PREFAZIONE
ALLA SILLOGE I CLASSIFICATA
AL PREMIO LETTERARIO "IL PORTONE 2016"
PAESAGGI,
AL PREMIO LETTERARIO "IL PORTONE 2016"
PAESAGGI,
DI
MARIA TERESA LANDI
Aironi
E
arrivarono,
spinti
dal vento del mare,
gli
aironi grigi,
in
un cielo d’autunno.
Si
posarono leggeri
tra
le cannucce,
nel
canale l’acqua
increspata.
Sapevano
già
dell’estate
finita
e
del triste saluto
all’erba
ingiallita,
agli
ultimi fiori
strapazzati
dai giorni,
alle
foglie stanche
del
pioppeto argentato.
Sul
ponte un pescatore
solitario assisteva all’addio.
Iniziare
da questa poesia significa penetrare fin da subito in quelli che sono gli
spunti focali della silloge: gli aironi, il loro volo calmo e placido, il vento
salmastro, la melanconia, la fine di una stagione opulenta, il sopraggiungere
di un autunno dai fiori strapazzati, dalle foglie stanche, e la solitudine del
pescatore nelle sue assorte meditazioni. Cosa di più emblematico? Cosa di più
attinente a tutto ciò che rappresenta la vita, il suo irreparabile scorrere, la
sua contingenza, il suo desiderio di fuga; è in ognuno di noi, nella solitudine
immanente della nostra vicenda, lo spirito errante; il senso profondo di un
addio. Forse l’uomo va in cerca di qualcosa che non esiste; il fatto sta che
spesso questa sua ricerca è volta al mare. A questo luogo dagli infiniti
orizzonti; al suo faro di luce che illumina una parte esigua della sua
immensità. Tanti i simboli in questi versi che con il loro alternarsi di misure
varie (settenari, decasillabi, quaternari,
quinari…) vanno dietro all’effusione di un’anima volta a traslare l’immanente in cieli di azzurra corposità. E il tutto in un
passato remoto che incide la sua sostanza in un presente attivo e fattivo; in
un quadro di realistica ma anche emotiva
visione, reso visivo da una cordialità espositiva e da una nitidezza
descrittiva di sana efficacia lirica: “La città un po’ mi rassomiglia./ Quando si veste d’abiti
nuovi/ per celare il vecchiume,/ prova vergogna dei muri/ altezzosi e superbi/
e lacrima su lacrima/ si riduce in frantumi,/ polvere di sogni,/ nell’oblio
della vita”; sì, proprio, riporta a memoria quel realismo lirico di fattura
capassiana che tanto influenzò gli scrittori del secolo scorso. Una successione
di elementi messi in una diacronica e perfetta simbiosi analitica; di elementi
tecnico-formali che accompagnano lo svilupparsi del testo, come la congiunzione
iniziale che dà continuità, e morbidezza al correre del verbo. Diversa e secca,
conclusiva e netta, sarebbe stata la voce verbale lasciata da sola nel verso,
mentre il canto ha bisogno di abbandonarsi a prolungamenti, di lasciare spazio
a continui rinvii per il lettore, e per la sua resa. Anche questi accorgimenti
tecnico-ispirativi ci mettono da subito sull’attenti di fronte a un dire di
maiuscola portata.
Quindi silloge densa, fitta, di simbolico
esistenzialismo, di ricchezza paesaggistica, che, con il suo percorso
strutturale, abbraccia e dà corpo ad un ontologico senso dell’esistere; a
quello di una vita che trova nella realtà contingente i riflessi di un
epigrammatica storia: “Paesaggi è il titolo di questa silloge; paesaggi reali e
sognati, richiamati dal passato o parti del presente. Le immagini sfilano
davanti agli occhi e nel cuore, si accavallano una dopo l’altra, spesso
limpide, altre volte confuse…”, scrive la poetessa nella sua presentazione. E
si sa che la vita è fatta di turbamenti, riflessioni, illusioni, delusioni,
amori, sogni, memorie… Sta nel trovare
il coraggio di raccontarla “ la mia storia,/ senza fuggire ogni volta/ a
cercare chissà cosa e perché […]”; sta nella complessità dei subbugli intimi il
cuore di questo “poema”; nella sua scioltezza, nella sua euritmica fusione,
nell’abbraccio che la natura volge al tutto, consapevole di dover rendere alla
penna le immagini rivestite di pathos e di melanconica energia poetica: “Nello
specchio del tramonto mi rifletto,/ affido a te, refolo leggero,/ il ricordo
delle passate stagioni…” (Stagioni); “… Un ramo secco,/ straccato dal mare/
dopo la tempesta,/ sono ormai./ Pugno d’alghe,/ succo di medusa/ svanito nella
sabbia” (Apnea totale). È il tempo che con le sue continue e irreversibili
sottrazioni segna momenti di inquietudine in questi spazi ristretti di un
soggiorno: “… Più tardi ecco la pioggia/ dal mare,/ a tratti violenta, poi più
calma,/ leggiadra./ Le labbra crepate l’accolsero/ grate a placare le tante
ferite/ tracciate dal segno ingrato del tempo”. È così che lo spirito della
Nostra, uscendo dall’involucro materiale, vagola per campagne, mari, per monti
e per valli, nel buio delle notti, in un viaggio metafora, per carpire ombre,
penombre, refoli, luci, notturni e farne un serbatoio a cui ricorrere per dar vita e colore al suo messaggio di intima pluralità.
D’altronde è nel serbatoio del patrimonio memoriale, nello sguardo ad una
realtà-richiamo di tante storie, di tante stagioni fresche o appassite, che la
poesia trova l’alimento e il terreno fertile a far fiorire petali di profumati
volti, o autunni di melanconica
decadenza: “… a casa, sporca di terra,/ tornavo felice nel cuore./ Serena è
l’Infanzia, quando/ ti aspetta chi ti vuol bene!/ Un’altra stagione vivevo di me,/
sepolta poi dagli anni arroganti”; di questa complessità umana, di questo andirivieni
di emozioni, di questo refrain di voli e di svoli, di giorni ripresi, di ore
tradite, di sogni bambini, si ciba il canto della Landi: “L’altra notte ho
sognato/ e nel sogno correvo bambina/ tra solchi di grano maturo,/ melmosi
fossati, iris gialli/ di sole, grigi aironi eleganti…”. E il tutto si dipana su
uno spartito semplice e fluente, generoso e apodittico; su uno spartito
arricchito di fonosimbolismi di potenza iconica; di sinestetica misura, senza
cadere mai in beceri sentimentalismi, in pedissequi epigonismi, o in
armamentari retorici, carichi di inutili orpelli. È la sua semplice
complessità, la stretta fusione fra forma e contenuto, che convince e
persuade. E anche se giochi di
sotterranee malinconie ne pervadono gli intrecci effusivi, al fin fine quello
che domina è uno straripante amore per la vita: ed è proprio nei momenti di
maggior delusione che si nota questo attaccamento; nelle rievocazioni cariche
di sostanza umana; visto che la Nostra l’ha vissuta appieno, in tutta la sua
portata, la sua vicenda, e pensa che rievocarla significhi prolungarla: “Nel
buio della città opaca di notte/ noi due, la strada deserta,/ le case dai volti
ostili: porte e finestre/ serrate sui reconditi cortili./ “Hai paura?” mi
chiede./ “No, piuttosto gioia.”. Ed è nel silenzio quando “ I ricordi decantano lievi nel sogno/
di un incerto presente sospeso”, quando “tutto hai già detto e non servon
parole/ che cadono nell’aria notturna/ a frantumare la pace dei nostri
pensieri/ come cascate bianche di spuma/ indistinte nel mare del cuore.” che la poetessa trova la
sua serenità.
Nazario
Pardini
DAL TESTO
Trovare
il coraggio di raccontarla
la mia
storia,
senza
fuggire ogni volta
a
cercare chissà cosa e perché.
Una storia
fatta di nulla,
invisibile
anche a me stessa,
ma se
raccontata senza vergogna
diventa
luce,
luce
splendente.
Perché
non serve rincorrere il giorno
all’altro
capo del mondo,
quando
la notte copre lo sguardo,
o l’alba
è già dietro le tue spalle incurvate.
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