RIFLESSIONI SULLA POESIA
NEL XXI SECOLO
1 - La poesia nel vecchio
secolo (xx)
Marco dei Ferrari, collaboratore di Lèucade |
La poesia è nata per stupire,
testimoniare, sfidare come canto, racconto, preghiera, invocazione, esorcismo,
divertimento, ringraziamento, gioco...
In
quanto espressione d’interiorità e di antropologie individuali e universali,
irripetibili nella società contemporanea con la massificazione privilegiata (v.
Edgar Morin, Barthes, Mukarowsky), essa si pone come
strumento di verità per interpretare il noi e la nostra vita nel suo divenire.
L’esplorazione intuitiva dell’ego, nella storia della progressione creativa
(dalla musicalità al ritmo e rumore) ha ampliato e trasformato
continuamente (pur con assestamenti e riflussi periodici) i confini del senso
combinato delle parole. Il tentativo è stato quello di connettere parole e
cose, linguaggio profondo e comune (nel concreto quotidiano), realtà e
fantasia, dimensione personale e collettiva, metamorfosi e tradizione,
convivenza di stili e canoni che le ultime tendenze del Novecento hanno sempre
più evidenziato. (Fenomenologia della percezione e dell’inconscio - scoperta
del microcosmo – forza del pensiero sensoriale - spessore del corpo - poesia
visiva e calligrammatica - giostra delle metafore -convivenza del sogno surrealista
- associazioni della memoria profonda - “invenzioni” dell’immaginario). Queste
in sintesi le sfide di ieri.
2 - La nuova “realtà” e la
fine dell’autonomia del poeta
Il
nuovo secolo (XXI) pone la poesia innanzi a un nemico mortale che prescinde e
supera tutte le precedenti sfide e problematiche esistenziali affrontate dai
poeti: la tecnologia e il linguaggio telematico sempre più aggressivo,
invadente e liquidatorio che assembla tutte le altre diversità linguistiche in
un modello di “totalitarismo comunicante” assoluto e anonimo, diffuso e
facilitato tra smarrimenti esistenziali e vuoti collettivo-individuali. Infatti
nell’attuale processo informatico della “digitalizzazione” senza limiti
(iper-tecne) il cui unico scopo è quello di trasformare qualsiasi tipo di segno
o messaggio in un codice numerico impersonale e autoreferenziale, l’“umano
poetico” è confinato alla gestualità iterativa, codificata e regimentata senza
concessioni ad altre dimensionalità espressive.
Lo
scenario della preesistente realtà logico-creativa, assorbito nel nuovo
“Titano” della tecnica, quindi, si snatura divenendo esclusivo sviluppo
d’analisi, centro relazionale oggettivo, referente strumentale e numerico per
esperienze deterministico-matematiche. Il problema se la parola debba interpretare
o “catturare” l'oggettività del reale (sia essa fantasia, rappresentazione,
metafora o immagine ermetica dell’esistente), in questo nuovo contesto si
dissolve inesorabilmente per non più porsi.
La
critica alla banalità del linguaggio poetico e al linguaggio in sé compendiata,
negli ultimi decenni del Novecento, in una “destrutturazione” del circuito
grammaticale-sintattico (come per Zanzotto)
e nel tentativo di indebolire le basi stesse della logica linguistica (tipica
delle tendenze postmoderne e neoavanguardie - Sanguineti-; dello strutturalismo-Bataille; del surrealismo marxista, della sociologia goldmanniana,
ecc.) con la riduzione e la frammentazione dell’io, con l’esaltazione della
casualità e del marginalismo, è ora annullata e liquidata dall’“occupazione”
della nomenclatura telematica e costretta ad un rifugio di riflusso
intimistico-lirico in un passato apparentemente senza tempo, fluida sintesi
di immaterialismo emozionale (v. Cucchi
- Watkins – Ritsos - Kavafis).
La
“tecnica informatica” trasforma, dunque, nel razionalismo analitico della prosa
scientifica ogni altra modalità di espressione linguistica. La fine
dell’autonomia poetica si relega sempre più in una regressione di disimpegno
interiore avulsa dalla nuova “realtà” e privata d’ogni ricupero alternativo
(anche se, solo in apparenza, con un qualche significato lirico-esistenziale)
in un “ambito-test” generalizzato “circolante sulle Reti”, uniche
referenti a una visibilità del reale privata di slanci e furori, ovvero di
quelle “scintille” di spiritualità che, uniche, potrebbero interpretare
il nostro “vivente” (v. Adonis).
Memoria
del corpo, delle cose e dell’immagine si sfuocano ora in linguaggi
neologistici, televisivi, pubblicitari, lapidari e crudi, unisemici ma
collettivamente rivolti al degrado urbano dell’emarginazione periferica, delle
solitudini, dei quartieri-ingorgo, della “cronaca” efferata, dell’immigrazione
invasiva e difficile, in una sorta di “segnalità” e “pensate prosate” sempre
più incompatibili con i tradizionali itinerari dell’io poetante.
La
poesia (se vogliamo ritenerla un atto di “critica sull'esistenza) così
decapitata e snaturata, diviene gergale, “dialetto del diverso”, ovvero
“collettivo elitistico” di minoranze scritte. Nata dal “silenzio” primordiale e
oscuro nell’incanto magico di arabi e persiani, indiani, cinesi e giapponesi ed
evolutasi nella ritmicità fonica degli schemi, tende nell'ultimo scorcio del XX
secolo sempre più alla “mimesi” emozionale, trasformata in responsabilità
conoscitiva filosofico-religiosa, tra il sacro-profano e il mistero del nulla!
I
grandi poeti civili del Novecento come Neruda
– Tagore – Ritsos -Ginsberg tacciono ormai da tempo; ancora più lontani
(nell'Ottocento) sono le estasi, le memorie, le ribellioni, i rimpianti da Foscolo a Shelley, da Leopardi a Boudelaire a Rimbaud e Mallarmè… L'intimismo auto-riflessivo
approda poi al rifiuto nichilistico dell'essere poetico e si affida al nuovo
“potere” del Web...
3 - La parola nuova
Come
superare questo quadro sconfortante e riduttivo della spiritualità creativa?
Necessario per la “comunicazione artistica” è difendersi, sia dall’invasione
del linguaggio tecnologico, sia dalla estromissione e dal degrado dell’io
poetico inteso come “spettacolo rivitalizzante”, equilibrismo distratto di
emozioni, liriche contemplazioni,
sensazioni e riflessioni superate dalla Tecnica e dal progresso della Scienza
reificato nel metodo.
Pur
nella varietà delle “interpretazioni-scuola” ancora circolanti e adattate alla
personalità dei singoli protagonisti (vedi neorfismo, neointimismo,
comportamentismo, ecc.), l’orizzonte poetico odierno è condannato (per
sopravvivere) alla monotonia tematica, all’isolamento, all’ispirazione classica
di un “conservatorismo lirico” che in
sostanza si limita ad utilizzare i significati tradizionali delle parole per
tentare di partecipare ad una “realtà nuova” che “poeticamente” ancora non
esiste, ma già si frantuma nella quotidianità di esseri e cose disposti
strumentalmente e numericamente a costituire le “Reti” del messaggio
telematico, pubblicitario, asettico e totalmente predeterminato in ogni pratica
angolazione.
“Esseri
e cose”, “personale” e “sociale”, sentimenti, fantasie, sogni, dimensioni
interiori nel “nuovo reale” d’oggi
significano esclusivamente situazioni in Rete, che utilizzano il fattore
umano (quindi la progettualità e creatività dell’essere), per gestire “eventi”
pre-esistenti in sé e “prodotti” soggetti alle leggi del gusto, della moda e
del mercato, quindi non suscettibili di alcun contenuto liberamente autonomo.
Un esempio recente ed emblematico è dato dagli spot-TV come quello della
vendita del “passato di pomodoro” richiamato dai versi di Neruda...
Il
degrado dell’uomo a strumento della tecnica consente che la nuova “realtà”,
priva d’interiorità, s’insinui nella metamorfosi poetica (teorizzata già da Montale); “la vecchia logica
linguistica”, pertanto, non potrebbe fare il miracolo, e tutte le correnti
poetiche del Novecento non potrebbero applicarsi nella ricerca di un “nuovo”
comunque già socialmente totalizzato e rigidamente codificato e controllato.
Conseguentemente
“Regina” della pagina e della trasmissione di qualsiasi topos, è la parola
cifrata-cliccata che perde la sua connotazione estroflessa di indirizzare il
flusso del senso interiore dell’essere per trasformarsi in mero coacervo di
“tecniche vocabole” amorfe senza riferimenti a creatività e impulsi innati.
La
“parola nuova”, si identifica e realizza dunque nel visivo tecnologico,
senza creare, né scegliere, bensì “funzionalmente” registrando, enucleando e
classificando, (orfana di immaginari soggettivi o alternativi) tutte le opzioni
esistenziali già “selezionate” senza libertà di ricerca interiore ovvero senza
“poesia” (così come intesa nel secolo XX, cioè fonte spirituale di recupero
della propria identità nella ricchissima diversità dell’indagarsi curioso,
avventuroso, profondo e disinteressato).
E'
la famosa irruzione della “tecnica” di SPENGLER che propone nuovi stili e
comportamenti sociali in conflitto con l'etica e con la tradizione metafisica.
Montale, in
proposito, rilevava la necessità di “anticorpi”: isolamento, silenzio, consumo
lento, autodifesa, navigazioni nascoste di forme letterarie e generi.
4 - La funzione capovolta. La
poetica numerica
Occorre
nel messaggio unificante globale (già teorizzato quarant’anni fa da Mc Luhan e ripreso negli anni ottanta
da Mejrowitz), capovolgere la
funzione della poetica: la poesia intesa, cioè, non più come interprete o
ricercatrice del “reale” (presente nel passato e assente nel presente), bensì
testimonianza di una “realtà virtuale” che
“diviene” e si permuta in una “Rete” comunicante di “codici”, motori di
ricerca, ologrammi, algoritmi... autoreferenziali, automatistici,
deterministici, onnipotenti, dotati di regole proprie elusive ed escluse dalla
normale “circolarità” dell’“umano” evolversi e involversi tra “assoluto” e
“contingente”.
In
questa “nuova globalità”, anche l’identità del “fatto” poetico, la fine della
centralità dell’io, l’“essere-con” di Nancy,
le riflessioni sulla mitografia della verità, il neo-sublime, l’elogio del
lirismo, ecc. non trovano più alcun significato di riferimento concreto.
La
razionalità, (sintesi dell’intelletto applicata alle cose), nella nuova
funzione-finzione elaborativa si identifica e si trasforma “cosa in sé”,
presenza virtuale, cosmo-tecnologia, mero “fatto - evento”
numerico e neutro, privo di una sovra-presenza interiore, in quanto l’uomo
stesso è alogìa, “numero fatto di cose”
e “codice” non più agente ordinante, bensì memoria azzerata di essere e
avere, concepire e subire per ogni forma di espressione scritta, disegnata,
musicata o teatralizzata che sia.
Il
linguaggio poetico e la poesia del nuovo secolo (interprete anche della
“individualità di massa”), nel complesso, dovranno conseguentemente esprimersi
come “indicatori” di tale situazione priva di referenti soggettivo-emozionali,
ma preminente sequenza di “numeri-evento” e circostanza di casualità
indiscriminate, coincidenza di “fatti” montati in immagini ambivalenti e
fungibili. L’esclusivo, vorticoso flusso del consumo e della mercificazione
stritola poi il comunicare letterario e si testimonia confinandolo nel
multimediale tecnologico “scorrendo” le cose e scoprendo nelle stesse allinei
di codici funzionali al consenso pubblicitario d’effetto superficiale e senza
passioni o emozioni creatrici o ispiratrici.
Sistemi
omnicomprensivi, elaborati in formati segnici, disumanizzati e privi di ogni
centralità dell’io poetico dunque concorrono a una interpretazione della nuova
realtà numerica e costituiscono un percorso obbligato ed
inevitabile per il nostro futuro delle
Arti.
Le
sperimentazioni di fine Novecento ci aiutano in questa convizione: straniamenti
con parole altrui, elementi composti di pluralità vocali (vedi De Angelis) o prospettiche (vedi De Signoribus), marginalismi affini di
figure sempre meno umane (vedi Neri), assenze sempre più marcate di
“riconoscimenti-altri”, prefigurano la fine del “centro” di riferimento e
l’abbandono totale di quanto espresso nelle “scuole” o teorie poetiche del Novecento.
Finita
l’autorità del “post-moderno”, avviata la comunicazione interculturale
globalizzata (con i “laboratori” della parola, le “avanguardie”, la poesia del
dissenso e della disperazione, i suoi “intarsi” di citazioni come es. in Enzensberger), si afferma la “virtualità”
digitale che annulla l’altro da Sé, chiude l’universo di discorso
alternativo e creativo, e omologa ed uniforma tutte le espressività
artistiche, offrendo il XXI secolo “poeticamente” quale “piattaforma vergine”
non categoriata, schema linguistico pensato per “tradursi” ovvero influenzato
dalla “traduzione” prevalente sugli originali. (Esempio: la “babele
linguistica” che assedia sempre più l’individualità del “creativo”, spalmandolo
sul “gruppo” di comunità con le conseguenti implicazioni tematiche, scritte e
parlate).
Non
rimane che la “ribellione nomadica” della parola come strumento
liberatorio e ultima rappresentazione del “soggetto-pensiero” che sprofonda
sempre più nel caos dello “sciame –individuo” globalizzato, con i suoi riti e
siti tecno-psico-spettacolari sull’ascoltatore- partecipe spettatore, con il
collasso e la fine o quasi della “critica” e con i “versi-prosa” separati dal
baricentro del sistema usualmente comunicante tra persone e cose.
La
“ribellione” quindi si delinea nel cantare e scrivere il “caos”,
interpretarne i parametri vitali appariscenti o marginali come “cantori da
strada” (v. Fedez – Jovanotti – molti cantautori...) o teorici-nomadi-eretici
dell’approccio letterario liberato o filosofi della parola o corsisti di lingue
e scritture creative o graffitari pubblicitari dell’espressione o murales di
poesia dipinta…
Altresì
la “ribellione” si significa medializzando la pluralità polisemica del digitale
a tentarne un primo difficile contenimento, scoordinandone i ritmi e
sconvolgendone il metodo e il rigore compressivi. Di qui i fenomeni più recenti
del “linguaggio” denudato, radicato fortemente nei fatti reali pur utilizzando
la tecno-struttura del web (es. social network, tra cui facebook -
twitter – you-tube – blog vari – ecc.).
“Tutto
il reale è una massa digitale individuale che fluttua”; tutto è un divenire
referente in una funzione poetica capovolta dall’avvento dei codici numerici
programmati semplicemente alla rimozione della parola stessa dai suoi significati
tradizionali, relegandola a servizio delle imprese, del marketing della
politica, dello spettacolo di cronaca ecc., frenandone e soffocandone la
creatività, privandola in ultimo della sua più importante ricchezza ovvero
dell’“insicurezza della curiosità” ispirata ad una libertà ebbra di
ricerca e sorpresa.
L’autodifesa
di Montale non sembra sufficiente:
l’uscita dalla tutela delle poetiche novecentesche fondate sul “monismo”
storicistico (data una certa coscienza della situazione storica dell’Arte, non
si poteva che dedurre un solo modo di “fare arte” in quel preciso ambito) e la
pratica di soluzioni pluralistiche derivate da tutte le altre forme d’Arte
(teatro - cinema - musica, ecc.) e di analisi (filosofia del linguaggio,
psicologia della comunicazione, scienza della comunicazione di massa, ecc.)
contribuiscono infatti ad alimentare sperimentalità non poetiche. Peraltro
taluni sostengono tali sperimentalità compresenti e compatibili comunque con la
“Rete” e le sue applicazioni in un modello di “nuovo reale” (immaginario e
virtualizzato) che si manifesta paradossalmente come “spiritualità
scientifica” suscettibile di verifica robotizzata in laboratori di ricerca
segnici, gestuali, espressivi e comunicanti
del “non essere” o dell’indeterminato
“micro” dell’essere. Ma “essere” quale? Quale “essere” poetico?
E' la fine della “poesia” come espressione auto-riflessiva di verità e
testimonianza della “condizione umana”, ovvero l'inizio di una nuova
sperimentazione (artistica) privata della libertà linguistica e della coscienza
soggettiva con la disgregazione di ogni immagine della “realtà” effettuale?
Il
sospetto è l’inizio di una incontenibile “rivoluzione” culturale e letteraria
di cui il XXI secolo sarà testimone e protagonista.
Volendo
poi richiamarci alla tesi del filosofo americano Richard Rorty che definisce la letteratura quale
“allargamento interiore” per una nuova capacità di comunicare, è necessario
assimilare e descrivere il “nuovo reale” (configurato tecnicamente nella
“Rete”) come unica “rappresentanza”
dell’esistenza umana e ultraumana, buona e cattiva (v. Flaubert), bella e laida (v. Sand), estatica (Petrarca), infinita
(Leopardi), catastrofica (Mallarmé), disumanizzata (Celan). Una “frontiera”
artificiale appare dunque tra
l’immaginario e l’argomentato e sembra ricucirsi solo adottando il sentimento/pensiero nella “traduzione” digitale
del comunicare e ponendosi, universalmente “missionaria” di lettura, verità,
critica, scambio gnoseologico di esperienze, idee e culture con il “nuovo”
sistema linguistico della “globalizzazione poetica” contemporanea.
Invero
dai canti delle origini (pigmei - boscimani - tuareg - irochesi - navjo - maja - egizi -
ebrei…) alla lirica occidentale (dagli Inni Omerici a Saffo; o Pindaro e Callimaco – Catullo – Ovidio -Rudel…) e alla lirica orientale
(Al - Mutanabbi - Gibran - Adonis –Abou
Said – Rumi – Hikmet – Milarepa – Tagore – Aurobindo – Wu-ti; Fu Suan – Wang-Po
– Basho – Buson -Issa…), le “fonti” spirituali sono individuabili e
accessibili nella “RETE”, onnipresente per condividere le “nuove” opportunità creative che potrebbero
costituire la nostra méta e il nostro destino artistico nel XXI secolo. Un
secolo in cui la tecnologia informatica potrebbe superarci e sfuggire al
controllo, dotandosi di circuiti che imitando la struttura neuronale del
cervello, “apprendano” sulla base della propria esperienza, sino a
“crearsi” (nella progressiva complessità) intelligenti “singolarità
tecnologiche” capaci di opposizione e sorprendente autonomia critico-operativa.
L’eclisse della liricità classica, la schiavitù del pensiero, il dominio
assoluto della “tecno” e dei media
elettronici, i conflitti socio-economici epocali crescenti, le risorse
terrestri in progressiva riduzione, lo strapotere della “comunicazione” indicizzata
dai mercati, la robotica “autonoma” e diabolica, faranno ogni
differenza e il futuro (o la fine…) delle Arti in tal senso sarà predeterminato
(condannato?) per sempre.
Peraltro
dalla poesia-espressione (XX secolo) della coscienza civile di un popolo e
dell'interiorità della personalità umana, con significati ben precisi (come per
Aragon, Ungaretti, Neruda, Pasolini, tra molti altri), alla tecno-comunicazione
nella contemporaneità, (con il rischio della estinzione finale della poesia) il
passo è tragicamente breve. La via per un futuro completamente subordinato al
dominio della razionalità-tecno sulla “creatività”, senza contenuti finalizzati
(fluttuanti in un caotico percorso di “mode” effimere e confuse), sembra
tracciata irreversibilmente.
Marco dei Ferrari
un ottimo intervento , che scava nei meandri della scrittura per ritrovare nei limiti della realtà attuale il filo conduttore della poesia. La rete è una necessità anche se difficilmente indagata dai più . I soliti addetti ai lavori a volte riescono e districare ottime pagine , ma i più , purtroppo, si perdono nella nullità e nei soliti clic del mi piace, senza avere il minimo bagaglio per la critica severa. La mia poesia , che spesso lancio anche in rete , cerca ancora di avere come pilastri di appoggio i sentimenti , la parola , la memoria , la musicalità , la passione la libertà emotiva , nella ricerca di un verbo ardito, polivalente , multiplo. Bene ! Spero che i giovani sappiano gestire la tensione che esiste tra il piano reale ed il piano dell'irrealtà per determinare il giusto equilibrio fra il dire e il sentire.
RispondiEliminaLa poesia è linguaggio (comune) innestato nella lingua (letteraria) o viceversa. Oggi siamo in un momento di valico offertoci dalla rete. Su questa rete si tesse. Si fa e si disfa à la Penelope in un diuturno tentativo di ricerca linguistica. E la rete rappresenta un laboratorio ad alta densità. Forse più quantitativa che qualitativa. Ma questo lo dirà il futuro. Al presente un dato di fatto. C'è chi sceglie il post virtuale rispetto al foglio di carta su libro. A quale scopo? In primis quello di raggiungere immediatamente più lettori.
RispondiEliminaLa poesia è già nata agli albori della storia. Adesso continua a vivere crescendo. Non può certo morire. Cambiare certo che sì
Maurizio Soldini
Vorrei fare alcune considerazioni piuttosto banali e alla portata di tutti sull'articolo in oggetto.
RispondiEliminaTutte le arti, non solo la poesia, tendono a rinnovarsi, a fare quel qualcosa di nuovo che le caratterizzi diversamente e che sveli l'impronta inconfondibile di un autore leader nel campo. Ma mentre un tempo chi innovava aveva basi solide nell'arte pregressa, oggi questo non avviene più: ci si improvvisa pittori, poeti, scrittori. Prendiamo ad esempio Picasso: sapeva dipingere davvero come ce lo confermano il “periodo rosa” e il “periodo blu”. Se poi, strapagato, si è divertito a prendere in giro la gente con quei suoi pentolini disegnati a guisa di un bimbo, peggio per chi glieli ha comprati.
In questa situazione chi ne soffre di più è proprio la poesia perché la più facile da realizzare. Sulla scia delle avanguardie, sulla confusione tra versi liberi e non, molti si cimentano in quest'arte senza neanche avere letto qualche testo di uno scrittore importante e senza sapere come si recita un brano: si va a capo ogni tanto anche dopo la congiunzione e si scrive qualsiasi pensierino, magari sulla coda fatta alla cassa del supermercato. Così tutti sono poeti. La cosa peggiore è, che non si sa per quale scherzo del destino – ma dappertutto esiste il “do ut des”- alcuni sono osannati, imitati e a loro volta diventano critici - che giudicano naturalmente secondo i propri parametri - portando al degrado del genere. Il tempo ci dirà quanti di questi rimarranno e quanti furono soltanto fuochi fatui.
Per fare un esempio concreto i versi di Mario Luzi furono all'inizio - per ammissione dello stesso poeta – stroncati dalla critica portandolo a percorrere strade diverse, ma sono quelli de “La barca” a essere ancora maggiormente tradotti in altre lingue.
Le lauree facili, poi, fanno sì che molti professori di lettere non sappiano niente di poesia e perciò non la insegnino affatto. E quindi i ragazzi si rifanno a Fedez e agli altri rapper che recitano delle specie di filastrocche con la rima: un modo un po' primitivo di avvicinarsi ai poeti ma è già qualcosa.
E dunque evviva se i versi di Neruda servono a fare la pubblicità al passato di pomodoro: sempre meglio dello spot sul gelato in cui non ricordo cosa è “più infinita”.
Il pericolo della tecnica? È un altro forse molto più sottile e insidioso: partendo da testi di autori importanti e validi qualche robot li mischierà con perizia dandoci la nuova poesia informatica. E allora addio Calliope: sarai sepolta per sempre!
Carla Baroni
Non dobbiamo meravigliarci se i tempi cambiano!
RispondiEliminaOggi la globalizzazione è avvenuta anche nella parola poetica che ha cominciato il suo nuovo cammino.
I semi sono stati gettati sul difficile terreno socio-culturale di questo nuovo terzo millennio ed è prematura una premonizione sul nuovo e diverso genere poetico che
ne scaturira'.
Come quando Dante Alighieri usava il volgare al posto del latino e creava disorientamento nella società della sua epoca,oggi la parola nata dalle nuove tecnologie ci disorienta ma non è così scontato che sia un male.
Potrebbe essere l'alba di un nuovo ed interessante modo di percepire il mondo attuale .
I Rapper non sono da sottovalutare, rappresentano le voci della gente comune e semplice che nei secoli scorsi si affidava ai cantastorie, voci sensibili e vere che vanno accolte ed ascoltate perché vicine ai giovani di oggi.
Voci che incoraggiano e danno il nuovo "spleen "ad una società odierna liquida ed incerta.
Allora ben vengano Fedez e le pubblicità e che il canto di queste nostre giovani vite che si schiudono come una rosa e pulsano come un cuore nuovo ed entusiasta elevino ogni canto che vogliano!
L'importante è che non si cessi mai di cantare sarebbe questa la morte vera della parola e noi poeti di ogni generazione amiamo la vita!
Già in altre occasioni ho parlato del linguaggio, questo anche fuori dal contesto poetico, tentando di rigirare la frittata. Cosa succederebbe se la poesia entrasse nel mondo ed intervenisse, o incidesse, nel parlato, nel linguaggio tecnico o nel “degrado” della lingua, nobilitandone le dinamiche? È successo qualche volta nel passato e potrebbe succedere ancora. Di fatto, la poesia può entrare nel parlato solo quando riassume, simboleggia, esprime qualcosa che va oltre il significato delle parole. E io credo che proprio questo debba fare la poesia: dire quello che non dice, andare oltre il significato dei termini. Octavio Paz diceva che la “parolaccia” è la poesia del popolo, di fatto il contenuto della parolaccia (o dell’insulto) è enorme, e ciò che può scatenare nell’uomo va oltre l’ordinaria follia.
RispondiEliminaIn un certo senso, anche se non intendo certo fare analogie tra poesia e parolaccia, la poesia ha il compito di far esplodere qualcosa dentro, di scuotere le coscienze, di fomentare dubbi e di accendere la miccia dei sentimenti, e lo fa attraverso un insieme suono-ritmo-silenzio.
Allora, potremmo dire che la poesia è un codice che trasmette significati che vanno oltre le parole? In alcuni casi è così: il potere della poesia è nell’evocazione, un simbolo, insomma. Ed è come l’irrazionale voglia di vivere che emana da un fiore che sboccia tra le crepe dell’asfalto.
Claudio Fiorentini
Continua
Certo, non è la regola, ma credo che oggi la poesia debba prendere questa strada aldilà della forma che la contiene. La poesia non è abbellimento, non è carezzevole, non è una coccola, semmai è la sveglia dello spirito guida, e di questo oggi c’è tanto bisogno.
RispondiEliminaVeniamo ora al contenitore, che abbiamo già detto essere più grande del contenuto. Prendo come esempio una sinfonia di Beethoven. Provate a tradurla in qualcosa che non sia una sinfonia di Beethoven. Non ci si riesce. La grandezza dell’artista sta nel trasmettere qualcosa che può essere trasmessa solo in quel modo. L’infinito di Leopardi può essere trasmesso solo con l’infinito di Leopardi. Non è possibile che il contenuto prescinda dal contenitore, proprio perché dice cose che in altri modi non si possono dire. Quindi è un codice di trasmissione, un po’ come lo sono le stringhe dei bit che passano da un computer all’altro: sono insignificanti impulsi elettronici che si traducono solo ed esclusivamente nella videata che esplode proprio ora sul vostro “display” (passatemi il termine).
Ora, per trasmettere l’infinito, o la quinta, o il Guernica non c’è altro modo oltre quello che li trasmette. Ma ditemi un po’, che tumulto, che splendore, che grandezza si accende in voi quando vi lasciate trasportare da queste opere.
Ma veniamo a quello che ci riguarda da vicino, il nostro amico linguaggio.
Claudio Fioentini
Certo, la lingua e il linguaggio sono due cose diverse: la lingua è lo strumento, il linguaggio è la sua più vasta applicazione perché è fatto di ritmo, di silenzi, di respiro, di gesti, di sequenzialità e di interruzioni, di cose raccolte per strada e, perché no, anche di parole d’uso che in poesia, di solito, noi tendiamo a scartare. Ma è inevitabile, il linguaggio evolve e cambia, è un insieme in costante movimento, è un organo evolutivo, così anche la lingua, sebbene rimanga lo strumento usato per costruire un linguaggio, almeno nel nostro caso.
RispondiEliminaHo sentito che nell’aggiornamento di qualche dizionario è stato tolto il termine “sudicio”, mentre di sicuro sono stati inseriti altri termini, magari provenienti dall’inglese, a loro volta provenienti dal latino. Eppure è così che funziona la lingua: evolve seguendo l’uso che se ne fa e si lascia impregnare di contaminazioni a volte sgradevoli. Ma se io dovessi parlare di, ad esempio, “flashmob”, quale termine italiano posso usare? E allora flashmob entrerà nei nostri dizionari e sarà una parola italiana derivante dall’inglese, un migrante o un clandestino che riesce a integrarsi. La lingua rimane il canone di riferimento, ma risente dell’evoluzione del mondo, dell’uso che se ne fa, delle semplificazioni… Diciamo “Week End” invece di fine settimana, o “Location” invece di luogo. Nel mondo informatizzato e connesso, i termini che una volta erano relegati alla riserva indiana dello spazio tecnico, inevitabilmente penetrano nel mondo e vediamo tante (a volte insopportabili) contaminazioni.
Io lavoro nel freddo mondo della tecnologia, il termine più brutto che mi è capitato di sentire è “wrappatura” (devo dire che per fortuna non è entrato nell’uso comune), ma ne sento di tutti i colori. Ricordo quando negli anni ottanta si cominciava a parlare di “formattazione” e di “rendering”… spesso mi sono battuto con i colleghi (e ancora mi batto) per mantenere, per quanto possibile, un certo decoro linguistico, ma l’uso comune è più veloce di me e anche i professori inevitabilmente si adeguano. Chi sa trovare una formula alternativa a, ad esempio, “formattazione dell’hard disk” è un campione. Oggi “Planning” è più facile di pianificazione e “refurbishing” è più usato di ricondizionare. “Utilizzare le app del cloud” è più comprensibile di “utilizzare le applicazioni della nube” e abbreviare i termini semplifica la vita, e alla fine, nel mondo informatizzato e connesso, col tempo sarà normale dire “xké” invece di perché… Ma aggiungo: ricordate quando negli anni sessanta si cominciò a dire UFO (unidentified flying objects)? In spagnolo si usava (e si usa) OVNI (objeto volador no identificado), non UFO. Perché? Idem per AIDS, che in spagnolo si chiama SIDA. E il computer? In spagnolo si chiama “ordenador” e in francese “ordinateur”… perché in italiano è stata scelta la parola inglese (che poi è latina) computer? Siamo i pigri eredi di Ferdinando Meniconi?
Ebbene, anche se fosse così, occorre capire che questo è forma, è lingua corrente, e quello che oggi è un abominevole strafalcione non è detto che lo sia domani. E noi dovremmo vederlo non come un imbastardimento, ma come un processo evolutivo che, con tutte le sue spinosità, rimane comunque una risorsa espressiva.
Insomma: noi dobbiamo essere consapevoli di come evolve il linguaggio riconoscendo le mode transitorie dall’uso comune che prima o poi sarà nei dizionari, e se opporsi alla bestia diventa controproducente, forse dovremmo adoperarci per conoscere la bestia e addomesticarla rendendola migliore.
Claudio Fiorentini
L'analisi dettagliata di Marco dei Ferrari sull'attuale stato della poesia ha stimolato in me diverse riflessioni sulla funzione della parola poetica. Diviso in paragrafi il testo sembra incentrarsi sostanzialmente su questo: "La nuova 'realtà' e la fine dell'autonomia del poeta (titolo del 2° paragrafo appunto).
RispondiEliminaMi sia concesso esprimere la mia opinione prendendo in prestito un estratto dell'intervista che Giuseppe Conte - poeta di un'altra e di ogni generazione (v. l'ottimo intervento di Sandra Lucarelli) - rilasciò al Corriere della Sera in tempi meno tecnologici e dunque meno sospetti (15/1/2003).
Egli disse: "...la poesia non muore mai del tutto. Se morisse la poesia allora si atrofizzerebbero mortalmente anche il linguaggio e il pensiero [...] Bisogna indicarli gli assassini della poesia: non sono certo il popolo, i ragazzi e le ragazze, i lavoratori...le persone comuni, ma sono tra i poeti e gli intellettuali stessi, almeno tra quelli che vivono di rendita su vecchie posizioni nichiliste [...] sono tra quei borghesi corrotti, cinici, conformisti, pigri...che rappresentano il ventre molle della classe dirigente...sono tra coloro che avvelenano la Madre Terra [...] Lei (la poesia) è di più, è universale. E quelli che la vogliono uccidere non ce la faranno".
Ritengo superfluo aggiungere altro, se non dire che tutto è nelle nostre mani - tecnologia compresa, però - per realizzare ed onorare sul serio il progetto più importante: quello della Vita.
Sandro Angelucci
Un’analisi completa e articolata sull’evoluzione della poesia e dei possibili sviluppi nel nuovo contesto caratterizzato dalla presenza stimolante e allo stesso tempo inquietante della rete. Forse la rete stessa può rappresentare l’opportunità di innovazione della poesia moderna che si è sviluppata in tutto il novecento. Non sarà solo un cambio di linguaggio, ma qualcosa di più profondo. Il superamento della dicotomia tra significato e significante alla base della tradizione poetica sarà senz’altro sovvertito. Il nuovo modo di comunicare avrà riflessi profondi sui contenuti. Se la sinestesia e lo straniamento sono stati i punti chiave della poesia moderna, forse dovremo cercare altri strumenti per esprimere questa nuova ulteriore modernità. E’ un nuovo percorso tutto da costruire, che comunque come è già avvenuto nel campo delle arti figurative, vedrà sempre più una forte integrazione tra le diverse forme espressive
RispondiEliminaQualche anno fa si accendevano discussioni sul presente e il futuro del libro: cartaceo o e.book? il Futuro sembrava senz'altro digitale.
RispondiEliminaIn certi ambienti oggi si difendono e si portano in auge composizioni classiche con rigide regole prosodiche e metriche...la rima o il verso libero?.. Spesso ai convegni e tavole rotonde si dibatte sull'annoso problema "che cosa è poesia"..Poi il Tempo che passa indifferente a tutto lascia la sua polvere e va... Quegli argomenti impallidiscono , ma l'uomo trova altri interessi e si pone altre domande. E' nella sua natura.
Scrittura on line? poesia tecnologia?..e così via, con tutte le argomentazioni esposte nel saggio di Marco dei Ferrari che, a prescindere dall'innegabile valore culturale, ha il merito di avere acceso l'interesse di molti eccellenti scrittori e critici e offerto occasione di profonde interessanti puntualizzazioni. L'esca è appetibile: la Poesia non ha futuro? La Poesia morirà soffocata dal tecnicismo e altro veleno del secolo xxi ?
La risposta mi sembra unanime: La Poesia non morirà in questo secolo, la Poesia non muore.
Sono pienamente d'accordo. Certamente la Poesia può cambiare. E' sempre accaduto. Perché come ogni forma d'arte la Poesia è un continuo fieri. Perché è lo spirito dell'uomo, la sua viscreativa, la sua variabilità che sempre si rinnova, senza farsi peraltro schiava di regole o mode. Ovvio, se si parla di Arte , non di verseggiamentto più o meno innovativo.
Beethoven..Giotto..Leonardo...Leopardi...sono geni incommensurabili, eppure l'Arte non si è fermata a loro, il tempo ci ha dato molte altre opere di valore. Diverse, sì, come lo è ciascun uomo dal suo simile.
La diversità è sempre stimolante, ma nel caso della Poesia l'importanza fondamentale resta l'espressione della interiorità.
Edda Conte.
Ho letto con attenzione queste “riflessioni” sul futuro della poesia e trovo meritorio che, nell'attuale magma informe, M.d.F. si faccia carico di individuare una tendenza, ancorché problematica, per il futuro.
RispondiEliminaAmmettiamolo. Non solo la poesia, ma le arti in genere sono in una crisi di identità, dalla quale non trovano via d'uscita: più di cinquanta anni fa Ennio Flaiano in 8 e ½ di Fellini, facendo parlare il personaggio dell'intellettuale, già affermava che la crisi delle arti è irreversibile e che l'unica cosa decente che può fare l'artista è...astenersi. Mah!
Ho detto “meritorio”, perché M.d.F. ha generosamente steso sul tavolo le questioni: probabilmente – e me lo auguro – la materia andrà prendendo la consistenza e il rigore scientifico di un saggio, dove le molte citazioni, già presenti, saranno corredate dal contenuto e dalla fonte, e dove ogni affermazione sarà sostenuta da adeguate argomentazioni. Solo a questo punto potrò dire di seguire M.d.F. o di obiettare. Per esempio, la minaccia qui intravista nel linguaggio dei sistemi informatici, al momento non riesco a percepirla, perché si tratta di un linguaggio gergale, utilizzato a fini utilitaristico-professionali da un ristretto gruppo di persone. Perché dovrebbe inquinare il linguaggio propriamente detto, che è già stato in contatto con un mare di gerghi (pensiamo ad esempio al giuridico, al rurale, al mercantile ecc.)? In fondo il linguaggio ha assunto nel tempo solo quel poco dei gerghi che poteva servire ad arricchire l'espressione.
Ma forse, al contrario, ha proprio ragione M.d.F. … insomma aspetto di leggere il saggio, del quale il nostro amico e critico ha indubbiamente già messo la prima pietra proprio con queste “riflessioni”.
Paolo Stefanini
Ho letto con vivo interesse gli autorevoli commenti a “RI-FLESSIONI SULLA POESIA NEL XXI SECOLO”. Anch’io vorrei esprimere ora una mia modesta riflessione.
RispondiEliminaNon affronterò la vastità di questo fenomeno; se è da ritenersi positivo per la cultura o piuttosto un segno della decadenza dell’arte e premonitore della sua morte.
Mi limiterò ad esprimere –restando in tema- le ragioni che mi hanno spinto e mi sospingono a scrivere, come avviene per tan-te altre persone comuni.
Innanzi tutto, in chi compone versi c’è una maggiore sensibili-tà, una predisposizione, accentuata dalle vicende della vita, a porsi gli eterni interrogativi che l’uomo si è trovato e si trova tuttavia davanti alla sua esistenza. La poesia è dunque ricerca e meditazione di un’anima che –nella gioia e nel dolore- è inca-pace di trattenere il suoi sentimenti: il bisogno di comunicare con un canto o un grido l’esaltante o la tragica esperienza della vita. E, accanto a questo, il segreto desiderio del cuore: soprav-vivere (in qualche modo) attraverso la poesia alla propria vi-cenda umana. Lo stile, la competizione, il successo, vengono dopo.
Paolo Bassani