Claudio Fiorentini, collaboratore di Lèucade |
IL TRENTOTTESIMO ELEFANTE
DI LUCIO SANDON
Tre storie che si sviluppano parallelamente e in modi
diversi: un ufficiale di polizia penitenziaria, un medico in Afghanistan e
Amilcare, il figlio minore di Annibale. La prima storia diventa un giallo
mistico-investigativo che giustifica la narrazione delle altre due, la seconda
storia è invece un ottimo racconto ambientato in Afghanistan ai tempi dei
talebani, e la terza, invece, è il tronco del libro, la colonna portante, la
parte più sostanziosa e impegnativa, a tutti gli effetti un romanzo storico di grande
pregio che scava nella realtà di un viaggio e una guerra lontanissimi nel
tempo. Tre storie, quindi, lontane tra loro, ma vicine e connesse grazie a un
misterioso oggetto, una sorta di croce a forma di buco di serratura, un amuleto
che rappresenta il simbolo di Tanit, la dea della morte dei cartaginesi. Il
libro, che alla fine si rivela un mélange di romanzo storico e thriller
contemporaneo, parte infatti dai ritrovamento accidentale di quest’oggetto. Il
protagonista, Angelo, di servizio a Poggioreale, si trova ad affrontare una
fase della vita in cui le motivazioni sono scarse. Il caso lo costringe a
rivoluzionare la sua esistenza e diventa un ignaro prescelto quando, dopo aver
comprato un bidet per la ristrutturazione del bagno di casa, cominciano le sue
sventure, come se quel pesante oggetto fosse portatore di sfortune e di
disgrazie. In realtà quell’innocuo sanitario contiene un antico amuleto, un
oggetto insignificante che sembra vivo e che sembra voler tracciare una strada
all’ignaro possessore affinché i disegni del destino siano adempiuti. Si tratta
proprio della croce di Tanit.
Tutto questo si allaccia necessariamente alla vicenda
di Annibale, in quanto lui era devoto di Tanit e con lei ha un debito, non
avendole sacrificato Amilcare, il figlio più piccolo, come voleva la
tradizione. E sarà proprio Amilcare a narrare la storia della spedizione voluta
dal padre, ci racconterà quel viaggio e quei combattimenti con gli occhi di un
figlio, e ci svelerà perché nel titolo si cita un trentottesimo elefante quando
la storia ci ha insegnato che gli elefanti erano trentasette.
La capacità descrittiva dell’autore, vincente nei tre
rami della narrazione, merita tuttavia uno speciale encomio per la narrazione
centrale, il romanzo storico, che è ben lungi dall’essere accademico e
nozionistico. Lucio Sandon ha, infatti, la capacità di proporci una garbata
quanto appassionante ricostruzione di quella spedizione senza cadere
nell’accademia, e gli anni di lavoro e di ricerche che ha eseguito per poter
arrivare a raccontarla non pesano sul lettore, che viene letteralmente sedotto
e travolto dalla fluidità della scrittura. Diciamo che quando si legge questo
libro non si legge l’autore, ma la storia.
E poi, leggendo, sembrerebbe quasi naturale che un
uomo solo sia riuscito a riunire quasi centomila uomini e a guidarli per un
viaggio di 5000 chilometri, affrontando rischi e fatiche d’ogni sorta e
mantenendo per anni l’assoluta fedeltà del suo esercito. Immaginate, però: anni
di viaggio a piedi da Cartagine a Capua, riunendo durante il viaggio altre
truppe, un esercito di valorosi in terra straniera, per combattere Roma a Roma.
Un uomo solo, e tutti a seguirlo… Di che fibra doveva essere fatto! Comunque è
con lui, visto dagli occhi di un bambino, che arriviamo nella campagna
molisana, nei pressi delle sorgenti del Volturno, dove l’esercito cartaginese
fece una lunga sosta, forse di anni, e dove chissà quali misteri ancora sono
nascosti. Ed è proprio lì, in quel tratto di campagna, che si concentrano tutti
gli eventi che danno vita al giallo, che si verifica una serie di misteriosi
omicidi, in qualche modo collegati ad una lontana scorribanda di un gruppo di
giovani delinquenti finita in violenza pochi decenni prima. Le vittime sono
proprio quei delinquenti, e sono tutti conoscenti del protagonista. Da uno di
loro, però, Angelo riceve una lettera, ed è da quel momento che si sente
obbligato a diventare non solo investigatore, ma anche investigatore
dell’occulto, perché solo così riuscirà ad evitare che la spirale di morte continui
la sua strada. Tutto si riallaccia ad una scelta di Annibale che, a un certo
punto della sua vita, preferì gli affetti al sacrificio.
Per la natura degli eventi narrati, le presenze
femminili sono necessariamente limitate; le donne, si sa, non sono come gli
uomini che giocano a farsi male con le armi. Tuttavia, nella narrazione delle
vicende di Angelo ve ne sono, e sono anche determinanti, a cominciare da Tanit,
che è una dea, ed è una forza misteriosa che trascina gli eventi nell’abisso;
poi c’è proprio una donna - anzi, una misteriosa figura che si direbbe un
fantasma - la chiave che svela i segreti più infami; ed è anche una donna colei
che spinge il nostro poliziotto a risolvere il caso, motivandolo ad addentrarsi
nei disgustosi sentieri del malaffare e della violenza.
Insomma, siamo davanti a tre storie molto ben
costruite e collegate tra loro, che compongono un romanzo di grande pregio.
Scritto con un linguaggio fluido che unisce alla bellezza e all’interesse del
romanzo storico, con una vena pulsante di mistero che lo collega ai giorni
d’oggi e, in tinte di giallo mai eccessive, ci fa scoprire che quella vena
pulsa ancora, e ci riporta in Afghanistan, dove una storia diversa chiede di
essere raccontata e dove un intero Paese chiede di essere salvato. Ma alla fine
tutto ritorna al luogo degli omicidi, dove dopo tanto orrore il nostro Angelo,
finalmente, ritrova la serenità e la voglia di vivere. Buona lettura!
Claudio Fiorentini
Nessun commento:
Posta un commento