PRESENTAZIONE DI DALLE RADICI AL CIELO
DI GIUSY CAFARI PANICO
“Sono
una pianta in vaso / costretta dal breve / recinto che mi cinge. / Chissà
impiantata morirebbe / o avrebbe frutti, finalmente”: è la chiusa di Io non appartengo (a pag. 101 per chi
già fosse in possesso del libro).
Mi
piace iniziare da qui, e ne spiego subito le ragioni: relazionare sull’opera di
un poeta non è come esporre il proprio pensiero riguardo ad un qualsiasi genere
letterario. Senza fare distinzioni né - tanto meno - stabilire una scala di
valori, parlare di poesia significa, quasi antiteticamente, uscire da se stesso
e rientrare in se stesso dopo essere stato il poeta (la poetessa, nel nostro
caso) con la convinzione di averne ascoltato le parole dell’animo.
Ecco
perché ho preso abbrivio dai versi citati. A lettura ultimata, mi sono reso
conto che nella strofa conclusiva di quella lirica c’era la Giusy che avevo
immaginato: una voce che, pagina dopo pagina, si era proposta con
l’inequivocabile timbro dell’autenticità e della chiarezza.
Fin
dall’esordio - già prima che prorompa il canto - nella nota introduttiva,
l’Autrice fornisce al lettore gli elementi essenziali su cui si basa la sua
poetica. È possibile così comprendere che il dettato che abbiamo di fronte non
si accontenta delle apparenze, al contrario, vuole scendere in profondità:
proprio come le radici dell’albero, non a caso prescelto e fatto assurgere a
simbolo di vita universale nonché, e conseguentemente, di umana aspirazione.
“In
nessun altro organismo vivente - scrive - si esterna in modo così iperreale la
duplicità direzionale, il verso
fondamentale dell’esistenza come in un Albero.”. E, a seguire, la domanda
che ognuno si pone (anche se oggi non sembra) più o meno consapevolmente: “Da
dove arriviamo e dove andiamo?”
Ovvio
che non possa esserci risposta certa ma - suggerisce la Panico - quanto meno,
quella simbologia può tornarci utile: la “duplicità direzionale”,
contemporaneamente verso l’alto e verso il basso, di quell’Essere vegetale,
conferma che non si tocca il cielo se non si è aggrappati con tutte le forze
alla terra. Soltanto così, le opposte ma in realtà analoghe tendenze acquistano
un significato; la dualità prende infine un’unica direzione.
Si
legga ancora nella suddetta nota: “E se il passato fosse sempre in espansione,
in un concetto di tempo circolare e misterioso che solo la Natura conosce?”:
ulteriore e sempre più stimolante approfondimento che mi trova in piena
sintonia. È nella ciclicità, nell’incessante nascere e morire che si attua
l’inconoscibile segreto della vita, cui soltanto l’intuitiva percezione viene a
noi concessa in rari ed irripetibili momenti di grazia. È l’eterno presente,
l’infinito, non il nostro ma il tempo di Dio, simboleggiato di nuovo
dall’albero, dai suoi rami protesi “verso ciò che non è ancora e chissà se mai
sarà” - scrive la poetessa -.
Con
queste premesse prende corpo la silloge: il suo procedere essenzialmente per
opposti nelle varie sezioni che ne compongono la stesura. Radici e rami - la prima - si apre con due poesie (tra le migliori
dell’intera raccolta) che fanno chiaramente intendere l’energia metaforica che
anima l’opera. L’incipit: “Pervicace la stretta delle radici / nella nuda e
ostica terra. / Come artigli di uccelli affamati, / come mani di naufrago /
aggrappate a legni di zattera.” Prelude all’abbraccio ossimoricamente “dolce e
violento” dell’albero che - come l’uomo - sa di essere nato “per il cielo”;
senza insuperbirsi, però. Restando con i piedi ben ancorati al grembo che diede
vita al seme. Abbraccio che tramuta in vera e propria metamorfosi; da Arborea: “Sangue contro linfa. / Pelle
contro tronco. / Capelli impigliati tra le foglie. // Germoglierei tutta e
innestata fiorirei / gemme e frutti.”.
Ma
la trasformazione non è solo antropologica, visto che “nuovi alberi dai troppi
nidi / proiettano ombre troppo lunghe” e danno l’illusione d’improbabili rifugi
ad uccelli che “sbattono le ali ferendosi a vicenda”. Sono “torri di babele”:
grattacieli, organismi artificiali destinati a crollare perché “l’ansia
angosciante di salire non è più spinta verso l’alto”, ma oblio della
semplicità, delle fondamenta che le sostiene. Le citazioni sono tratte da Ombra e riparo: cuore pulsante della
raccolta: lo attesta il trittico finale di liriche in questa sezione contenute.
Tre testi che non esito a definire esplosivi per la scelta del volo e del suo
inno alla libertà. Nel primo, Se fossi un
uccello, Giusy cerca, tra il fogliame di un grande albero, dove fare il nido,
al punto di nascondervisi ma non di rimanerci impigliata; nel secondo, Gabbiani, si chiede invece dove
nidifichino questi volatili che sembra “si amino / e vivano in aria”; nella
terza convincentissima prova, Il Falco,
perviene alla sintesi conclusiva, l’unica che chiarisce il senso stesso
dell’esistere: occorre fare in modo che “le cose che (si vogliono) far tornare”
siano tenute al dito come “sul più flessibile dei rami” e comportarsi da
falconiere: “lancia(re) nell’aria” il proprio rapace con la certezza del suo
sicuro ritorno.
Era
indispensabile soffermarsi su queste poesie: vi trova riscontro la poetica
della Panico: il punto di partenza - stabile (perché mette radici) e al
contempo oscillante (perché alza i rami al cielo) - del volo che si origina dal
seme. Una siffatta Weltanshauung è segno di consistenza da un lato e di
provvisorietà dall’altro. Similmente ad un fiume in piena la problematicità
sfocia nell’oceano dell’anima e lì - tra bonacce e tempeste - s’inabissa
esplorando fondali sconosciuti che, però, aprono le porte a nuove riflessioni.
È
quello che accade nella parte finale del libro: in Terra e Cielo (ultima sezione), la parola s’ispessisce, si carica
della spinta propulsiva di forze contrastanti: un’alternanza - già
precedentemente sperimentata - di contrapposte coppie di poesie nelle quali una
sembra contraddire l’altra. Non deve spiazzare o addirittura far gridare
all’incoerenza un tale modo di procedere, giacché sta in una visione della vita
- come quella che la Nostra dimostra ampiamente di possedere - l’altalenarsi.
D’altro
canto, basta nuovamente rifarsi alla simbologia dell’albero per rendersene
immediatamente conto. L’albero - vale ribadirlo - si radica più che può nella
terra per ricevere l’unico stimolo in grado di portarlo in alto: nella
direzione contraria, ma sostanzialmente identica, alla strada tracciata nel
cuore del seme che - non dimentichiamolo - mentre attecchisce, germina.
Così,
in Oblivion, il dimenticare risponde
alla legge dell’impermanenza, secondo la quale nulla è destinato a lasciare
traccia perché possano essere ristabiliti quegli equilibri intaccati da eccessi
di vanità e sperequazione tipici della natura umana. Posizione su cui si può
dissentire e, sinceramente, non convince totalmente neanche me: non credo in
ciò che ha tutta l’aria di rappresentare una forma di punizione; e non perché
il castigo non sia meritato, è che mi riesce difficile pensare ad un Principio
Assoluto (“unico Dio”, come giustamente viene definito) che non conosca la sua
stessa relatività: la sola che davvero permette di non uniformare e neppure
dividere, per la semplicissima ragione che quella sorgente originante è,
ininterrottamente è, in ogni istante del mistero vivente.
Nella
lirica successiva si prende atto dell’antinomia (presunta più che reale):
“Niente rimane” - si legge - e subito dopo: “Tutto riappartiene”. C’è una
differenza abissale, e su più fronti, con l’assenza di memoria - disperata e
punitiva - che traspare dal testo precedente. Qui - come sostiene la stessa
Giusy - non si avverte la paura “di camminare sui ricordi” poiché, pur non
esistendo più, il passato è “continuamente rivissuto”, altro non è che
“continua reinvenzione”. Staticità e dinamicità, dunque, non sono in
opposizione; sono vive tanto quanto le radici e i rami dell’albero.
Sarebbero
anche altri gli esempi da addurre per attestare questo procedere per
chiaroscuri - mi viene da dire -, tuttavia, per preservare il piacere della
scoperta al lettore, mi limiterò a segnalare due dei testi finali: Significati e significanti, dove
l’abbandono all’insondabile è completo ma anche rassegnato, sconfortato e Immenso nulla, in cui si respira - poco
importa se tra le lacrime - il desiderio di credere “nel sogno di un’eternità”
(per citare la poetessa).
Ed
è ancora menzionandola che voglio concludere: dalla nota finale, a sua cura:
“La memoria è indispensabile per comprendere chi siamo [….] Ma ricordare non
serve a nulla se la memoria non si trasforma in autocoscienza, se le esperienze
della vita, prima di tutte l’amore [….] non diventano un tuffo dalla terra al
cielo.”, e viceversa (mi permetto di aggiungere, certo di trovare condivisione
nell’Autrice).
Sandro Angelucci
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