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venerdì 14 ottobre 2016

F. SCIANDIVASCI E R. DE LUCA SU "SARABANDA" DI S. CASOLARO

Relazioni di Federica Sciandivasci e Roberto De Luca del libro SARABANDA di Salvatore Casolaro. Una delle serate della Rassegna Iplac particolarmente riuscita



SARABANDA

La struttura
Ignoro se Salvatore abbia voluto dare un ordine ai suoi racconti, un ordine cronologico ad esempio. Ad ogni modo se anche ci fosse, non è questo che ha colpito la mia lettura e attirato la mia attenzione. C’è, sicuramente, una forte componente di ironia scanzonata, di quelle che ti parlano con leggerezza ma che ti depositano nell’animo piccole grandi verità. I racconti sono brevi e in questo trovo la loro più grande forza. Sono degli spaccati di vita vissuta, episodi caratterizzati da colori, suoni, odori e tattilità che non hanno un vero e proprio inizio né una netta conclusione, restano come sospesi. Sono delle “zummate” fatte con la macchina fotografica che hanno senso e bellezza nel loro esistere “adesso”, nel momento in cui il lettore le vede con l’immaginazione, senza un prima o un dopo.
Il prologo ci offre da subito l’idea dello stile dell’autore e, soprattutto, del suo modo di essere e di osservare le “cose” con acume, sarcasmo e precisione, talvolta con nostalgia. Ma sempre si percepisce nella scrittura di Salvatore una forte componente di “indipendenza”, quasi una sorta di ribellione alla consuetudine, a ciò che è considerata dalla maggioranza delle persone la “normalità”. E in questa componente scopriamo l’originalità della scrittura di Salvatore, e l’eccezionalità dei suoi racconti.
Dicevamo del Prologo. Da subito siamo conquistati dalla narrazione di episodi che hanno del comico, grazie ad una penna che si fa leggera e al ricorso ad un lessico molto colorato.
Il protagonista è Lorenzo un bimbo che, sin dalla nascita, e per tutta la vita è circondato, accudito, amato e talvolta sopraffatto dalla presenza femminile. Dapprima è la madre, “di animo molto forte” e dalla “personalità (…) travolgente” che da subito gli fa capire che il mondo è dominio del matriarcato; poi sono le tre sorelle che l’autore chiama “valchirie-sorelle” sempre “pronte a sparare mitragliate di parole”; poi sono le donne che frequentano la casa, le “procaci megere”; infine è la volta di una bimba sua coetanea, che definisce una “scaltra e perfida mocciosetta”. “È così che stai crescendo Lorenzo? – gli dice la madre –Ti fai prendere in giro da una bimba? Tu sei maschietto, sei tu che devi prendere in giro loro!”. L’unica figura maschile del racconto è il padre del quale dice che “completamente sopraffatto non solo dal numero, ma anche dalla tracotanza di tante femmine, aveva rivolto la sua vita al procacciamento del necessario da vivere per quelle bocche affamate”, dunque una figura che da punto di riferimento, quale dovrebbe essere, viene totalmente oscurato nel suo ruolo di capofamiglia e di “uomo” dalle femmine di casa. La morale della storia? Che Lorenzo capisce di essere molto vulnerabile al fascino femminile, che a differenza delle donne della sua famiglia, e non solo, non ha nessun senso degli affari e che dovrà vita natural durante diffidare da chi porta la gonna!
Altro episodio davvero spassoso, intitolato Il massaggio, è un racconto dentro il racconto. Il protagonista decide di dedicarsi una giornata in totale libertà e dopo aver visitato musei e siti archeologici entra in un centro benessere e prenota un massaggio thailandese che, alla fine, va ben oltre il semplice massaggio diventando una prestazione erotica ad un prezzo esagerato! Ma la presenza di candele e incensi profumati nel centro olistico riporta alla mente il ricordo di un altro episodio, esilarante e terribile al tempo stesso, accaduto molti anni addietro, quando nel corso di un amplesso con una bellissima donna che l’autore descrive come “maliarda”, “splendida concubina” e “avviluppatrice”, all’improvviso le candele accese sul comodino danno fuoco alle suppellettili e alle lenzuola. La parte esilarante è che il protagonista, nonostante il fuoco incalzi, pur di portare a termine il rapporto con la ragazza e realizzare la piena soddisfazione di entrambi, compie acrobazie mai viste degne di un vero circense, ricavandone però solo una ustione di 3° grado alle mani, la distruzione di mezza casa e la perdita della ragazza che alla fine urla “più terrorizzata che soddisfatta”.
Di tono diverso è il racconto intitolato ‘O scannetiello. Qui la penna di Salvatore si tinge di tenerezza, di un soffio di nostalgia quando parla di Napoli, la sua Napoli. L’autore non torna nella sua città natale da troppo tempo e l’occasione non è delle più allegre: la cessione della licenza per la sua tabaccheria, un locale di 15 metri quadrati che lo aveva visto, appena ventenne, lavorare 10 ore al giorno dietro al bancone principale appollaiato su uno “scannetiello”, appunto, uno sgabello di legno che è anche simbolo di tante storie di gente passata per la tabaccheria e che ora non c’è più. C’è però ancora la casa di famiglia e ciò che vede e sente l’autore, quando la mattina seguente esce da quella casa, è “un senso di familiarità e di pace che non assaporav(a) più da secoli”; entra nella piazza, dove tutto sembra essere rimasto immutato, per gustare un buon caffè e questo lo riporta indietro nel tempo, agli ultimi anni della vita trascorsa nella tabaccheria con il padre. Ricorda quando con il padre passava davanti ai tavoli del bar più importante della piazza e di quando vari rappresentanti della “magnanima nobiltà napoletana” salutavano il padre con affetto e rispetto – proprio lui, che indossava abiti logori e macchiati. Girando per i luoghi conosciuti l’autore si rende conto che molte cose sono cambiate, la crisi economica ha fatto alzare il prezzo degli affitti degli immobili costringendo i commercianti ad abbandonare le proprie attività. Una profonda tristezza lo invade specie quando prende atto che, paradossalmente, a tutte queste attività artigianali che chiudono, corrisponde un triste proliferare di ristoranti di tutti i tipi – vegani, cinesi, hamburgerie. Un profondo silenzio scende su ogni luogo e l’autore si domanda: in che direzione sta andando questa moderna Napoli e soprattutto “c’è ancora posto per uno scannetiello?”. È un pensiero di rara poesia quello che chiude il racconto.  E proprio di poesia desidero parlare, perché Salvatore è anche poeta e alterna ogni suo racconto a liriche dal verso libero, che traggono variamente ispirazione.
In “Città di mare” , ad es., c’è un bel parallelismo tra il corpo nudo della donna e il mare della sua città (Vestita, spogliata, truccata e immutata/ti dicono t’amo e ti impongono il morso/ma ritorni ogni volta selvaggia e ribelle. Perché puttana e strega tu sei/ma anche libera e vera/come ogni città di mare).
Altre volte la poesia trae ispirazione da un acquerello che ritrae un notturno di paese (che dà anche il titolo alla poesia “Acquerello notturno di paese”); altrove le poesie nascono dalla riflessione sull’inarrestabile scorrere veloce della vita come nella lirica “Angoscia”, o dall’urgenza di fuggire da tutto, forse anche da se stesso, come nella poesia intitolata “L’urlo” (E ho visto anche me tra loro/senza anima e senza pensieri che mi appartengono/cammino senza conoscere il cielo sulla mia testa/amo senza amore).
Ora invece è la donna – sconosciuta o amata che sia – al centro dei versi di Salvatore, come nella poesia “Il piacere del sesso” (Un materasso sul pavimento e una candela./ Quattro mura vuote chiudono uno spazio di nessuno./ Solo i nostri corpi nudi possono entrare/ le parole restano fuori con i vestiti).
Sento, nella poesia di Salvatore, una corrente di forte sensualità, una forza passionale che talvolta viene gridata, altrove viene sussurrata, come se la vita esplodesse dentro l’anima e il corpo non riuscisse più a contenerla nei propri limiti fragili e caduchi e cercasse nuovi luoghi da conquistare. Illuminanti sono i versi della poesia “Soffio di vita” dove il poeta scrive “C’è il mondo al di là della mia anima/E nella mia anima c’è una finestra sui tetti delle case/E nessuno mai potrà chiudere quella finestra” o altrove, quando il poeta afferma “Voglio essere padrone della mia vita, afferrarla, succhiarne tutta la sua essenza/e diventare immortale”. È una poesia fatta di carne e sangue, di vita vissuta, di sentimenti profondamente radicati nella carnalità e nella dimensione più “terrena” dell’uomo, anche quando le parole – narrate o verseggiate che siano – diventano preghiera e recitano “E allora ti prego non per la mia anima ma per il mio corpo/non per l’eternità ma per la caduca vita/e per lei accanto a me”.
Aggiungo che nell’opera di questo artista poliedrico, narrativa e poesia si contaminano vicendevolmente; nella poesia i versi si fanno quasi racconto, sia nella lunghezza del verso sia nella punteggiatura che nello stile “descrittivo”. Nei racconti, invece, scopriamo delle finestre di grande liricità che ci dicono qualcosa di più sull’universo interiore dell’autore, come nel racconto intitolato Dono a chi non c’è, una lettera dedicata al figlio mai nato che è anche una pura affermazione di vita: “bisogna prendere la vita a piene mani, considerare ogni giorno come fosse l’ultimo e alla fine della sera chiedersi cosa abbiamo imparato di nuovo rispetto al giorno precedente”.
Ma le sorprese, con il libro di Salvatore, non sono finite. Perché a illustrare i testi vi sono le suggestive fotografie in bianco e nero del fotografo di fama internazionale Andrea Alfano, specialista della fotografia documentaria. Si crea un sottile silenzioso dialogo tra la parola scritta e le fotografie, le quali per lo più suggeriscono momenti di vita di tutti i giorni, senza clamori o virtuosismi, ma con tutta la forza e l’impatto emotivo della realtà.
Una curiosità per chiudere questi miei pensieri sull’opera di Salvatore Casolaro: Sarabanda è una parola che deriva dallo spagnolo zarabanda, ma ancora più indietro nel tempo dall’arabo- persiano serbend che significa “danza con canto”. Mai titolo fu più azzeccato perché nella mia immaginazione di lettrice, la parola “Sarabanda” mi fa pensare alle danze popolari, alle tradizioni che si vanno perdendo, ai lavori di artigianato che oramai nessuno fa più, alle tante storie che in passato si tramandavano oralmente, anche con canti e danze. E Salvatore è un cantastorie puro, di quelli che non ti stanchi mai di leggere perché le sue storie sono “veraci”, come la terra che lo ha visto nascere.

Federica Sciandivasci 09/10/2016


Sarabanda  di Salvatore  Casolaro

Sarabanda è un acquerello fatto di racconti (principalmente), di poesie, che fanno da intermezzo e di fotografie che, a nostro avviso, sono un manifesto al contenuto delle storie. Queste tre arti sono cucite l’una all’altra , tre a tre, nei vari temi trattati nel libro.  Esse , in questo testo, pur esprimendo insieme un senso generale come voluto dagli autori, risultano abbastanza autonome e lo sono in virtù del fatto che ognuna esprime chiaramente i significati, senza bisogno di appoggi . Come dire che sia la poesia che i racconti  non hanno bisogno della fotografia per essere rappresentati, né quest’ultima, che è opera di un altro autore( Andrea Alfano per la cronaca) ha bisogno degli scritti per essere spiegata.  Le varie argomentazioni sono pane quotidiano e già a un primo approccio risultano ben pescate nel mondo di oggi , nel suo incontro-scontro con l’individuo e, come accade spesso nei testi che conservano un’anima, sia gli argomenti che le immagini diventano spesso un semplice mezzo, usato per parlare di ben altro.  Nel racconto O scannetiello  per esempio , non è tanto importante la storia in se’( a non dargli importanza è l’autore stesso, anche se il lettore lo percepisce in maniera autonoma), ma importante, per quel che concerne il valore di quest’opera, sono lo sguardo dell’autore che si intravede tra le righe mentre visita la sua città natale, il suo chiedersi il perché di alcuni cambiamenti e il suo constatare come altre cose non siano mai cambiate, intanto che il suo occhio indagatore  vola su qualcosa che gli è appartenuto e a cui è ancora legato affettivamente.  C’è tenerezza  e una nostalgica malinconia  nel rilevare questi mutamenti e un po’ di rabbia nel vedere come alcune cose siano andate peggiorando rispetto a un passato in cui il nostro paese intero, diciamocelo pure, si trovava in un clima di minore incertezza, sia politica che socio- economica. E in effetti, in questi racconti, sono rilevabili anche delle denunce sociali che navigano in una sorta di discrezione che a sua volta è molto eloquente, celata sempre tra le righe di una prosa che parla di artisti di strada , di cuochi alla ribalta e di escort , del sesso a pagamento, la cui presenza in alcune situazioni, ma anche nella quotidianità, rappresenta ormai la quasi totale normalità.

In Sarabanda lo scrittore , molto diligentemente, si esime dal dare, o dal far trapelare, giudizi diretti sulla società o sui singoli individui e altrettanto diligentemente, poiché ciò è richiesto dalla buona letteratura, egli si limita a raccontare situazioni, o a esporre atteggiamenti che, cosa di non poco conto, ci fanno anche sorridere . Ciò accade semplicemente perché spesso anche noi ci siamo ritrovati a vivere le stesse esperienze e leggendo questo libro ci si meraviglia  per il modo leggero e garbato con cui ci si ritrova introdotti in quelle trame.
Aldilà dei regimi autobiografici che dominano i primi  racconti, diremo che in questo libro, man mano che si va avanti nella lettura, ci si rende conto che  l’ autore sale i gradini della sua scala narrativa  verso altri lidi e approda a racconti come quelli intitolati Cuore di chef  e Il treno, dai quali esce in maniera incontrovertibile tutto ciò che abbiamo già detto .  Il fatto che nel primo di questi due racconti venga esposto chiaramente l’atteggiamento egocentrico e arrogante dello chef, fa emergere nel lettore la stessa distaccata ironia con cui si presume l’autore stesso guardi il suo cuoco, personaggio cui, attraverso i programmi di cucina dai quali siamo bombardati, è stato dato un potere mediatico che forse non gli spetta.  Ne Il treno la trama è più intima e lui stesso, il protagonista, nonostante capisca e voglia a tutti i costi adattarsi alla realtà, egli resta, nei retroscena del pensiero, come sbigottito dall’atteggiamento  così sveglio e naturale, preponderante oseremo dire, assunto dalla donna con cui ha a che fare, fermo restando che questo atteggiamento di stupore, o di sguardo stupito che a volte appare dietro le quinte, pervade un po’ tutti i racconti e anche buona parte delle poesie. Ma non si ferma a questo la scala narrativa di Salvatore Casolaro .Essa è composta anche da altri gradini da scendere o da salire e, da una prosa dove egli stesso, col proprio bagaglio di ricordi,  o il suo essere uomo  sono direttamente coinvolti, egli passa facilmente al ruolo che secondo noi  meglio gli compete, ossia a quello di osservatore puro.  E’ il caso del racconto intitolato L’amicizia . Ora, che si tratti di pura invenzione o di realtà non si sa . Facile è pensare che si tratti di entrambe le cose, coadiuvate dalla creatività dell’autore.    Diremo che, aldilà della trama stessa, dove appaiono un suonatore ambulante e un cane, poi un altro suonatore e un altro cane, ciò che attrae veramente in questo racconto e che lo rende uno dei più interessanti della raccolta, è che, come osservando dal tavolino di un bar, l’autore riesce a un certo punto a trasformare la piazza in cui si svolge la vicenda in una specie di palcoscenico teatrale o, più precisamente, in un palcoscenico dalle caratteristiche circensi.
Bene: abbiamo appena usato l’espressione – a un certo punto-  e diremo altresì che nel contesto di questo racconto l’espressione è giusta,  perché è proprio  – a un certo punto- e soltanto  – a un certo punto-  che ci si accorge del valore di questa storia. Da par mio, appena iniziata a leggere, mi sono chiesto dove potesse portare una storia che alterna la semplice descrizione dei comportamenti di un cane  a quella degli atteggiamenti di un essere umano, ma ecco che subito arrivano gli altri due simili e a quel punto  le vicende si intrecciano. In quel momento si apre il sipario del palcoscenico di cui parlavamo  e  vanno in scena le difficoltà che inevitabilmente si incontrano prima di giungere a un’amicizia vera. Nulla è gratis, sia per gli esseri umani che per gli animali e su questo scenario si instaura la commedia della vita , con una fuoriuscita di senso lenta e multiforme, come fosse una musica dolce che arriva pian piano al dunque, un po’ come accade nei racconti di Cechov, se vogliamo fare un paragone.
Questo libro, nel complesso,  sia nei racconti che nelle poesie, esprime in pieno ciò che viene evocato dal titolo. Sarabanda è una danza che a sua volta evoca intrecci lenti e amorosi, ma anche confusione e stordimento, nel senso che il soggetto del libro si trova spesso a vivere situazioni non proprio volute. Nel caso del racconto intitolato Il massaggio , in cui una  proposta è più che esplicita,il protagonista, che parla in prima persona, si ritrova a ripensare a un’esperienza erotica già vissuta. Ora, non si sa con quali scopi o con quali speranze egli sia entrato nel centro benessere, fatto sta che si ritrova col sesso in subbuglio e accetta la proposta, vittima di un mondo che offre sesso a pagamento senza lasciarti una vera e propria libertà di scelta.  Comunque, i racconti sono scritti in modo scorrevole e si divorano in un attimo. Quelli, come dicevamo, che volgono più verso l’autobiografia, essendo legati al ricordo, hanno ritmi lenti, con contenuti dolci o amari a seconda dei casi. Le vicende escono dalla penna dell’autore ricche di sentimento, in un coinvolgente tuffo in ciò che più è rimasto piantato nel cuore o nella mente, mentre gli altri, quelli che parlano del presente per intenderci, sono intrisi di azione e di un ritmo accelerato che porta verso finali in cui l’autore lascia uno spazio abbastanza ampio all’interpretazione del lettore.

In un mondo indifferente ho scrutato i volti della gente, dice l’autore nella poesia intitolata Richiamo. Ebbene, la poesia ha il potere di chiudere il mondo , l’immenso, in uno scrigno fatto di versi, che è anche quello del sentire dell’anima da cui parte l’impulso. Tutto si trasferisce in una regione sospesa tra fantasia e realtà , in un qualche emisfero parallelo che conserva sempre una qualche verità. 
Queste poesie di Salvatore Casolaro, vengono buttate fuori dall’anima di getto e soprattutto in alcune, il loro effetto sul lettore appare più crudo, ossia  di maggiore impatto psicologico  rispetto all’effetto prodotto dai racconti. In esse c’è un miscuglio di sentimenti, c’è un po’ di rabbia e un po’ di stupore, accettazione, ma anche godimento di tutto quello che la vita ha da offrire.  Questa sete di vivere viene esternata chiaramente nella poesia dal titolo Angoscia dove viene portata in luce una bramosia che si contrappone  a un lento scorrere che rischia di far passare tutto senza essere vissuto in pieno.  Nella poesia dal titolo Città di mare egli paragona la sua amante a una città di questo tipo, ed è anticonformista, libera e vera come la città in questione. E come in tutte le poesie anche in questa confluiscono le regole della prosa, che la rendono alquanto esplicativa, con dei giochi metaforici portati in totale evidenza persino nel titolo, che non lascia dubbi a ciò di cui stiamo parlando; fermo restando che anche qui, nella forma, non mancano, disseminati qua e la,  punti di lirismo assoluto e versi rimati che contengono una musicalità del tutto estranea al genere prosastico:  Vestita, spogliata, truccata o immutata, ti dicono t’amo e ti impongono il morso, ma ritorni ogni volta selvaggia e ribelle.
Anche nelle poesie si riscontra una scala espressiva che possiede gradi diversi e se nelle due ultime citate e in altre ancora è messa in risalto la parte più sanguigna e in presa diretta con la realtà , in altre , come Il Tempo, molto bella tra l’altro, Acquarello notturno di paeseSoffio di vita ; pur conservando un timbro potente ,  prevalgono invece la capacità di analisi, la riflessione e lo sguardo da osservatore, che creano ritmi più lenti e suggestivi, ricchi di profonda umanità.
 Mi chiedo a chi appartieni. Cerco di percepire la mia immagine fuori da me, sentire la mia voce e capire il senso delle mie parole. Un semplice gesto rivolto a te un attimo dopo non è più  mio né tuo .  Da Il Tempo. E ancora, da Soffio di vita : C’è una finestra nella mia mente che si apre sui tetti delle case e sui tetti delle case c’è il rosa della controra...   C’è il mondo nella mia anima, e nella mia anima c’è una finestra sui tetti delle case, e nessuno mai potrà chiudere quella finestra.
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Per quel che riguarda invece l’ottima fotografia di Andrea Alfano, non essendo critici di tale materia, ci limiteremo a dire che esse hanno forte carattere simbolico.  I soggetti in primo piano infatti, ci sembra parlino chiaramente di tutto il mondo che c’è dietro, quasi essi fossero delle icone di quell’universo.  Dietro al cuoco che porge il piatto di pietanze c’è la gastronomia e tutte le sue appendici; dietro la ragazza fotografata in una via cittadina tra altre immagini sfocate , c’è il suo mondo e quello di tutti gli altri giovani, così come dietro al signore anziano che passa davanti al negozio O’ scannetiello appaiono la vita vissuta, il pieno di ricordi e un’epoca passata che forse può insegnare ancora qualcosa.  Per concludere aggiungerei soltanto che le fotografie sono inserite ad hoc per completare questa Sarabanda di colori, questo viaggio intrapreso e che si intraprende leggendo il libro di Salvatore Casolaro

Roberto De Luca 09/ 10/ 2016


1 commento:

  1. Ringrazio caldamente il caro, adorato Nazario per aver concesso spazio a due dei tanti recensori romani che, in occasione degli eventi, numerosissimi, si prestano per pura passione, con autentico fervore umanistico. Averli accanto significa credere nella Cultura.
    Abbraccio loro e il carissimo condottiero di questo blog magnifico!
    Maria Rizzi

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