graffiate”.
All’inizio di codeste mie poche note, vi ho confessato la mia emozione.
La ribadisco e la confermo.
Essa travalica il momento storico, squisitamente personale che attanaglia il mio vivere a quello di Maria Rizzi, atteso che, purtroppo, ascoltando un qualsivoglia telegiornale o scorrendo un qualsivoglia quotidiano, la cronaca ci pone sotto gli occhi delle vicende, che giganteggiano e quasi annullano tutto quanto partorito dalla fantasia della Nostra.
Mi sostiene in tale asserzione, ripeto ancora una volta, purtroppo, il saggio Benedetto Croce, quando dice che tutto ciò che è pensabile è possibile.
Tornando alla parte tecnica ed affondando nel plot della vicenda poliziesca, va dato il giusto riconoscimento ai ritmi incalzanti delle indagini, senza nulla togliere alla accuratezza degli addetti ai lavori, nonché alla precisione ed alla padronanza di linguaggio.
Essa padronanza va ritrovata quando veniamo edotti sulla distribuzione dei compiti all’interno degli uffici di polizia. Oppure sui rapporti fra il Commissario ed il Questore. Oppure sulla presenza ed aiuto ora della psicologa o di quel collega particolare.
A proposito di tecnicismo.
Va riconosciuto onore e merito alla prolusione sulla trasmissione e lo sviluppo dell’AIDS.
Una decina di righi che di sicuro avrebbero fatto “arreccria’ “ il pisano Galilei, il quale asseriva che “E’ facile parlare difficile, mentre è difficile parlare facile”.
Mi avvio alla conclusione.
Un cenno a parte va fatto alla “poesia” presente nel testo.
Sì, perché anche se celati tra i “rovi” (si fa per dire) della stesura in prosa, i fiori stupendi della poesia riescono ad ergersi imponenti e monumentali.
Qui posso citare a profusione come voglio.
Umilmente e con il capo cosparso di cenere, chiedo venia se mi sono permesso di apporre delle “cesure”, dando una veste poetica alla tua prosa.
Ho peccato di presunzione.
Lo ammetto e riconosco coram populo et ceteris.
Pagina 63.
“….Una notte bellissima,
sembra che Dio abbia infilato un soldino
nella fessura più remota del cielo
per allestire quella volta imperlata di stelle…”
Poche parole che sanno di magia.
Pagina 85.
“…La città è avvolta
in una sottile nebbia argentea,
una mezza luna
appena sbocciata
sembra dondolare.
Il fiume del tempo trascina le parole
nel suo vapore bianco….”
La metafisica si fa musica.
Pagina 151.
“Il fragore delle onde
è l’unica voce rimasta
e le stelle somigliano
a corde silenziose 
di una viola gigante….”
Qui la musica si fa metafisica.
Chiudo, per non abusare della vostra pazienza, ma chiudo in bellezza.
Pagina 191.
“….Tutto è immobile nella notte.
Persino le stelle paiono essersi smarrite,
solo la luna nuova,
vermiglia,
si staglia nelle tenebre
come tizzone di fuoco….”.
Una potente forza cromatica che trascina.
Affermava Pablo Picasso: “Io non cerco, trovo”.
Questo è quello che succede, avendo tra le mani “Il sentiero del mare”.
Al di là degli uomini, dei fatti, dei sogni, nonché dell’età e della storia di ognuno, ne “Il sentiero del mare” si trovano dei graditissimi compagni d’avventura, la maggior parte dei quali rimane invisibile al lettore, ma che assicurano cortesia, conversazione, ispirazione, sostegno e premura.
Un lavoro, punto apicale di tante vite, le quali hanno dato il loro apporto per farne vedere la luce ed a cui vanno di tuoi ringraziamenti finali.
Fra di esse spicca la figura tuo padre, Nicola Rizzi.
Unisco ai tuoi i miei ringraziamenti ad una persona, che vedeva lontano, molto lontano.
Una persona che ho avuto l’alto onore di conoscere personalmente, anche se, essendo io in età giovanile, non ho potuto averne piena e compiuta coscienza.
Auguri di poter vedere e vivere tutte le aspettative, tue e di chi ti ama, ca nun so’ ppoche.
Con profondo affetto e convinta stima.

Salvatore Castiello