Insolita pioggia
Mutò colore il cielo all’improvviso,
misterioso improvviso temporale,
vermiglio come al tramonto divenendo.
Sottili pungenti e rosa
d’una pioggerellina le prime gocce.
Subito violento
un acquazzone rosso sangue.
E purpurea l’acqua dilagava,
ogni cosa ricoprendo,
laghi e fiumi invadendo,
(…)
“Mi siglo como un rio/ de aguas gris”
recita Federico García Lorca in una nota poesia del suo repertorio, citazione
che non necessita di traduzione essendo di per sé chiara ed esaustiva. Se
quello in cui il poeta granadino visse fu un secolo “sporco” (così,
semplicisticamente, possiamo ridurre l’estratto assai evocativo), figura di un’età
di crudezza e difficoltà attorno alla
quale accaddero i peggiori drammi della storia (le due guerre mondiali, il
dominio dei totalitarismi ma anche, a lui ben più vicina, la guerra civile
spagnola), il secolo nel quale noi, oggi, siamo chiamati a vivere non è che
abbia/stia conoscendo una fase di limpiatura,
per mantenere il paradigma linguistico spagnolo. Ci troviamo, difatti, in un
momento cruciale dell’esistenza in cui, senza retoricismi, va detto che la
crisi dei valori è diventata imperante, figlia di un progressismo forzato che,
se all’inizio ha portato (felicemente) a casi di emancipazione e di effettivo
miglioramento, a lungo andare e nella massificazione del processo ha svelato i
suoi lati più ambigui e farraginosi, problematici e forieri di sperequazioni
sempre più ampie.
Il
nuovo lavoro poetico di Ester Cecere, dal titolo significativo che chiama a una
sana riflessione, si inserisce in questo ambito interstiziale che è il presente
livido e rancoroso dell’oggi. Difficile impiegare i termini della “liquidità”
del presente storico – sebbene la frenesia e l’ammutolimento generale
rappresentino koiné linguistiche e attuative ormai in sé codificate assurte a
peculiarità proprie della quotidianità - ; il presente è trasposto maggiormente
per mezzo di episodi che ne marcano dolorosamente il suo scorrimento, pur
veloce, amplificando la cordigliera d’instabilità tipica dell’umano tra
sicurezza e pericolo, tra coscienza e delirio e, ancora, tra rispetto e
auto-annullamento.
Il
poeta d’oggi – come ricordava anche Mario Luzi in una delle tante interviste - non
può esimersi dall’interessarsi di ciò che accade fuori da lui, attorno a sé
stesso, vale a dire nell’ambiente nel quale è collocato. Ambiente che non è
solo la sua via, il suo quartiere e la sua città, ma che lo interessa anche e
soprattutto in termini e su una scala più ampia: locale e regionale, nazionale
e internazionale. Vale a dire che al poeta d’oggi non è consentito di curare
con meticolosità solo il proprio orticello facendo finta che, al di là
dell’illusoria staccionata, non esistano altri campi. Diversi per coltura,
dimensioni, struttura e tipologia d’humus. Ecco allora che l’atto poetico, pur
rimanendo legato a una profonda autoanalisi della coscienza tale da avere una funzione
introiettiva e psicologica, è chiamato a ergersi custode (e non giudice) del
mondo civile. Le poesie di Ester Cecere – come è tutta la poesia che può a buon
diritto definirsi “civile” – hanno i caratteri fondativi di questo canto di
disprezzo dinanzi alle aberrazioni, i suoi versi si fanno lapidari e taglienti
a trasmettere un mondo piombato in una rovinosa caduta dove frequentemente il
silenzio di chi è compartecipe alle vicende è ulteriormente lesivo della
dignità e di quel senso di civiltà e mutuo sostegno che ci si aspetterebbe in
una società civilizzata.
La
poesia della Nostra è civile perché ha a cuore il normale svolgimento dei
meccanismi funzionali della società e perché si oppone in maniera retta e
sentita ai disordini e alle brutalità condotte dall’uomo. La denuncia, pur pacata perché il verso è
sempre sostenuto da un linguaggio in qualche modo attenuativo che elude un
temperamento ribellistico, è localizzabile nell’esigenza stessa della poetessa
di esprimersi. Poesie che tracciano sentimenti complicati e tumultuosi, animati
da una desolazione interiore che si fa ora rammarico ora sdegno invalicabile
finanche raggiungere la condanna verso la violenza e l’insensibilità e la denuncia di riprovazione verso sciagure
che potrebbero evitarsi o essere limitate.
Il
dramma del naufragio, l’inabissamento dei barconi, lo sprofondamento dei corpi,
l’esodo di civili da paesi in guerra con la speranza di un futuro migliore e
poi l’acqua infingarda che, da unico mezzo di comunicazione praticabile, si fa
torva e non dà tregua, inghiottendo vite alla spicciolata. Bambini, come il
dolorosamente noto Aylan, che si spiaggiano e divengono i nuovi martiri di una
guerra non proclamata che si combatte ora dopo ora. Ma si può vincere contro il
mare? Nella sua imperscrutabilità e impossibilità di dominio, Ester Cecere
descrive scene di aberrazioni che conducono a lutti indescrivibili, famiglie
che di colpo si distruggono, morti che scompaiono e che il mare mai più
riconsegnerà. Lo scenario è lugubre e spiazzante, lo percepiamo dalle cronache
che ci avvisano dei barconi che non di rado fanno una tragica fine. Il
messaggio della poetessa non è solo quello lucidamente espresso di un feroce
biasimo verso ciò che accade, ma scuote le coscienze permettendo al lettore di
immedesimarsi in quelle derelitte anime, di figurarsi la situazione e, al
contempo, chiama a una riflessione sull’endemico fenomeno migratorio. Non sta
alla poesia (forse) rintracciare colpe o responsabilità né di additare, né
tanto meno prendere posizione in merito a una situazione ingestibile che a
lungo andare avrà significativo peso e incidenza sulla vita sociale del paese
tutto e infatti Ester Cecere si cala, con un animo particolarmente suscettibile
che ne percepiamo il moto sofferente, in contesti che sono nostri e di tutti,
più di quanto siamo soliti credere.
Non
bastano fiori per celebrare la dipartita dolorosa di chi non ha chiesto nulla
alla società se non di non morire inascoltato. Sclerotici summit internazionali
nei quali ci si impegna a varare decisioni per il bene collettivo finendo per
essere meri incontri da jet-set che non hanno nulla di concreto se non porre
l’ordine del giorno come tema nelle forbite discussioni, che tali restano. Il
sommovimento e l’inquietudine dell’animo che si sperimentano dinanzi alle
abiezioni più cieche non sono meri ingredienti di pathos in chiave letteraria
(dunque, funzionale e narrante) per rimarcare mancanza di responsabilità e di
adozione di misure efficaci ma emblemi di un tormento insaziabile che nella
Nostra ha la forma di uno tracciato dell’anima di una persona sensibile e
attenta, premurosa e addolorata dalle spire di lutto e di stordimento. Ester
Cecere, rimanendo legata a una poetica elegante e dal piglio incalzante che
fomenta isotopie che si realizzano tra immagini frammiste tra proiezioni e
specchiature, ci consegna una silloge poetica che è molto di più di ciò che
appare: un libro che invita a riflettere, a riscoprirci con rilassatezza parte
di un tutto nel quale nessuno ha un ruolo egemone (“I poeti sono gente antimonarchica” diceva Izet Sarajlić). Le sue
poesie, pur se dipartono da fatti amari e indimenticabili, hanno il potere di
gettare luce in quei meandri della coscienza dove albergano tormento e
recrudescenza, dove la vita, cioè, ha compiuto un percorso a ritroso. Di questa
metamorfosi sottrattiva rimangono le diapositive più urlate e invereconde di un
presente che vive sonnolento e torna a rombare, a intermittenza, con le
sciagure più varie, repliche stantie e vetuste di un passato prossimo che
sembra non passare, intervallando un futuro fosco ed enigmatico che incalza;
esso – vago e inquieto - fa capolino volendosi affermare, ma ogni volta è
urtato e pestato dall’ubiquità di un Male che ci rende schiavi, eppure
spettatori.
“Sì, non c’è strada che porti all’usignolo/
che sull’alba dolcemente canta” scrisse uno dei maggiori poeti civili della
letteratura straniera, Evgenij Evthushenko nella celebre “La stazione di Zimà”.
È possibile intuire l’usignolo o provare a percepirlo ma il rumore indistinto
dell’oggi, nel quale convive un indegno mutismo sociale, abbuia il lastricato
dei percorsi possibili da intraprendere. La poetessa ci introduce, con questa
sua opera che fende e tortura, sviscera e raggruma coscienza, alla persuasione
che il bene ancora esiste e che non è troppo lontano dall’uomo. Eppure, c’è
tanto da faticare per portarlo alla luce.
Lorenzo
Spurio
Jesi,
04-07-2017
Ti ringrazio, carissimo Nazario, per averla voluta pubblicare. Un caro abbraccio, Lorenzo Spurio
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