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DAL TESTO
Prefazione
Raffronto
fra un passato divenuto favoloso e un presente assorto e vespertino
La raccolta è divisa in due parti di cui
la prima, "La barca", composta da tredici "Cantici" (Dell'aia, Del sole, Della campagna, Dei
pini, Del mare, Del fiume, Dell'autunno, Della sera, Dell'alba, Della vita,
Dell'amore, Della barca, Della Bellezza) è un'evocazione mitizzante degli
anni di giovinezza mentre la seconda (Anatomia
della sera), riferita al presente, in forma di ripiegamento patetico, è una
rivisitazione di quei luoghi e una meditazione sul tempo che trascorre e tutto
travolge e muta. Al clima arcadico dei Cantici
seguono i toni sommessi e le tinte crepuscolari di Anatomia della sera. Ripercorrono l'orma dei Canti dell'assenza questi Cantici
di Nazario Pardini nel ritracciamento di quel patrimonio affettivo di ricordi,
lontani nel tempo ma radicati e vividi nella mente. Il mondo rievocato è il
mondo agreste della provincia toscana negli anni del dopoguerra, cantato
pascolianamente cinquant'anni dopo le Myricae
e i Canti di Castelvecchio del genio
romagnolo. L'adesione al modello pascoliano è evidente nella fervida cordialità
dell'esposizione, nella nitidezza descrittiva, accresciuta dalla
molteplicità dei dettagli ambientali e dall'appropriatezza della terminologia
zoologica o botanica e, caratteristicamente, nella disposizione d'animo ad affiancare
la pittura idilliaca al ripiegamento intimistico, patetico o filosofeggiante.
Lungo questo sentiero
Pardini calibra e affina ulteriormente i già cospicui mezzi letterari esibiti
nell'opera precedente giungendo a configurare un prosimetro simultaneo
perfetto, una sorta di versificazione della prosa, dove un eloquio strutturato,
per lessico, ritmo e sintassi, sul modulo della prosa viene scomposto in versi.
Si tratterebbe, di fatto, di una forma che realizza una conciliazione fra
prosa e poesia metrica, di una sorta di "narrazione metrica", in cui
la versificazione appare come un sistema metrico aperto, variabile, imperniato
e ritmato su una misura dominante che può essere costante ed esclusiva
(v. ad es. Ottobre, formata da
soli endecasillabi) oppure presente in sequenze di varia durata intervallate da
misure accessorie. Così ne Il cantico dei
pini la cadenza dominante di endecasillabo è sincopata da un quinario
all'undicesimo verso e da un distico di settenari ai vv. 16 e 17 mentre i due
alessandrini ai vv. 10 e 22 sono altrettanti momenti di espansione oratoria; ne
Il cantico del fiume il verso
dominante è il settenario mentre accessori figurano il ternario, il quinario,
con effetto contrattivo e novenario ed endecasillabo, con effetto estensivo; ne
Il canto dell'autunno prevalente è il
novenario, demoltiplicato in senari e ternari e accresciuto di tre sillabe nel
dodecasillabo all'ottavo verso; sono presenti inoltre due versi impari
(settenario ed endecasillabo) nella quartina conclusiva. È singolare e
ammirevole altresì come tanto la prosa quanto la versificazione abbiano una
loro identità formale, una loro indipendenza, una loro precisa e ben
distinta autonomia pur nella sostanziale omogeneità del dettato poetico.
A formare una specie di tessuto connettivo fra le due componenti il poeta
ricorre, con varietà e perizia, a un sapiente gioco di inarcature, dove il
ricorso all'"enjambement" non è obbligato e neppure insistito, ma,
seppur frequente, mai gratuito, spesso utilizzato per chiudere un concetto
all'emistichio del verso seguente, dosato così abilmente da non
compromettere mai la scorrevolezza narrativa e i ritmi dettanti di questo testo
bifronte, a duplice valenza. In realtà compare un altro elemento transitivo a
funzione connettiva fra prosa e poesia e questo è rappresentato da una
certa (invero limitata) quantità di versi spurî, deroganti, per vari aspetti, dall'esatta
ortodossia metrica. Se l'endecasillabo sciolto è, come in altre sue opere,
anche qui il verso largamente prediletto dal poeta toscano (ma anche settenario
e novenario sono gestiti con sicurezza) ci si può imbattere, in misura
variabile da titolo a titolo, in versi eterodossi, "inciampanti" (in
genere endecasillabi "lunghi" (dodecasillabi) o
"brevi"(decasillabi)), in improvvisi alessandrini asimmetrici, oppure
più semplicemente in versi extraritmici per dislocazioni di tonica o in
sillabe dissonanti per conflitti fonetici (v. la sinalèfe disfonica di "si
fa alcova" al 26° verso de Il
cantico dell'amore. Queste episodiche e comunque contenute infrazioni
metriche, rappresentano, a mio avviso, solo in apparenza il frutto di un allentamento
della vigilanza compositiva ma potrebbero configurare invece una ben precisa
scelta formale, sia per la già citata necessità di "suturare" il
periodare prosastico alla versificazione poetica, sia per ottenere delle
pause, delle tregue che alleggeriscano e distendano da un lato la tensione
ritmica creata dai versi ortodossi e che, dall'altro, per contrasto, ne
facciano risaltare le cadenze. Un certo numero di questi versi
"imperfetti"si ritrova nel concettoso e laborioso già citato Cantico dell'amore. Sia come sia, che
sia voluta o meno, questa sporadica "nonchalance" compositiva non
altera più di tanto l'ampio respiro musicale e la vigorosa eloquenza che, grazie
al sapiente ordito metrico, domina questi Cantici: serve, se mai, a ridimensionarne l'enfasi, a mitigare
l'inevitabile aura di ampollosità connaturata a ogni dettato metrico.
Colpiscono e si fanno ammirare poi certe
aperture liriche aeree e luminose, cariche di vita e di freschezza, a
cominciare dalla splendida quartina iniziale del Cantico dell'aia o anche la vivida terzina d'esordio del Cantico del sole o infine il leggiadro
incipit in endecasillabo e triplice settenario del Cantico del mare:
"È già festa sull'aia. Stamattina
ecco i canti di giovani fanciulle
ai raggi luminosi sulle stoppie
dalle finestre aperte alle
speranze."
(Il
cantico dell'aia)
"Eccolo il sole. Sbuca dal Pisano
con in mano una fresca serenata
per l'anima dei campi. È già
mattina."
(Il
cantico del sole)
"L'elicriso è fiorito al dir di
maggio,
ed è un tappeto giallo.
Le dune incoronate
mi parlano d'estate. ......"
(Il
cantico del mare)
Così anche è memorabile il franco e
innocente alessandrino che apre il Cantico
dell'amore e che in qualche modo riassume in un solo verso tutta la
raccolta e ne rappresenta il nucleo poetico:
"Non ho altro che il sole di maggio
nel cuore"
Sono non rare d'altra parte le pregevoli
invenzioni linguistiche, le squisitezze verbali disseminate in questa raccolta
così come certi fugaci lampi di ricercatezza lessicale ( "equore",
"lucore").
Esemplare a proposito il distico di
apertura del Cantico dell'alba:
"Scialo di luce in albe traforate
da rondini irrequiete. Ed è già
giorno.
(Il
cantico dell'alba)
E ancora il bellissimo endecasillabo
esclamativo, espansivo, di ascendenza pascoliana, incantevole nella sua
modernità di linguaggio, al penultimo verso di Tornavo ch'era sera:
"Com'era larga l'aria che
azzurrava!"
(Tornavo
ch'era sera)
In questo poetare, precipuamente affidato
al ritmo, trovano posto, sebbene con parsimonia e in modo del tutto libero e
frammentario, un certo numero di corrispondenze fonetiche. Si tratta di
assonanze oppure di rime sparse a coppie di distici ("nascosto dalle
fronde/ prima che le sue onde", ".............. I remi stenti /
hanno solcato mari indifferenti", ".................... Tanta
morte/devi vederti attorno, tanta sorte/................", "E tutto
nel mistero inultimato./Eterno desiderio inattuato") o talora anticipate
all'emistichio del verso seguente:
"....................................
Le dune incoronate
mi parlano di estate. Sulla rena
porta carezze l'alito del mare
e i primi butti vibrano festosi
inconsci dei marosi che improvvisi
............................................................."
(Il
cantico del mare)
"La ricordi la neve; il suo brillare
di cui non c'è confine. Quello è amore.
È quello il suo candore; il suo apparire.
......................................................................."
(Il
cantico dell'amore)
Pardini ancora, amabilmente, gioca con le
rime anche all'interno di un solo verso, ponendole ai suoi estremi, come in Sera d'autunno, oppure al suo centro,
come nella rima interna epiforica dell'endecasillabo iniziale del Cantico della barca:
"I tremiti d'autunno si dilatano
rochi nel piano come i colpi fiochi
che inchiodano la bara al cimitero."
(Sera
d'autunno)
"Sono una barca che s'inarca al
mare"
(Il
cantico della barca)
Un andamento ritmico pressoché completo
si ha una sola volta, nei quattordici endecasillabi di Presto ritornerò, un sonetto a strofe ripetute a schema ABCD ABCD
EFG EfG, dove la penultima rima è sostituita dall' assonanza anagrammatica
"rondine-ordine". Infine, una rimatura al primo e terzo verso si ha
nelle due quartine in corsivo dell'ultima composizione della raccolta, la
struggente elegia di Ormai è
di sera dove peraltro è mirabile l'impiego dell'enjambement:
"..................................................................
Vedo ai suoi dolci occhi della sera
l'azzurro glauco effuso. E ancora vedo
il suo carnato perleo come cera
tramutarsi in camelia.
......................................................................
Erano i suoi capelli un po' negletti
e arruffati dal refolo di sera
sulla sua chioma. E gli squittî sui tetti
serenate ai suoi voli.
....................................................................."
(Ormai
è di sera)
Per la struttura compositiva sovraesposta
che, con grande abilità e gusto infallibile, accomuna e fonde prosa e
versificazione e che, in quest'ultima, si riserva un'ampia libertà nella scelta
e nella disposizione delle misure, delle cadenze e delle concordanze fonetiche,
la poesia di Pardini in questi Cantici appare come un congegno letterario
alquanto versatile, a un tempo eclettico e coeso, libero e rigoroso, oltre che
particolarmente fornito di valenze espressive.
Molti strumenti dunque in quest'opera,
ampia scelta di modi e opzioni formali e infine svariate identità:
raffronto fra un passato divenuto favoloso e un presente assorto e vespertino,
"rechèrche" e ricostruzione, decantazione e mitizzazione della
giovinezza, culto della natura e della famiglia, epica agreste e cronaca di un
dopoguerra, diario intimo e storia, autocelebrazione e confessione, orgoglio e
rimpianto, ma soprattutto salvataggio e custodia di memorie affettive. Come
testimonianza e come testamento. Come sfida all'oblio. Come un'urna d'amore.
Luciano Domenighini
DAL TESTO
La barca
Il cantico dell’aia
È già festa sull’aia. Stamattina
ecco i canti di giovani fanciulle
ai raggi luminosi sulle stoppie
dalle finestre aperte alle speranze.
I carri, pieni zeppi, porteranno
i covoni stridenti di calura.
Braccia nude (coperte gaie teste
di pezzuole ricamate arcobaleno)
batteranno le spighe per stornare
i grani dalla paglia. Ton, ton…
Si avvicendano i tonfi sul selciato,
e l’uno dopo l’altro danno il ritmo
ai canti tramandati dagli atavici
riti rurali. Girano le fiasche
di acqua cristallina a liberare
le gole dalla pula: voci allegre,
grida di piacere, scherzi loquaci,
lieve rugiada dal cielo del cuore
che dalla fronte cala a gocciolare
sopra la paglia rovente dell’aia.
Venite dee dell’abbondanza, dèi
delle cantine, dei granai, dei
forni! Venite ad immolare le fascine
al pane sacro delle antiche mense
sane e frugali dei lieti commensali.
Di già fa capriole sopra i tetti
il fumo del camino. Già si annoda
ai rami verdeggianti di stagione;
già riposa sui rossi cocci, grigio,
prima di mescolarsi fra le nubi
infilzato dai voli
svelti al sole di
luglio. Il grano è pronto.
Ritorna dal mulino in bianca veste
per darsi alla
massaia. Ella lo spegne,
lo forma, lo riscalda una nottata,
e con la pala lo infila nella bocca
dell’uso rituale del cantico del pane.
Si diffonde il profumo per la corte;
chiama padri, fanciulli, che dai campi
a gustare corrono vogliosi
schiacciate calde di ciccioli e d’uva
che la pergola ha data in abbondanza.
Si torna dalla terra;
riposano le bestie sopra i prati
per uscire di nuovo alla campagna.
Si pranza. Il primo pane una manna
col pollo del cortile ed i fagioli
con le cotiche tenute in salamoia.
Giorni di pace, di festa, d’amore;
il connubio fra l’uomo e la natura
si attua ogni mattino ed ogni sera.
Peccato che gli dèi, stanchi oramai,
di uomini lontani dall’Olimpo,
abbiano evaso gli usi; che gli umani
abbiano smesso antichi sacrifici
ai filari di vigne, alle raccolte;
abbiano smesso di cantare ai forni,
alle feste di sfoglie, o a pigiature
nei tini gorgoglianti di romanze,
dove gli occhi di giovani incantati
cercavano l’amore fra le chiome,
o fra i seni ammorbiditi dai sospiri.
Il cantico
del sole
Eccolo il
sole. Sbuca dal Pisano
con in mano
una fresca serenata
per l’anima
dei campi. È già mattina.
Ci si desta
con in mente la luce,
le sementi,
gli attrezzi ed il lavoro
per la cura
delle viti e dei frutti
che già
danno germogli. Rigogliosi
azzardano
alla vita bocci e fiori,
gioiosi per
l’incontro con i raggi
che
abbracciano la terra. Il muggito
richiama il
paesano. Le mammelle
sono
cariche di latte ed i buoi
affacciano
lo sguardo allo spiraglio
che
illumina la stalla. Si preparano
il carro e
le cavezze. Lo stradone
accoglie il
passo lento delle bestie
accarezzate
dall’astro. Si fecondano
i solchi;
si dà il rame; si pota;
si diserba.
La cincia prende il volo
destata
dallo schiocco delle forbici
da pota. Il pranzo attende sotto il quercio;
è lì che
brucano le mucche; e l’erba
è ancora
rugiadosa. Si ritorna
la sera
quando il sole rapina l’occidente,
gli orizzonti
di sapide marine.
Il cantico della campagna
L’onda bianca
del sole dilaga sulla piana,
sulla battigia
verde delle vigne.
Frantumano le
cime dei cipressi
le loro ombre
mentre fanno i fiori
il pèsco,
l’albicocco ed il ciliegio;
gioiscono del
chiaro e fra le fronde
il merlo
sfrega il becco sullo stecco
in attesa dei
frutti. Tutti quanti
bevono
primavera e la lucertola
verdeggia
sopra il muro soleggiato.
Dentro di me
riprendo il legno curvo
dell’aratro di mio padre e rompo il fianco
del campo. A giugno sarà biondo
il ruscello
del grano, si darà
al forno
ardente per donare pane
che straripò
felice al pugno chiuso
che nella
madia modellò mia madre.
Ho ritrovato i
semi ed i sapori,
ho ritrovato i
voli, e i solchi aperti,
ho ritrovato
spazi ed orizzonti,
le barbe fonde
delle mie radici.
E voi
fate che il
canto mio sia sempre fertile
di una storia
lontana. E che si abbeveri
alla fontana
fresca dei miei avi
che zampilla
vicino. È là che splende
con frustate
di sole la mia casa;
è là che il
sole troneggia regale
sull’aspro
canto delle mie memorie.
.....
Il cantico
della barca
Sono una
barca che s’inarca al mare,
sono un
fuscello in balìa del vento
che cerca
un porto dove rifugiare
le mie
malinconie. A volte ho visto
una pallida
luce di conforto
a
indirizzare la prua. I remi stenti
hanno
solcato mari indifferenti
verso il
chiarore delle mie speranze.
Invano.
Tutto spariva all’approccio.
E
l’infinito gorgo riappariva
alle mie
carni deboli e insicure.
Ho navigato
incerto in queste acque
sbattuto
spesso da onde pellegrine
in scogli
aspri e crudi; in rocce scure.
Sono una
barca che s’inarca al mare,
una barca
disfatta che non tiene
i suoi
legni compatti. La mia anima
azzarda
fughe verso mondi nuovi
che non mi
sono vicini. E vola,
seguendo
gli indirizzi degli aironi
che battono
le ali, per pentirsi
e ritornare
presto ai cari legni
che hanno
tenuto in seno i miei respiri;
gli amari
pasti di un’intera vita.
Aspetto un
porto. Un faro che m’illumini;
una scia
che segni la mia rotta;
una guida
che franga questo azzurro
nero. Mi dia qualche certezza e poi
restare
quieto fuori dalle acque
di tale
mare che non ha confini.
Giungano i più vivi rallegramenti al Prof. Nazario Pardini per questi splendidi "Cantici" che pervadono l'anima di emozioni vitali "dalle finestre aperte alle speranze", nel profumo di "pane sacro", nel connubio di pace, festa e amore tra l’uomo e la natura. E "Peccato che gli dèi, stanchi oramai, / di uomini lontani dall’Olimpo, / abbiano evaso gli usi; che gli umani / abbiano smesso antichi sacrifici / ai filari di vigne, alle raccolte; / abbiano smesso di cantare ai forni, / alle feste di sfoglie, o a pigiature /
RispondiEliminanei tini gorgoglianti di romanze... ". Grazie per i sublimi versi e per i rimandi poetici e filosofici che elevano lo spirito... Un affettuoso saluto !
Prima di esprimere alcune mie sensazioni mi preme trascrivere alcuni versi da (Il cantico della barca)
RispondiEliminaLa mia anima
azzarda fughe verso mondi nuovi
che non mi sono vicini. E vola,
seguendo gli indirizzi degli aironi
che battono le ali, per pentirsi
e ritornare presto ai cari legni
che hanno tenuto in seno i miei respiri;
gli amari pasti di un’intera vita.
Sono versi che mi hanno toccato ed emozionato moltissimo e che condivido in pieno, per quel senso di nostalgia e ricordi di cui sono intrisi come la consapevolezza della perdita irrimediabile di un passato che non può più fare ritorno. Le sensazioni nostalgiche scatenano una tempesta di emozioni che vorremmo quasi catturare per impedirne la fuga o allontanare per il dolore che può procurarci. La tristezza non è prerogativa dei deboli ma delle persone forti perché capaci di rimettere insieme, senza timore alcuno, i pezzi del passato e fare della vita un percorso compatto.
Niente è per sempre, e quel desiderio di tornare indietro ci rammenta il nostro legame con il passato, con quella parte di noi che sembra essere andata via per sempre, ma che continua a scorrere impetuosamente dentro il nostro essere rendendoci le persone che siamo, in grado di smarrirci nella nostalgia senza paura. Una breve e intensa emozione di felicità può far riaffiorare un attimo del passato lasciando che la mente indugi liberamente su quell’istante.
Grazie al grande Nazario Pardini per averci donato momenti poetici di così alta levatura non solo contenutistica ma per espressione linguistica perfetta, fine e ricercata da cui ognuno di noi può trarre beneficio. Con sempre rinnovata stima e ammirazione.
Emma Mazzuca
A Nazario
RispondiEliminaLa barca tua ha legni di memorie
incastonate come nere cozze:
apri le valve e vi ritrovi perle
luminescenti, sfaccettati fari
a schiarire la torba dell'esistere.
Ci sembra ieri, gli elicrisi d'oro
che s'aprono a ventaglio sulla battima
son mosaici di luce dentro il cuore.
Canti fanciulli, vigne, fieni, stoppie
ecco schiudi lo scrigno e ci regali
a piene mani il tuo mondo bambino
nelle nebbie del tempo ormai perduto.
Ma le parole tue hanno di nuovo
il profumo del pane appena cotto,
mugghian le bestie ancora nelle stalle,
gorgoglia il vino al ribollio dei tini.
Non azzardar confini.E' questo mare
oceano inesplorato che ci dona
brividi nuovi al muovere dell'onde.
Ciao, grandissimo. Carla
E’certo che Nazario nel suo attento viaggiare, sia riuscito a riempire uno zaino, zeppo di essenze profumate.
RispondiEliminaTesori che ci dona a piene mani attraverso i suoi magnifici testi. Che devo dire a questo Toscanaccio che adoro, se non che in ogni sua poesia, sia racchiuso l’universo, con tutti i suoi segreti.
Grazie caro Nazario.
Serenella Menichetti
Ammirevoli e travolgenti i cantici del nostro grande poeta. Versi armoniosi che diffondono la straripante forza emozionale dello spirito creativo intriso di vita. Ne Il cantico della campagna i versi toccano ogni fibra del mio essere e mi riportano lontano nel tempo e nel luogo più profondo della mia memoria.
RispondiElimina"E voi
fate che il canto mio sia sempre fertile
di una storia lontana."
E questo è un testamento poetico prezioso per noi che abbiamo tanto da apprendere.
Grazie Nazario e complimenti