Carla Baroni, collaboratrice di Lèucade |
Perfettamente in linea con la giornata della donna questa piccola raccolta di poesie di Maria Adelaide Petrillo. È una scrittura al femminile ma dal piglio forte, senza sdolcinature quasi che il tempo avesse sublimato, portandoli a una dimensione superiore, gli accadimenti dolorosi che vi sono raccontati. Prima un padre che forse ha abbandonato la famiglia “il male che ci hai fatto” generando ulteriori assenze di affetti da parte della madre chiusa nelle sue angosce tanto che “la gioia dell'infanzia, mio diritto/mi fu negata senza alcun ritorno”. E poi altre infelicità, altri lutti. L'autrice si svela con molto pudore e, non conoscendola, è difficile capire quanto di autobiografico ci sia in questa silloge: il poeta è uno scrittore come un altro e spesso inventa, altrimenti non avremmo avuto la “Divina Commedia” o l'”Orlando furioso”. Comunque la storia che ne esce è di una donna coraggiosa che non si piange addosso malgrado le difficoltà. Sarà il lettore a squarciare, secondo il proprio sentire, gli eventuali veli frapposti fra lui e la poetessa.
Tessuto
prosodico di estrema melodiosità nei primi componimenti che si stempera in
accenti talora più aspri negli ultimi quasi a sottolineare una diversa
condizione di vita.
Carla Baroni
Il mio perdono
Dovrei odiarti e chiudere la
porta,
dimenticarti senza alcun
rimpianto,
eppure sei mio padre, della
mia ferita
l’unguento e l’olio profumato
che lenisce.
Ti stringo a me, così come sei
ora
un mucchietto di ossa,
un essere indifeso ed innocente
con un sorriso che non sa più
niente
che non ricorda il male che ci
ha fatto.
Ora tendi la mano ed io la
stringo
e ti copro di baci.
Il mio perdono è tutto in questo abbraccio
in questa stretta tenera che
annienta
il fiele velenoso del ricordo.
Milly lisci capelli di lino
Milly ha lisci capelli di lino
e guance di rosso corallo
danza sul palco di nuvole rosa
snella e flessuosa
come un giovane giunco.
Milly ride gioiosa e alla vita
apre le piccole mani giocose.
Vorrei riempirle di stelle,
di vaporose nuvole e corolle.
Io me la stringo al cuore,
vorrei trattenerla nell’abbraccio,
ma lei sa liberarsi
prontamente
in un leggiadro volo di
farfalla.
Se la scopro col libro tra le
mani
assorta in piacevole lettura,
cerco una nota che mi
rassomigli
e possa in lei far vivere
emozioni
che la mia stessa vita hanno
nutrito.
Nella mia piccina mi trasfondo
e intreccio fili sottili di
speranze
con un pallido sogno
inesaudito.
Io
sono Davide
Vorrei
correre sui prati a primavera,
tuffarmi nell’azzurro, pettinarmi
i
capelli e carezzarti il viso,
esplorare
il mio corpo quando voglio,
formare
un numero con svelte dita
sopra
il cellulare per parlare con te,
dedicarti
una musica soave
con le note struggenti di un violino.
Vorrei … ma altri mi vestono,
altri
mi portano dove io non so.
Ho
desidèri dentro me sopiti,
nascosti
in un sorriso
che
di me non sa dire.
Le
mie mani disegnano nell’ aria
sottili ragnatele di parole,
le
mie gambe sono ruote d’acciaio …
Ma
ho grandi ali d’albatro in volo
e
canto gridi d’amore lassù
dove
l’aria sostiene i pensieri,
i sogni e il peso leggero del cuore
che
salta, che corre, che danza … io posso volare.
Fino alla fine
Ti somigliava tanto quel
ritratto
che conservo, prezioso come
una reliquia.
Affacciata al balcone in mezzo
ai fiori
palpitanti in un respiro
d’anima
col tuo sorriso amaro che
celava
una segreta pena, mentre
salivi al Golgota, senza il
Cireneo,
sulla via dolorosa.
Io la subivo come una
condanna,
ribelle ai legami troppo
stretti,
quella tua malattia senza
speranza
e non capivo, perché i miei
vent’anni
avevano orizzonti troppo vasti
e sogni da svezzare. Le tue
grida
laceravano l’aria, un vaso di
creta
le tue ossa, ma io mi sentivo
crocifissa
nell’egoismo smisurato della
giovinezza.
Sulle pareti bianche vedevi
arrampicarsi
scarafaggi, quando tra sonno e
veglia
mi chiamavi a scacciarli.
Fuori il giardino
d’erba secca attendeva la
pioggia riposante,
io la tua morte, lenta ad
arrivare.
Poi fu lo scroscio e il vento
di uragano
a liberarci insieme. Tu
disfatta
nel letto del dolore, io
inquieta
ed ignara che la vita ci
trascina
in un vortice perverso,
di dolore in dolore, di notte
in notte,
di segreto in segreto, così,
fino alla fine.
Era tutta di pietra
Era tutta di pietra la casa
che si incontrava entrando in
paese,
dall’angusta finestra donava
scampoli azzurri di cielo.
Lassù giocavo a fare la mamma
con bambole di rosea
porcellana
così un poco scordavo l’ombra
densa
che incupiva i miei giorni e
nella notte
soffocava il respiro al mio
domani.
Passava la mia infanzia
dolorosa,
sgranata coi misteri del
rosario.
Mia madre viveva prigioniera
di inganni e solitudini
segrete.
A tavola un silenzio greve
toglieva sapore al nostro
pasto.
Quando trovavo il coraggio di
levare
il mio sguardo ignaro di
bambina,
vedevo il suo, fisso su quel
dolore,
di cui non capivo l’agonia.
Se le sue mani erano avare
di carezze, mi sentivo
colpevole
e amarezza ed una stretta al
cuore
erano mie compagne quotidiane.
Il male oscuro me la portò via
nei giorni piovosi dell’autunno.
Presto tutto fu chiaro, quando la donna
dai freddi occhi verdi
varcò la soglia della casa
vuota
e fu uno schianto qui dentro
al mio petto.
Muto dolore serra la mia gola
quando mi torna in mente.
La gioia dell’infanzia, mio diritto,
mi fu negata senza alcun
ritorno.
Te ne sei andato all’imbrunire (a mio padre)
Te ne sei andato all’imbrunire
quando il sole spariva tra i coppi
intrisi di rosso magenta
e si piegavano in macabra
danza
i pioppi
alla cieca furia del torrente.
Il tuo tramonto e il mio,
intrecciate le mani
nell’ultima stretta
dell’addio.
E questo peso qui sopra il mio
cuore
ha l’amaro rimpianto di
parole,
di rancori sopiti, di ferite dal tempo mai sanate,
di un disperato bisogno
d’amore. Ricordi?
Dietro la piccola casa il
vecchio castagno
apriva le braccia nel pallore
delle notti di luna
e io tessevo i miei poveri
sogni
indossando impalpabili veli da
sposa.
Il dolore del distacco anche
allora
soffocava il respiro alla speranza.
Oggi ho ascoltato per te la
romanza
che amavi e vibrano le note
d’infinito.
Ma quale melodia ascolti ora
nell’eterna armonia del
firmamento?
Il vuoto dell’assenza sento
dentro,
so che non potrà nessuno consolarla.
Ora mi porto sulle spalle il
peso
Odioso
amato paese ti ricordo
nel
rigore di inverni adamantini.
Mucchi
di neve fino alla finestra
mia
madre ci chiamava e noi,
incuranti
del gelo, giocavamo
nel
candore innocente dell’infanzia
ignare
del dolore
che
ci avrebbe ghermito di lì a poco.
Le
dita del tempo arpeggiano
memorie
in dissolvenza …
Dove
sei ora, sorella amata,
strappata
a me nei giorni del silenzio.
Ora
mi porto sulle spalle il peso dei ricordi
e
non so più dove finisce il sogno,
dove
comincia ciò che fu davvero.
Ci bastava una stretta ed un abbraccio
rubato
sulla soglia dell’inferno.
Dimentica
di tutto te ne andasti
la
notte del perdono
come
pendolo inerte oscillavi
sospesa
tra terra ed infinito.
Ricordando un paese di Maremma
Il mio paese stava arrampicato
sulla verde collina del vento
che arruffava giocoso
le chiome rigogliose dei
castagni.
Lassù si apriva allo sguardo
trasognato
la terra selvaggia di Maremma
e nei giorni di quiete si
stendeva
sereno e sonnolento
lo specchio del mare
adamantino
con le spiagge assolate a Bocca
d’Arno,
là dove navigava il mio poeta
intrecciando versi d’amore
alla sua Musa.
Ammiravo l’azzurra distesa,
assorta e sola,
dal minuscolo camposanto del
paese,
seduta in mezzo ai fiori delle
tombe.
Le case tutte uguali, vestite
di marrone
addossate l’una all’altra in
processione
salivano alla chiesa dal
campanile mozzo.
La campana l’aveva liquefatta in una notte
maledetta un fulmine blasfemo ed assassino.
Il mio paese, terra di
malinconia
dove crescevo inquieta e inappagata
spettatrice ignara e disarmata
della nostra tragedia
familiare.
Eppure oggi la rimpiango
ancora
quella terra da cui qua e là
spuntava
un pennacchio di fumo
impertinente
e odor di zolfo soffocava il
respiro.
Oggi che tutti se ne sono
andati,
oggi che il tempo ha tessuto
la sua tela,
posso solo percorrere a
ritroso
la mia vita che va verso il
tramonto.
Là, nei suoi impenetrabili
silenzi,
mi cresceva in seno voglia di vita e d’alba chiara.
Saltando
lungo i fossi
Saltando lungo i fossi si
arrivava
alla peschiera bruna. Il cielo
capovolto
si specchiava maestoso in
superficie.
Zampillava tra i sassi la
fonte chiara.
La culla delle nostre
tenerezze
era celata all’ombra del
castagno
odoroso di foglie fresche e
muschio
che nel suo ventre cavo
ospitava il nido della
cinciallegra
e i rami si piegavano complici
a nascondere i segreti
innocenti
del primo, giovane amore.
Ci carezzavano sussurri di
vento.
Su di noi, inebriati dalla fragranza
dei ciclamini in fiore,
perduti
nell’abbraccio tenero di un
sogno,
fili di speranza danzavano
intrecciando impalpabili veli
e sottili trine di illusioni.
E
se la gioia non ha più grandi ali
Un
velo opaco è sceso sul mio sguardo
e
scrosci d’acqua sento negli orecchi
solchi
profondi intorno agli occhi muti
ossa
crocchianti come foglie secche.
Con
fatica raccolgo i miei pensieri
e
se la gioia non ha più grandi ali,
non
spicca il volo verso cieli immensi,
misurata
e parca mi incammino
a
passo lento trattenendo il fiato,
so immergermi in mari di dolcezza
e
godere dell’attimo ormai spento.
All’orizzonte morbide colline
All’orizzonte morbide colline
che digradano in verdi
riposanti
e racchiudono il letto del
torrente
ora impetuoso e rude,
ora riarso e sonnolento.
File di pioppi tendevano le braccia
cangianti verso un cielo
azzurro
di promesse. Nel suo fluire
argenteo
e trasparente, scendevo
camminando
in bilico sui sassi scivolosi,
contro la corrente. Tra le sue
pietre
ho voluto i miei figli, dalla
spirito
che aleggiava sulle acque li
ho impetrati.
Nella spiaggetta dai ciottoli
bianchi, giocavano
con un barattolo di latta,
pescando avannotti
trasparenti e panciuti girini
mentre la vita scorreva serena
come l’acqua sul greto del
torrente.
Nel suo perenne viaggio il fiume
mi ha raccolto e nel grembo
accogliente
ha scandito tutta la mia vita.
Maria Adelaide Petrillo
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