Quando il narcisismo è “femmina”. Un
caso clinico dalla parte della “vittima”.
Si è già trattato in altra sede della
patologia narcisistica, o meglio,
di
quello che nel DSM 5 viene definito “Disturbo narcisistico di personalità”, che
si caratterizza per i tratti maladattivi della personalità che, estremamente
irrigiditi e poco flessibili alle circostanze esterne, portano il soggetto che
ne è affetto ad instaurare relazioni distorte con gli altri. In tutti i
disturbi della personalità quella che appare distorta è la relazione
comunicativa con l’altro, nel suo multiforme dispiegarsi.
Nel disturbo di tipo narcisistico,
l’esagerata stima di sé da parte del soggetto porta chi ne è affetto, a
considerare l’altro non in una relazione intersoggettiva “soggetto-soggetto”,
ma nell’ottica di una relazione “soggetto-oggetto”. L’”altro” della relazione è
posto al servizio dell’Uno, considerato non come individuo a sé stante, ma in
quanto “utile” ed “utilizzabile” per accrescere la propria autostima. Di fatto,
s’è visto, i narcisisti hanno personalità estremamente fragili e la loro è
essenzialmente una ricerca di conferme rispetto al sé, che avviene però,
sminuendo la figura dell’altro, considerato appunto al loro “servizio”. Si è portati, per lo più, a pensare che il
narcisismo “patologico” sia una prerogativa maschile, un po’ perché le
“testimonianze cliniche” che giungono agli specialisti del settore sono
rappresentate per lo più da donne che si rivolgono allo psichiatra o allo
psicologo per cercare di liberarsi da una relazione che avvertono come malata,
ma, nel contempo, della quale credono di
non potere fare a meno; ma anche la letteratura specialistica riserva uno
spazio esiguo al narcisismo femminile e sembra alimentare la falsa
credenza che la manipolazione affettiva sia appannaggio del cromosoma Y.
Sappiamo, in realtà, che il disagio, in questo caso è avvertito prevalentemente
dalla donna, vittima di una relazione distorta, più che dall’uomo, non perché
egli soffra meno, ma perché, fondamentalmente, è raro che un narciso si rivolga
ad uno psicoterapeuta per mettersi in discussione. Il suo Io ipertrofico non
glielo consente. Meglio passare alla relazione successiva e continuare il
“gioco” piuttosto che fermarsi ad una relazione ed analizzare cosa c’è che non
va in se stessi e nel modo di gestirla.
Le donne in una condizione di disagio
psicologico sono più propense degli uomini a portare all’attenzione di uno
specialista la propria storia emotiva.
Per par condicio, cerchiamo di
analizzare come si comportano, invece, gli uomini che si sentono “invischiati”
in una dipendenza sentimentale con una narcisista. Tendenzialmente scelgono di
evitare di chiedere aiuto, in quanto nei loro comportamenti prevale spesso
ancora lo stereotipo sociale che impone all’uomo di cavarsela da solo nei
momenti di difficoltà. Questo in realtà provoca ulteriori sentimenti di
frustrazione e di fallimento, in quanto aggiunge alla sofferenza della
relazione disfunzionale, sensi di colpa ed incapacità a superare lo “scacco” di
un rapporto malato. Ecco perché le narcisiste
ed il loro relazionarsi con l’altro in modo altrettanto disfunzionale
dei “colleghi” maschi, sono parzialmente invisibili: le loro prede preferiscono
cercare di cavarsela da sole e, spesso, scelgono di tacere.
In realtà, esiste eccome la donna che,
malgrado la differenza di genere, riproduce col partner un rapporto esattamente
speculare a quello maschile, fatto dell’alternanza di iniziali ipervalutazioni
dell’altro, alternate ad altrettanto grandi svalutazioni, di “prese” fulminee e
di corteggiamenti assidui, alternati a parziali abbandoni. Forse, in alcuni
casi, si potrebbe affermare che il meccanismo psicopatologico che sottende
l’azione della donna appare più sottilmente perverso rispetto al corrispondente
maschile.
L’ipertrofia dell’Io si baserebbe, nel
caso delle donne, oltre che sul mettere in luce la propria intelligenza, anche
e soprattutto sull’avvenenza fisica. Si tratta, per lo più, di donne, se non
bellissime, sicuramente molto affascinanti.
I tratti distintivi della narcisista
sono rappresentati, come nel narcisista, dall’illusione di unicità e grandezza
del Sé, dal credere in se stessa come se fosse un essere speciale ed, in quanto
tale, pretendere continuamente prove d’amore e di riconoscimento da parte
dell’altro. Presa com’è da se stessa, non riesce ( e non prova neppure) ad
interpretare le emozioni altrui e tende a leggere con un meccanismo distorto
anche i comportamenti più limpidi e autentici.
Si potrebbe affermare che nel narcisismo
femminile patologico c’è la marcata tendenza a un’ideazione persecutoria, che produce continui conflitti e rotture
interpersonali giustificate dalla ingratitudine e dalla scarsa riconoscenza
degli altri.
Nella relazione affettiva, la narcisista
è capace di slanci sorprendenti, di azioni grandiose e dichiarazioni d’amore
eclatanti. Appare avvolgente, adorante e generosa prima di passare, come fa il
narciso, alla successiva fase distruttiva dell’altro. Ma laddove l’uomo diventa
incostante ed espulsivo verso la partner, nonostante è comunque difficile che
vengano definitivamente chiuse delle porte, a meno che non sia la donna vittima
a farlo, la narcisista si impegna in un
incessante invischiamento col compagno e incentra la relazione sulla pretesa di
cambiarlo completamente.
Alla base della dipendenza affettiva del
partner vi è il senso di inadeguatezza che la narcisista instilla nella
relazione, in modo manipolatorio, portandolo a credere di non fare abbastanza
per lei, a voler avere il comando sui suoi comportamenti ed addirittura sui suoi pensieri, minando la sua
virilità e mostrandosi insoddisfatta
qualunque cosa l’altro faccia per accondiscendere alle sue
richieste. Atteggiamento ipercritico rivolto non solo al “soggetto” della
relazione ma anche ai familiari ed agli amici di lui, al suo lavoro, al suo
conto in banca. Ogni cosa è passata ad un setaccio impietoso che mirerebbe a
rendere il partner finalmente all’altezza della narcisa.
Un rapporto di questo tipo porta, forse
ancora di più che nel caso inverso, ad un isolamento della coppia dal mondo esterno
e ad improntare la relazione sull’infelicità di entrambi: lei che vorrebbe che
lui diventasse “a sua immagine e somiglianza” e lui che compirebbe il tentativo
impossibile di adeguarsi a ogni richiesta pur di evitare, ma purtroppo
inutilmente, il tradimento e la rottura definitiva della relazione. Queste storie
in cui è lei la narcisa della situazione si snodano tra continue liti e
interruzioni temporanee delle relazioni, che poi riprendono quando tutto
sembrava irrimediabile, declinandosi in due modi: o lui implora la donna,
giurando ed assicurando un cambiamento e lei gli concede il perdono
incondizionato, salvo poi far pagare caro il conto per averla lasciata o per
averla costretta a lasciarlo; oppure è lei a tornare, perché, dopo averlo
coperto di insulti sembra propensa al cambiamento pur di mantenere in vita il
rapporto, tranne in seguito presentargli il conto per averla indotta a
umiliarsi pur di riaverlo con sé.
In entrambi i casi la relazione prosegue
tra alti e bassi ( sempre più bassi che alti), all’insegna di una separazione
impossibile, limitata da continui, dolorosi ma sempre speranzosi
riavvicinamenti sino alla “consunzione” psicologica del partner che spesso non
molla anche quando il suo disagio diventa sintomo, con insonnia, ansia,
irritabilità, deflessione dell’umore, difficoltà di concentrazione, gelosia
“patologica”, disfunzioni nella sfera sessuale, abuso di alcol o di altre
sostanze, utilizzate per cercare di colmare il vuoto causato dalla dipendenza
affettiva.
Queste relazioni il più spesso si concludono quando è
lei a decidere di porre termine: il malcapitato viene abbandonato proprio
quando credeva di aver soddisfatto con grande fatica e almeno in parte le
pretese di lei. La narcisista stavolta
decide di porre termine alla relazione, senza possibilità di ritorno, e in
tempo brevissimo ( se non addirittura in contemporanea) ha già intrapreso il
(prossimo) “grande amore” della sua vita …
La vittima, abbandonata, non sa ancora quanto grande
sia stata la sua fortuna in quell’ultimo gesto di lei.
Un cenno merita il rapporto della donna narcisista con
i figli. Non ho trovato studi scientifici al riguardo, ma “annusando” le mie
basi psicoanalitiche, mi viene da pensare che possa trattarsi di una relazione
ancora più complessa di quella che instaura il narciso con i suoi discendenti.
Se il narciso considera i figli come “propaggini di sé”, ancora di più credo
questo possa avvenire nella donna che “decide” di non recidere mai quel cordone
ombelicale, gesto di separazione che lei non accetta. I figli rimangono, anche
in questo caso, oggetti della relazione intersoggettiva, in cui la donna può
specchiarsi e, anche col passare degli anni, continuare a vedere la sua
gioventù. Ma spesso si tratta di donne che decidono di non avere figli, di
concentrarsi completamente su di sé e sulla loro carriera: oltretutto la
gravidanza viene vissuta, nella sua fisiologica deformazione corporea, come un
nemico persecutore, una minaccia alla loro bellezza.
Il caso clinico
Giorgia era bellissima nei suoi 25 anni. Andrea la
notò subito in quel gruppo di suoi coetanei cinquantenni. Si chiese cosa ci
facesse una ragazza così, con uomini ( e donne) che potevano farle da genitori.
Era andato malvolentieri a quella festa di amici, dopo la separazione dalla
moglie, avvenuta qualche mese prima, era stato quasi trascinato fuori casa per
vedere gente. Ma ora che si trovava di fronte a così tanta bellezza era
contento di essere uscito, anche se un po’ ne provava vergogna, oltre al
sentimento di ammirazione: davvero quella ragazza poteva essere sua figlia.
Eppure gli tornavano
in mente le parole della canzone di Ligabue: “Eri bellissima…eri davanti a me,
davanti agli occhi del bambino…”, come un ritornello piacevole, una nenia alla
quale abbandonarsi finalmente senza freni. Si sentiva un “bambino” al cospetto
di lei, di così tanta imponenza. Una donna così aveva il potere di lasciare il
vuoto al suo passaggio. Era ancora quasi una ragazzina, pensò, ma teneva banco
a tutti quegli adulti. Monopolizzava con la sua avvenenza fisica, ma ancora di
più con i suoi discorsi, l’attenzione di tutti. Ad un tratto si accorse di lui
ed Andrea ebbe come la sensazione che tutti gli altri fossero spariti, che in
quella stanza fino a poco prima piena di vocii e del frastuono della musica,
fossero rimasti solo loro due.
Giorgia gli si avvicinò
decisa, dritta verso di lui: “Come ti chiami? Sei amico del festeggiato”? , così,
di punto in bianco. Ed Andrea, imbarazzatissimo, farfugliò qualche parola. Da
quella sera si può dire che i due non si lasciarono più. Andrea era ben lontano
dal comprendere di essere diventato la preda nelle mani di quella donna tanto
bella quanto crudele. Esistevano solo loro due, Andrea smise di frequentare i
suoi amici, non aveva più tempo di farlo, qualche volta Giorgia “pretendeva”
che uscissero con il gruppo degli amici di lei, anche se Andrea provava disagio.
Lei, dopo un primo periodo in cui l’aveva fatto sentire unico nel suo mondo,
aveva iniziato ben presto ad alternare momenti di ipervalutazione a momenti di
svalutazione dell’altro, ma era ormai già tardi per Andrea che era presissimo
da lei.
Cercava sempre
scusanti ai suoi comportamenti, definendoli “bizzarrie” giovanili.
I momenti in cui
erano soli insieme e lei sembrava adorarlo, lo ripagavano dei momenti in cui,
invece, lei sembrava quasi disprezzarlo davanti agli altri. Fu così che quando
lei gli chiese di cambiare città, per avvicinarsi al suo luogo natio, lui
accettò senza perplessità, con il suo lavoro di dirigente poteva chiedere il
trasferimento, mentre lei poteva tranquillamente continuare l’università.
Quando si
trasferirono per Andrea cominciò un incubo: si sentiva sempre più spaesato in
una città che non era la sua ed in cui non riusciva ad ambientarsi, tutto preso
dal cercare di far stare bene lei.
Giorgia dal canto
suo, sembrava, invece, essersi ambientata benissimo, aveva cominciato ad uscire
da sola, sempre più vaga nelle sue spiegazioni e sempre più assente nel loro
rapporto. Andrea, così soggiogato da lei, non osava a volte neppure rivolgerle
delle domande e quando lo faceva le risposte di Giorgia erano sempre più
evasive: i compagni d’università, una nuova amica, andare qualche giorno dai
suoi genitori che, presto, gli aveva promesso, gli avrebbe fatto conoscere. Con
calma. Ma non accadde mai. Tornava a casa sempre più tardi la sera ed usciva di
casa sempre prima, al mattino. Lui si recava mesto al lavoro, in cui, peraltro,
non riusciva a ritrovare l’entusiasmo che lo aveva sempre caratterizzato.
L’ambiente era un altro, ma soprattutto lui era diventato un altro: solo, senza
Giorgia, che continuava sempre a stare nel suo cuore ma che sentiva sempre più
distante da lui. Andrea non sapeva più come fare, iniziò ad adottare la
strategia della gelosia, che di fatto sempre più spesso provava, quando Giorgia
gli diceva che usciva per degli “impegni” non ben precisati, ma finiva per
causare l’astio di lei.
Allora adottava
l’arma dell’indifferenza ed allora lei sembrava riavvicinarsi a lui, ma
disprezzandolo, perché lui, in questo modo, sembrava non rendersi conto della
fortuna che aveva avuto quella sera a conoscerla.
Già, la sera in cui
gli tornava in mente il ritornello della canzone di Ligabue “Eri bellissima…”
che sembrava scritta per loro due, ma con il tempo verbale al presente.
Quella sera gli
sembrava lontanissima, eppure erano passati solo sei mesi, tempo in cui
sicuramente all’entusiasmo iniziale di vivere una storia con una ragazza così
bella, si alternavano, prevalendo a volte, momenti di sfiducia e di rimpianto
del passato. Eppure a lui sembrava davvero di fare tutto il possibile per assecondarla,
di essersi adattato ad una vita molto diversa dalla sua. Ma a lei sembrava
tutto dovuto, e mai bastavano le sue attenzioni, mai poteva essere sufficiente
un suo pensiero per ringraziarla del dono che gli faceva, ogni giorno a
condividere la vita con lui.
La notte lui faceva
sempre più fatica a prendere sonno e quando ci riusciva era un sonno
irrequieto, denso di incubi: uomini che lo inseguivano, lei che se ne andava
via. L’umore divenne sempre più deflesso e l’ansia costante, fino ad assumere le
sembianze di veri attacchi di panico. Per questo si rivolse ad uno psichiatra,
ma raccontò solo i sintomi, tralasciando tutto il resto della sua storia. Così
l’inizio della relazione terapeutica si caratterizzò semplicemente per una
prescrizione farmacologica che, però diede scarsi risultati. Andrea sembrava
non voler guardare in faccia la realtà: la spina irritativa dei suoi sintomi
era Giorgia, ma lui non voleva ammetterlo, nel terrore che lei potesse decidere
di lasciarlo. Come di fatto accadde una sera. Lei tornò a casa tardissimo con
la solita aria imbronciata degli ultimi periodi, che ormai aveva preso il posto
del suo splendido sorriso e guardandolo fisso negli occhi gli disse che aveva
capito di non amarlo più e che era giusto che la loro storia finisse lì, senza
tante storie da parte di entrambi.
Lei aveva deciso per
tutti e due, ancora una volta. Andrea si sentì crollare il mondo addosso ma in
un certo senso se lo aspettava, non era un finale a sorpresa: lui non poteva
essere capace di bastare ad una donna così, una donna che, ripensando alle parole
della famosa canzone, “si dava un attimo e poi si nascondeva bene…se la godeva
ad occupare tutte le sue fantasie”…”…eri di tutti ma non lo sapevano…”.
Il presupposto da cui
Andrea partì per il suo percorso psicoterapeutico era questo e solo dopo si accorse
che era completamente sbagliato: non doveva essere lui a sentirsi inadeguato
per lei, ma vittima di una donna carnefice che l’aveva irretito.
La sua unica pecca
era stata quella di essere caduto nella maglie della ragnatela tessuta da lei,
che all’inizio gli era sembrata una seta preziosa ed avvolgente.
Solo ora, dopo un
anno circa di psicoterapia, Andrea comincia a stare bene con sé.
Anna Maria Pacilli
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