Pagine

giovedì 26 ottobre 2017

PATRIZIA STEFANELLI: "DIALETTO: LA LINGUA MATERNA"

Dialetto: la lingua materna
Èccheme bella méje ca so menute,
i gran sospiri tuoi m’hanno chiamate.


Patrizia Stefanelli,
collaboratrice di Lèucade

Stare qui a Gaeta, la cittadina che mi ha cresciuta, ad ascoltare, non vista, le voci di dentro, le mie e quelle che mi giungono da una finestra aperta su via Indipendenza, non ha prezzo. Sono una ladra di suoni. Le voci sono di due donne anziane e alcune parole mi restano oscure. Il senso, però, quel gramelot che mette insieme onomatopee, ritmi e parole tronche, accende il giullare che è in me. Gesticolo al pubblico assente e comprendo dal non detto, dai silenzi, dalle risate. Faccio mia la mimica, il mondo unico dei personaggi, la loro favola. Sono le tre del pomeriggio di un’estate calda e afosa. Un gatto passa indifferente. Mi getta appena uno sguardo e se ne va. Mi tornano alla mente gli studi per la tesi universitaria sul teatro dei luoghi e le tradizioni. La voglia di approfondire la scrittura dialettale si fa necessità. L'oralità è ben diversa, i suoni hanno piccole ma incisive diversità nella scrittura. Via Indipendenza è un lungo budello di pietra lavica, si snoda da Montesecco a Calegna (quartieri) e attraversa il primo insediamento di pescatori e contadini risalente al XVIII secolo.  Nel suo lungo percorso ha vicoli a destra e a sinistra. I balconcini quasi si toccano e quelli con i vetri al sole rendono la luce a quelli in ombra. I bassi, locali al piano terra, sono abitazioni; un tempo erano stalle. Anche le stalle, fino a una quarantina d’anni fa, erano abitate. Il somaro stava sotto e sul mezzanino si dormiva. Non c’è che dire, al mattino, la sveglia, si sentiva di sicuro. Il dialetto gaetano ha differenti sfumature riscontrabili tra la “parlata” del Borgo (di cui fa parte la nostra via Indipendenza), ex comune di Elena fino al 1927, e Gaeta Sant'Erasmo (Gaeta vecchia), sede del Regno delle due Sicilie fino al 1861. Gaeta vive ancora tra storia e leggenda, tra mito e fantasia popolare. Diodoro Siculo la collegò agli Argonauti che da queste sponde passarono e al nome di Eeta, padre di Medea e re della Coclide. Strabone, invece, indicò il termine kaiétas (cavità) usato dai pescatori Laconi per indicare l'insenatura del suo golfo. Virgilio poi, ah Virgilio nell'Eneide, trova l'origine del nome in Caieta, la nutrice di Enea, sepolta dall'eroe su queste sponde. Nel libro VII 1-2 dice: "Tu quoque litoribus nostris Aeneia nutrix Aeternam moriens famam Cajeta dedisti". Dante Alighieri, dopo Ovidio, conferma tale avvenimento ne "La Divina Commedia" tramite il racconto di Ulisse: "Quando mi dipartì da Circe, che sottrasse me più d'un anno là presso Gaeta, prima che sì Enea la nomasse...". Cicerone la nomina in una lettera ad Attico: "Sono state sbarcate a Gaeta le statue che mi hai procurate". D’altronde egli, così come tanti consoli Romani, aveva in questi luoghi la sua dimora estiva e qui, tramite i sicari di Antonio trovò atroce morte. Che storia meravigliosa hanno i paesi! Una storia che nei secoli ha portato alla lingua del popolo, parola “intima” con cui capirsi al volo, segreta ai più, la quale rischia di perdersi e che è preziosa fonte delle nostre radici. Dal 1032, anno in cui tramonta il ducato dei Docibile, Gaeta subisce varie dominazioni: longobarda, sveva, angioina, aragonese e prima ancora, nel 500, era stata dominio di goti e bizantini. Dal 1504 al 1707 la dominazione spagnola fu davvero importante sia per il folclore sia per la lingua. Ahimè, agli spagnoli seguirono gli austriaci durante la guerra di successione spagnola e in seguito, nel 1734, i Borbone, ramo cadetto della dinastia dei Capetingi, di origine francese. E fu così che avemmo vocaboli come: Mammalucche (rimbambito – dall’arabo mamlùk, schiavo comprato), Mastranfone (capintesta, caposquadra da maste+ranfe, dal longobardo rampf, artiglio), Paposce (ernia scrotale, dal francese poche du papa), La buatte – barattolo dal francese boîte, Scuppètte (fucile, dallo spagnolo escopeta), Utriarese (adagiarsi, rotolarsi per terra, dal francese vautrer), Ciù ciù (chiacchierio, moine dal francese chou chou), Fà scé scé (cercare rogne, dal francese chercher), ‘Nfranzesàte (cattiveria a significare: contagiato dai francesi i quali portavano malattie veneree) e tanti altri. Curiosità desta l’ortoepia tenendo conto della fonazione che considera la vocale “e” (non accentata) come nel parlato francese. Il suono è debole e si ottiene emettendo il fiato con la bocca appena aperta. Entrando un attimo nel testo poetico che propongo in lettura, per facilitarne la comprensione, devo precisare: nel vernacolo gaetano tutti i verbi, nel tempo infinito, troncano le desinenze areereire, conservandone la prima vocale che è accentata; l’uso dell’indicativo imperfetto, adatto a esprimere un’azione che si ripeteva abitualmente, vede la desinenza “éje”: (…) sagliéje (letta “éie”, con una pronuncia della i tra gli-dolce e i).   
Gli avverbi si traducono con perifrasi e ancor di più con onomatopee. Porgo spiegazione dell’avverbio di modo Lòcche lòcche.  L’ho usato come sinonimo di piano, lentamente, ma è anche, a mio avviso, derivazione di allocco (che a sua volta è usato per dire: goffo, attonito, svagato, ingenuo). A un orecchio attento, lòcche lòcche, aggiunge il suono degli zoccoli dell’asino sulla via. Insomma, in italiano non è facilmente traducibile. Per tutto questo, tenendo conto della musicalità e dell’armonia peculiari alla poesia, è utile leggere un testo dialettale basandosi sul suono e sul ritmo.


bibliografia: Gliù ruuoce di Salvatore Antetomaso


Poesia vincitrice del “Premio D’onore e di Merito” al Premio Nazionale di Poesia "Patrizio Graziani" IX Edizione (2017) - Associazione Culturale Teatro Fiore – Gioia dei Marsi (AQ)
metro: endecasillabi e settenari

Lòcche lòcche sciugliènne le preghiére

… apuó se stétte alla muta e ‘ntraménte
ca gli’asene pe vie se ne sagliéje
-cuórpe de troppe juorne e soletudene-
cu nu sussurre surde,
che paréje lamiente de penziére
annascùse, sgranéje perle d’óro.
Lòcche lòcche sciugliènne le preghiére
a gliù quadrìvie la fronte signéje:
Arena Rossa, Cuostolo e Catena*
‘ncòppe a tutte l’antica cappelletta
de la Madonna séje, de gliù Colle.

“Vire la sporta méje? Ne tè niénte,
chiglie póche de rane gli’ho lassàte
a signà, pe turnà, la vie de case,
de gliù passagge signe.
T’arraccumànne  ‘stu sumaru mije
jè viécchie e dóje sullécchele abbàstane…
Vé isse, addò vach’io
oppure io cu isse, ma jè stessa cóse.
Abbracceme Madonna; la fruttàte
sia tante a chélla vigna bèlle. Vire?
Vire la sporta méje?”

Juste juste nu po’ aizéje gli’uocchie iènne
all’Erta* ca la Fémmena aspettéje.
Scignéje cante a la piane in rechiàme:
Èccheme bella méje ca so menute,
i gran sospiri tuoi m’hanno chiamate
.
Rispunnéje la Tèrre séje, mut[e
a] chigliu poèta ch’ancóre luntane
la sentéje vibrà
comm’é ‘n’amante ch’Amore apprepàre.


*Denominazione di alcune zone di campagna.


Traduzione dal dialetto di Gaeta.

Piano piano sciogliendo le preghiere

… poi stette zitto e intanto/ che l’asino per via se ne saliva / -soma di troppi giorni e solitudini-/con un sussurro sordo/ che sembrava lamento di pensiero/ ascoso, perle d'oro egli sgranava./Al passo lento scioglieva preghiere/e al quadrivìa la fronte si segnava:/Arena Rossa, Cuostolo e Catena, /in sommità l’antica cappelletta/della Madonna sua, quella del Colle. /“Vedi la sporta mia? Non tiene nulla/quei pochi chicchi li ho lasciati andare/a segnar, per tornar, la via di casa o / del passaggio il segno. /Ti raccomando questo mio somaro/è vecchio e due carrube ora gli bastano…/ Lui viene, dove io vado/ oppure io vado con lui, ma è lo stesso. / Abbracciami Madonna; la fruttata/ sia tanta a quella vigna bella. Vedi?/ Vedi la sporta mia?”/ Appena alzava gli occhi mentre andava/ all’Erta* la sua donna lo aspettava. / Scendeva canto alla valle in richiamo:/ “Eccomi bella mia che son venuto/ i gran sospiri tuoi m’hanno chiamato”/E rispondeva la Terra sua, muta/ a quel poeta che ancora lontano/la sentiva vibrare/ come un’amante che Amore prepara.


Patrizia Stefanelli


16 commenti:

  1. Patrizia Stefanelli è un vero vulcano di passione e di cultura. Ci attira sempre con i suoi messaggi di elevata intonazione. E questa pagina è veramente interessante e da un punto di vista poetico e da un punto di vista linguistico...

    Angelo Bozzi

    RispondiElimina
  2. Grazie, Prof. Bozzi. Il suo commento è un onore per me. Sono contenta, tanto, che mi abbia compresa.
    Grazie infinite al nostro Nazario Pardini per la pubblicazione.

    RispondiElimina
  3. Pagina di elevata intonazione linguistica. Bisognerebbe che anche nelle Università ci si interessasse di più delle microculture, di quegli ambiti lessico-storici regionali che rischiano di scomparire. Ringrazio la Stefanelli di questo ampio e documentato studio.

    Franco Frattini

    RispondiElimina
  4. Grazie a lei, Franco, per la sua lettura. Ci sarebbe tanto da dire, in effetti. Sarebbe un bene recuperare le radici della lingue minoritarie e vernacolari in generale. In esse c'è la storia, si racconta attraverso il segno linguistico che spesso ha un vasto significante.

    RispondiElimina
  5. Storia, linguistica, poesia. Il tutto concentrato in una pagina pregna di cultura. Un regalo delizioso di Patrizia. Non sono mai stata a Gaeta, ma ne ho sentito parlare molto da mia madre che vi ha trascorso diversi periodi. Un luogo che ha fatto parte del mio immaginario infantile e che è rimasto radicato in me come l'ambiente di una favola. Adesso leggendo ciò che ha scritto Patrizia rivivo l'atmosfera dei racconti di mia madre e sento ancora di più l'appartenenza a questo luogo. Grazie carissima amica di questo gioiello. Serenella Menichetti.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie! In realtà avrei dovuto dire tanto altro ma ci vorrebbero pagine intere. Dunque devi proprio venire a Gaeta al più presto. :)

      Elimina
  6. Ecco allora scrivi pagine e pagine intere di ricordi e aromi che dalla tua terra salgono a riempirci l’anima di bellezza. Mi piaci molto nella veste di narratrice, cara Patrizia.
    Annalisa Rodeghiero

    RispondiElimina
  7. “Molta parte dell'anima nostra è dialetto”, ribadiva Benedetto Croce. È opportuno, Patrizia, insistere a collocare e radicare la “parole”, senza stringerla in una classifica, a livello dei quartieri, delle vie, delle singole abitazioni, da una voce all’altra, da un balcone al successivo.
    La cronologia delle dominazioni straniere, da te esemplificata con rigore, illustra lo stratificarsi della lingua negli “hic et nunc” locali: allorché, però, in qualche modo, si esercita una sorta di rivalsa nei confronti degli invasori, riciclandone il vocabolario per mezzo di elisioni, troncamenti, aggiunte di vocali, consonanti raddoppiate, accenti slittati. Tra le testimonianze da te documentate, ho anch’io avuto, a volte, notizia della caduta dell’ultima vocale nella coniugazione dell'infinito in -are, -ere, -ire, e della caratteristica postilla -éje, segnale dell’azione ripetuta nel modularsi dell’indicativo imperfetto.
    Cara Patrizia, non sono in grado di valutare a pieno le sfumature tecnico-semantiche, anzi i paradigmi di vocaboli e contenuto, da un punto di vista propriamente inerente la struttura del codice da te utilizzato nel saggio. Avverto di possedere un’esperienza limitata in questo campo, poiché, nell’utilizzo orale e in quello trascritto, sono stata poco attenta: nondimeno, rimango affascinata dalla eccezionale misura con cui segni e segnali dialettali possano divenire veicoli di straordinaria efficacia evocativa nei versi, trasmettendone l’enfasi simbolica.
    L'analisi di “lòcche lòcche”, come tu rilevi, rende consapevoli sia necessario aggiungere, ai significati codificati, “il suono degli zoccoli dell’asino sulla via”. Sono della tua opinione: un testo espresso in vernacolo andrebbe consultato “tenendo conto di musicalità e armonia”, basandosi “sul suono e sul ritmo”.
    Nel nostro Sud, Tullio De Mauro lo definiva “lingua degli affetti”, e ad Andrea Camilleri piace ancora oggi ricordare la sintesi di Pirandello: “La lingua esprime il concetto, il dialetto il sentimento di una cosa”. Credo tu sia riuscita a descrivere tale unità di lessico e messaggio, tipica degli idiomi, in maniera agile e appropriata. Del resto, anche il lombardo Gianni Brera una volta ha confessato: “Io non penso in italiano, penso in dialetto perché sono un popolano”.
    Nell’atto di “parole” gaetano sono stata affascinata, tempo addietro, da quel singolare situarsi all'incrocio tra i raddoppiamenti del ciociaro, le asprezze dell'abruzzese e la nobiltà del partenopeo, aggiungendovi gli echi liquidi di un elemento ulteriore: l'acqua, il mare. Per questo, dopo aver citato in apertura l'abruzzese Croce, concludo con il napoletano Libero Bovio: “I dialetti sono eterni. Gesù parlava in dialetto. Dante scriveva in dialetto. Il Padreterno, in cielo, parla in dialetto”.
    Senza dimenticare Federico Garcia Lorca, il quale, pur fedele al suo elegante e musicale “castillano”, poco tempo prima di essere ucciso pubblicò “Seis poemas gallegos” in dialetto galiziano: “Imos silandeiros orela do vado / pra ver ô adolescente afogado. / Imos silandeiros veiriña do ar, / antes que ise río o leve pro mar”.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie, Cinzia. La tua esegesi mi dà gioia. Ci arricchisci di citazioni e esemplificazioni adeguate. Come tu ben dici, e autori da te citati confermano, il dialetto è la lingua delle emozioni. L'immediatezza di una "parola" in esso trova la sintesi, il significante difficilmente riproponile in Lingua. Il dialetto stronca gli eufemismi e per questo giunge subito all'obiettivo. E' chiaro che la Lingua unitaria è essenziale. Quanta fatica fecero gli italiani fino agli anni '60 per impararla. Il maestro Manzi si prodigò nella trasmissione televisiva: "Non è mai troppo tardi", trasmessa anche all'estero. Bene, ora potremmo dire che non è mai troppo tardi per riscoprire la parola dialettale che va perdendosi. Sarebbe utile riscoprirla soprattutto nella corretta scrittura, mentre ancora sopravvive nell'oralità. La poesia dialettale, se ben scritta, riesce ad aggiungere musica alla musica, significati al significante, assolve alla funzione dei ritmi molto più facilmente rispetto all'italiano. In questo genere di poesia adoro il verso metrico che, come un fedele amico, risponde e guida. Ancora grazie per il tuo prezioso apporto in Leucade, per la tua attenzione che mi onora.

      Elimina
  8. Grazie, Annalisa, troppo buona. La narrazione è difficile e non penso sia nelle mie corde. In questo caso è stato semplicemente proporre pochi cenni a favore della lingua delle emozioni.

    RispondiElimina
  9. "Preghiera" deriva da "precarietà", ma in questo canto di popolana e struggente saggezza non c'è alcuna supplica, non c'è alcuna querula implorazione del divino. C'è piuttosto un'umile accettazione del mistero della vita, una grandiosa aderenza alle leggi dell'esistere, fatte di sofferenze, di perdite, di pochezze, di sacrifici. L'asino, nella sua mitezza, è simile al padrone ("Vé isse addò vach'io / oppure io cu isse, ma jé stessa cose"). Hanno una fede comune e si somigliano nella padronanza e nell'accettazione di se stessi. Il dialetto è l'espressione più appropriata per una poesia così terragna e sanguigna, così ricca - più che di umanesimo - di umanità.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ho dimenticato la firma, scusate:
      Franco Campegiani

      Elimina
    2. Grazie, Franco carissimo, per questo tuo commento che si apre sull'essenziale: quella preghiera. Sciogliendo preghiere, infatti è un atto particolare. Insieme ai grani lasciati andare per via è come lo sgranare un rosario ma allo stesso tempo, l'uomo scioglie preghiere ma non implora. Quella Madonnella è la sua fede di ogni mattino, abbraccio abituale di ogni figlio.

      Elimina
    3. Davvero un bell'excursus storico-linguistico, con corollario poetico. Due cose in particolare mi hanno colpito. In primo luogo il piglio allegro e teatrale d'apertura, che si fa serio e pacato nell'esposizione di natura, come già detto, storico-linguistica, per approdare poi a un testo poetico di umanissimi e densi sentimenti, sempre d'amore, direi: per la Madonna a cui il protagonista raccomanda l'asino, per la "Terra sua", per la sua donna che lo aspetta all'Erta e per la semplicità e bellezza del suo piccolo mondo. L’altro aspetto immediatamente chiaro per caratteristiche lessico-morfologiche è l’influenza che il dialetto napoletano -ma forse sarebbe più giusto parlare di lingua napoletana- ha avuto sulla parlata gaetana. E d’altronde Gaeta è stata parte integrante del Regno delle Due Sicilie.
      Complimenti a Patrizia per come ha sviluppato e gestito l’argomento.
      Pasquale Balestriere

      Elimina
    4. Una bellissima sorpresa questo tuo commento,carissimo Pasquale. Hai colto aspetti essenziali: la gioia e la curiosità che grazie al teatro non mi abbandonano e il linguaggio vernacolare che porta ad una comunione semplice e intima con i versi. La sua terra è la sua donna, il richiamo d'amore che ogni giorno lo muove, il suo somaro è come se stesso. Grazie

      Elimina