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venerdì 1 dicembre 2017

N. PARDINI LEGGE: LEONARDO FASCIANA "...PER L'INGRESSO AD UN CIRCOLO AUGUSTEO"


SILLOGE PER L’INGRESSO AD UN CIRCOLO AUGUSTEO





Silloge fresca, carnale, di erotico prurito pagano, di forte identità classicheggiante che fa del suo velluto formale un’alcova  in  cui riposano messaggi di epigrammatico stampo; il poeta, affidando la sua urgenza emotiva a grandi interpreti della letteratura greco-latina, rivela nervature di elevata nozione culturale; e al contempo piega la storia al suo ontologico modo di esistere, facendo un’operazione di scavo e di attualizzazione  di vicende inusuali. Tutto un mondo che a prima vista sembrerebbe passato alla storia, inattuale, se riferito ad una poetica odierna che fa della poesia una rivisitazione della realtà sociale; di sentimenti che escono con visività dall’impatto del poeta-uomo col mondo che lo circonda. Ma la grandezza di Leonardo Fasciana sta proprio in questo: nel condire il piatto delle problematiche esistenziali con una salsa fresca e di moderna scuola culinaria, valida per sempre, accompagnandola con un chianti che trae la sua forza da radici lontane.  Il linguaggio stesso dà corpo alle impennate emozionali servendosi di una verbalità strettamente  adeguata al contesto. Arguzia e creatività, preparazione e forza lirica fanno di questo canto un modello di ardua innovazione e consolidamento, visto che oggi si scrive ignorando le matrici del “poema”.   Figure di età storica tornano vive e loquaci a dirci quanto la poesia non abbia vincoli di tempo quando il messaggio è fresco e universale; umano e duraturo: guerra, pace, amore, vita, amicizia, cultura, le questioni dell’esistere, rapporto con l’aldilà 

Nazario Pardini


DAL TESTO

FORUM

Se vaghi senza meta per il Foro, caro Leuco,
non immedesimarti nei fianchi o nelle cosce ben strette
dalle mani di Amore; non scaldare la pece
che dai fragili calderoni di bronzo
dilagheresti rovente in tutto il petto;
non sacrificare sugli altari di Rovina le ossa
dei corvi e le interiora di un tenero agnellino.
Non è ancora tempo di maturare tali pensieri.
Osservali bene, osserva i loro sorrisi schiudersi
dopo il piacere di un bacio che viene ricambiato.
Prendi nota di tutto ciò che vieni a sapere di loro,
i regali, le cene, le passeggiate che non rendono conto
al Tempo che tiranno si genuflette davanti all’Amore.
Non renderti preda ancora dell’Invidia della quale
sei il suo migliore sacerdote: siamo giovani,
caro Leuco. Spera nel meglio, per te, per loro,
soprattutto quando – massimo due anni – le schiene
saranno chine dal dolore e i volti avranno i solchi
delle lacrime roventi. Assistili, cullali nella sconfitta.
Allora sì che potremo battere la terra alla danza dei Salii
allora sì che siederemo alti sui nostri troni immoti,
mentre tutti vedranno la nostra fronte ascendere
alle stelle fulgenti.


PAX AUGUSTEA - Oἰκουμένη

Madre del Mondo, ambizione dei soldati e degli imperatori,
fulgida Ecumene, sotto le bianche fiaccole del cielo
unisci i popoli sotto un’unica egida, e con un’unica tavola
di leggi promulgate da te, o Statore, bronzea e inossidabile,
porti costituzione ai popoli oppressi,
progresso ai popoli arretrati,
ai popoli barbari la cultura.

Sotto il tuo scudo guariscono le lance ferite
da frecce ed onagri; i marinai ti guardano
benevoli, sfilando lungo le vie del mare.
I soldati chiudono nei loro depositi ampi
i dardi e le balestre violente;
lungo le strade, le tue vene imponenti,
riprendono a scorrere carovane di messi.

A gran voce gli abitanti di un unico tetto
si stringono attorno al loro Imperatore: fa, o Illustrissima,
che la sua risolutezza non possa mai vacillare
e la sfera di Atlante saldamente regga,
e mai più incandescente diventi l’asse del cielo:
voli lieta l’Aurora dalle dita di rosa
e insieme a Rugiada precedano il carro di Apollo!

Possa il tuo respiro essere ispirazione di pace
sotto lo sguardo di un padre benevolo, e il suo sorriso
sorgere in Oriente e in Occidente tramontare mai.
Nelle taverne più remote si brindi con i vini migliori,
senza mescerli con limpida acqua, all’ebbra serenità;
nelle campagne i militi dalle membra stanche
possano essere accolti dagli abbracci assedianti,
e lacrime di madre, di stirpe valorosa, e di fanciulla
fecondino il suolo con nuove e più genuine primizie.

Le porte ora si tengano spalancate: nessuno
dovremo più temere e grandi peana
siano fischiettati per i fori, per le vie,
sotto i portici, nelle piazze grandi, sotto gli archi
della vittoria finale su Tristitia folle;
siano osannati davanti ai flamini e alle buccine;
siano innalzati al tuo passaggio trionfale.

Tellus ti accoglie con cornucopie di cibo e metalli,
e sui seggi dei senatori torni a regnare, o Concordia.
Ade, deluso ma compiaciuto, prende le ferie;
ravviva invece, Vesta, il fuoco inestinguibile di Prometeo:
Giove ci deve vedere dalla reggia del cielo
e fino al palazzo di Nettuno le Nereidi udire.
Il Vendicatore Marte, sazio, può considerarsi fiero
e di noi soddisfatto: infatti ci sorride,
così come Vittoria Iride in segno di trionfo
libra le sue ali candide ed imponenti.

Finalmente chiuse le porte di Giano Bifronte
possa tu, Augustissimo, riposta la spada, gridare:

“PACE!”



Leonardo Fasciana

SILLOGE PER L’INGRESSO AD UN CIRCOLO AUGUSTEO

  
  
INDICE

1. Ramo di Alloro
2. Forum
3. Propaganda al nemico
4. Giulia – Frammento greco
5. La Sacerdotessa di Giove
6. Verginità
7. (Ode) Fluviale – Afrodite Cnidia
8. Sorgente
9. Lettera a Tibullo – I
10. Lettera a Tibullo – II
11. Lettera a Tibullo – IV
12. Lettera a Tibullo – VIII
13. Lettera a Tibullo – XII
14. Lettera a Tibullo – XVII
15. Pax Augustea

BREVE SINOSSI
Questa silloge è stata adattata per questo concorso in cui ho unito le mie poesie migliori che ruotino intorno alla “classicità”, sia in senso letterario, sia sotto il profilo degli autori stessi. La prima poesia è dedicata a Gaio Clinio Mecenate, al quale mi presento e allo stesso tempo manifesto il progetto di riportare in auge la poesia classica. Le due poesie successive invece sono dedicate ad Orazio quale eccellenza della poesia gnomica (Forum) e rivalutatore ottimo della poesia lirica greca (giambica, Propaganda al nemico). Il Frammento greco invece è un esperimento artistico sia a livello poetico che grafico, in cui la frammentarietà di un ricordo si intreccia con quella lasciata dai frammenti greci dai quali non è possibile ricostruire la poesia originaria. La poesia seguente (Sacerdotessa di Giove) ha un nucleo autobiografico, tra il giambico ed il semi-mitologico: la nuova relazione dell’ex amata, la cui identità e quella del nuovo compagno (Umberto significa illustre guerriero) vengono idealizzate e allo stesso tempo superate dall’orgoglio dell’io lirico in quanto si sente “Imperatore di sé stesso”, concetto che pur partendo dall’autarkeia la supera. Sempre dedicata ad Orazio è anche “Verginità”, la quale si ricollega antiteticamente al frammento 114 V. di Saffo: “Verginità, Verginità, mi abbandoni: dove te ne vai?/ Non verrò più da te, non verrò più” (G.Burzacchini). La settima ed ottava poesia sono dedicate invece ad Ovidio quale maestro dell’erudizione mitologica e della poesia prosastica. Sorgente invece merita una piccola menzione siccome il nucleo è ovidiano (con un tocco dannunziano) nel quale si unisce un concetto meno classico e più personale come la putrefazione dei sentimenti, mostrati in una chiave che si ricollega al massimo della tragicità classica, il coro greco, nonché una piccola nota scenografica a fine poesia. Gran parte della silloge invece è dedicata a Tibullo, proposto nell’ottica di un grande amico e confidente all’interno del circolo letterario (per questo il titolo della silloge è generico, non specifico al solo Mecenate). In quanto confidente vengono manifestati gli affanni di uno scrittore ed in particolar modo della “maledizione” che lo colpisce, ovvero lo scrivere degli amori altrui e renderli immortali anziché vivere i propri in quanto assenti; il rapporto tra l’eternità delle proprie opere [Exegi monumentum aere perennius, Orazio, Odi, III, 30] e delle esperienze terrene la caducità e l’oblio; l’intrecciarsi maledetto ed infelice delle proprie esperienze amorose che avvelenano il poeta siccome illusorie e non ricambiate (Lettera a Tibullo – XII); la metapoesia attorno alla lettura di un carme, alla sua comprensione ed efficace interiorizzazione (Lettera a Tibullo – XVII).
La chiusa della silloge invece, partendo dal Carmen Saeculare oraziano, è dedicata alla Pace Augustea personificata in Ecumene, ovvero Dea del mondo civilizzato, che è la chiave di volta dell’armonia di tutti i popoli, del multiculturalismo e cosmopolitismo, nella quale si incarna la figura dell’Imperatore Augusto che, come disse nelle sue Res Gestae: “Il tempio di Giano Quirino […] sotto il mio principato per tre volte il senato decretò che dovesse essere chiuso”. La chiusura celebrativa di Augusto non è solo da vedersi nell’ottica di una mera poesia cortigiana e filoaugustea, ma come lode sincera e viva alla Pace per mezzo di Augusto, sotto il cui principato è stata resa possibile la nascita di uno dei periodi più prosperi della letteratura occidentale.

RAMO DI ALLORO

Una pianta di alloro è sorta, o Mecenate,
nel giardino della mia dimora; Polimnia
deve averne gettato il seme come dono
in una notte in cui ancora sgambettavo nella culla.
Dunque per tutti questi anni questa pianta
è cresciuta sotto l’indifferenza delle genti;
solo ora che si erge retta e fanciulla
io fanciullo la ammiro.
Al tendere del vento parve che sibilasse versi
agresti e, specchiandomi nelle sue foglie,
mostrasse le fredde selve d’Iperborea
e del Campidoglio il radioso Sol.
Allora un ramo separai dal tronco
e di questo mi cinsi le tempie. Subito allora
le Muse si presentarono leggiadre,
implorandomi di cantare.
Pregavano di raccogliere sotto l’alloro
apollineo le opere della terra di Liguria;
attorno all’Impero ricostruire l’egida di Atena,
signora dei giusti pensieri.
Lei stessa mi mostrò la lancia dorata
e d’onagro la sfera sulla quale ti affacci
al mondo, o Vittoria. Quindi la tenacia
e il Buongoverno mi chiedesti di cantare.

Sono dunque l’ultimo buccinator dei Romani, o Mecenate,
ma dopo di me non più l’ultimo.


 FORUM

Se vaghi senza meta per il Foro, caro Leuco,
non immedesimarti nei fianchi o nelle cosce ben strette
dalle mani di Amore; non scaldare la pece
che dai fragili calderoni di bronzo
dilagheresti rovente in tutto il petto;
non sacrificare sugli altari di Rovina le ossa
dei corvi e le interiora di un tenero agnellino.
Non è ancora tempo di maturare tali pensieri.
Osservali bene, osserva i loro sorrisi schiudersi
dopo il piacere di un bacio che viene ricambiato.
Prendi nota di tutto ciò che vieni a sapere di loro,
i regali, le cene, le passeggiate che non rendono conto
al Tempo che tiranno si genuflette davanti all’Amore.
Non renderti preda ancora dell’Invidia della quale
sei il suo migliore sacerdote: siamo giovani,
caro Leuco. Spera nel meglio, per te, per loro,
soprattutto quando – massimo due anni – le schiene
saranno chine dal dolore e i volti avranno i solchi
delle lacrime roventi. Assistili, cullali nella sconfitta.
Allora sì che potremo battere la terra alla danza dei Salii
allora sì che siederemo alti sui nostri troni immoti,
mentre tutti vedranno la nostra fronte ascendere
alle stelle fulgenti.



PROPAGANDA AL NEMICO

Preferisco ingigantire il mio nemico
che gonfiare me stesso.
Scelgo di raddoppiare le insegne e gli stendardi
che le sue truppe muovevano contro di me.
Insisto sull’affermare che la sua fanteria
era davvero tenace e combatteva arditamente,
mentre la cavalleria mi fiancheggiava, logorandomi;
per non parlare di quella artiglieria dall’alto
della collina che sputava munizioni fatali
da bocche forgiate da Efesto in persona.
E lo stratega in capo all’esercito sarà esente
da tali lodi? Di quali ingegni marziali faceva novero
nella sua mente, e con che rapidità e sicurezza
disponeva i soldati per il campo di battaglia!

Preferisco rendere invincibile il mio avversario,
perché quando la battaglia sarà conclusa,
io, invitto, lo avrò vinto.



GIULIA – Tratto da un frammento greco ritrovato
  
“quel labbro cadente e carnoso, preda
di diversi morsi”

“e lo schiudersi delle gambe
quando allora il Sole si schiudeva
in dolci amplessi”


LA SACERDOTESSA DI GIOVE

Ora è tutto finito, cara Giulia;
un’altra persona ti cingerà le braccia;
sotto il suo tetto troverai riposo
lontano dagli auspici di Apollo.

Amore ha posto la sua ghirlanda
sul frontone del nuovo talamo;
sotto il vischio massaggerà
con caldi unguenti le natiche di Psiche.

Farai una gara con Eco, cara Giulia.
Qual clamore riecheggerà più forte
tra le rocche della mia memoria?
le elegie di Tristia o di Erato la passione?

Dall’alto dell’eremo, a capo chino,
indosso un manto di stelle fulgenti,
proteggendo chiuso nel petto                     
una fresca ferita aperta.                              
Con unguenti dell’oblio svaniranno
nel vapore i soliti germi, ma lo squarcio
si trasforma sempre in una purulenta piaga.
Questi versi forse saranno panacea divina.

Nuove fibre si riorganizzano attorno ai muscoli
oltraggiati. L’acqua lustrale ha lavato via
il sangue rappreso e una nuova lancia
forgiata da Efesto splende nella mano del Doriforo.

A schiena ritta osservo la valle svelarsi sotto di me
illuminata dalle piccole fiaccole presso l’uscio delle case.
“Se una sacerdotessa di Giove appartiene ad un illustre
guerriero, mi chiedo cosa spetti agli imperatori”.



VERGINITA’

Verginità, Verginità, ma perché non te ne vai?
La stagione degli amori va concludendo
e ancora avvolgi affettuosamente il mio braccio.
Io cerco di mandarti via, ma ancora
ti accoccoli tutta intorno a me.
Così rimangono ovattati gli orgasmi che sento
all’orizzonte, orizzonte che non posso raggiungere
se tu mi blocchi il passo. Non è una cosa
che fai con violenza, ma più cerco di allontanarmi
più sono stretto a te. Sì, ma ora levati!
E’ giunto anche per me il momento del corpo,
dei nudi silenzi e dei pomeriggi oziosi.
I peccaminosi sguardi e le audaci proposte
mi attendono seguiti dai ferini movimenti.
Le mie membra chiedono di folleggiare
come Coribante tra le Baccanti, e adesso
giacere languido nella notte tra le carezze
di Psiche. Voglio stemperare la mia furia
negli amplessi di Afrodite che tutto quieta
con il suo dolce canto. Dai, dai! Ora basta!
                                 
                           [Lunga pausa]
Scusami, non meriti un trattamento simile.
Quanto siamo stati bene insieme, non è vero?
L’età dell’innocenza e dei sorrisi sinceri
ho condiviso con te finché i miei boccoli
smisero di crescere nella lieta estate della vita,
finché la barba non mi crescesse dal viso
alle porte della primavera efeba. Adesso
Cipride mi chiama dal talamo, voluttuosa
pregandomi di alternare i vivaci coi languidi ozi.
E tremando la raggiungerò a passi incerti
nella celebrazione della Vita che tu allevi
nei teneri bambini. Ma non molto tardi dovrai
lasciarli andare perché il trionfo della dea,
di cui tu sei prima sacerdotessa, sia completo.
Io non ti dimenticherò; io sempre volgerò
lo sguardo alla purezza, tua orma sugli uomini,
che vedrò sul volto dei miei figli, quando
le fiaccole nuziali splenderanno del bagliore                 
più forte, ed io ricorderò i nostri tempi trascorsi.          
Ma ognuno in cuor suo, con toni dolci, deve                
ottenere la tua comprensione. Madre apprensiva,          
tu accoglierai la mia richiesta e con grande rispetto
mi lascerai andare. Non temere, presto ci rivedremo,
all’estate dei tuoi nipoti.
                            Da queste parole
con una carezza sul viso sincero ti avrò congedato,
e il tuo corpo si scioglierà come cera.



FLUVIALE – AFRODITE CNIDIA

Qui tra i muschiati effluvi e la frescura
umida godrai di una divina visione.
Tra le liete rive di questo laghetto
alle prime luci dell’Aurora, un coro
di ancelle assiste Venere, loro signora,
al bagno purificatore, dopo aver condiviso
la fulgente notte tra il talamo e di Marte il petto.

Qui Cipride è solita trovare ristoro dalle fatiche,
lontana da occhi indiscreti, lontana dalle passioni
che la travolgono durante il giorno.
Su un grande sasso cadono scivolando sul muschio
i panni di Afrodite, sciolti da un dorato fermaglio.
E maestosa appare: le cerulee vene percorrono
sinuose appena sotto la marmorea pelle,

i piedi aggraziati e le belle natiche,
e davanti il morbido ventre poi i rotondi seni
verso il collo ben tornito e i capelli raccolti.
Attorno a lei si raccolgono le ancelle e versano
sul suo corpo un vaso di puro nardo e un altro
da cui lento versa l’eleomèle. Dunque si immerge
nel lago di glicine e al piacere si abbandona.

– Ma tradito si fa il nascondiglio di Atteone
nel fragore di un ramoscello secco spezzato
all’arretrarsi del piede ammaliato. Di scatto
Afrodite emerse dall’acqua cercando pudico
rifugio presso le vesti; ma tale fretta bastò
all’ammiratore di osservar la beltà del suo ombelico
e il biondo pube. Estrema memoria fu questa

per Atteone che correva nelle profondità del bosco
fuggendo con balzi di cervo. Il passo dell’uomo
si fece daino e quello dei Molossi lo seguiva
lungo le pendici del Citerone. – Alle ombre della sera
nel fiume di Gargafia galleggiano separate le membra
dell’animale tra sanguinolenti balsami. Allo stesso tempo
Venere stempera la furia di Marte sul morbido giaciglio.
                                                       


SORGENTE, ossia LA DISTOPIA DI UN LIETO FINE

Pura e divina è l’acqua
che sgorga pulsante dalle rocce;
ogni peccato tra le mani sciacqua
e disseta le borracce.

O viaggiatore,
loda la fortuna di aver trovato tale tesoro;
suvvia purificati, peccatore,
allietato da ninfe, un coro.

La più bella tra queste,
sì, proprio lei,
si sta immergendo con te,
creatura di una scaglia degli dèi.

Capel rossi e biondi,
lungi da noi
il pensier di toccare l’ombra di eroi
che hanno sfiorato i seni rotondi,

che hanno lambito la sua pelle lattiginosa
e spostato la fulva ciocca dietro l’orecchio,
dove la corona, bucolica, si fa luminosa
e di ciò che vive ne è lo specchio.

Fresca e saporita è l’aria
che scende dalle montagne, piena
di odori dalla magnitudo straordinaria,
che i polmoni ossigena.

Questa natura entra prepotente,
cicatrizza di guerra le ferite
sopra un cuore di rose inaridite,
ora, un campo di spine dal ghiaccio fetente.

Sono putrefatti questi sentimenti,
se chiudi gli occhi li senti:
urla di caduti che chiedono il seno di una ninfa,
che chiedono un amore che trionfa!

Dai cimiteri del cuore
soldati grigi afferrano l’aria ferma,
ora serrati, i ranghi della legione inferma,
marciano spediti alla ricerca della panacea d’amore.

O mio milite, tanto quanto prossimo
ad una donna,
tanto quanto prossimo
alla speranza che inganna
che ti prende,
ti eleva,
ti scarica,
ti preleva,
delusioni lastrica
e il cuore una pietra ghiacciata rende.

Così il nostro viaggiatore muore
tra le braccia di Pegèa
vedendo come estrema bellezza i suoi occhi,

occhi pieni di dolcezza e amore,
restituendo il corpo alla madre Gea
dopo aver aspettato troppi lamenti d’amore, i rintocchi.

[Escono tutti tranne il viaggiatore, galleggiante e prono]


  
LETTERA A TIBULLO – I

Stringere il seno di un cuscino, caro Albio,
questo mi resta, e la speranza sempre più
grande e vuota che schiaccia gli umori
ai confini del petto nudo, a cui morte,
– ma quali venti propizi  – sembra volgere pudico.
Che sia questo, il gran voto di castità
che i narratori fanno perché le storie
loro possano sconfiggere il ruotare sfrenato
delle stagioni? Che sia questa, l’evirazione
delle nostre passioni, perché passionali
narrassimo degli amori altrui e sempre felici?
Vagavo per il Foro l’altro dì, caro Albio,
e vidi gran fila di innamorati baciarsi
contro i muri del porticato. Io ero l’unico
che sguardo coperto non avea dalla testa
di un’altra. Dunque le storie di costoro
ho raccolto e appoggiato sulla scrivania,
dopo aver levigato con pomice che forse mai
toccherà la schiena del Canto Supremo.
Quando, quando arriverà il carme più alto
della nostra vita, che pare votata all’etere,
un militare il cui fulgore delle armature
viaggia oscurato dall’elmo di Ade?
Sarà dietro l’angolo
– dissi dieci isolati fa.


LETTERA A TIBULLO – II

C’è una storia d’amore in ogni piega
di lenzuola, caro Albio, e i poeti
hanno le trapunte più stropicciate,
in attesa della propria Musa
che al talamo tornerà a rendere stirati
i cuori. Storie immaginarie,
storie della carne e della mente,
audaci, a cui sempre Fortuna
pone l’ultima parola lieta.
E a noi cosa serba nel suo progetto?
Noi sai quante volte avrei voluto posare
gli allori sul mio scrittoio, o lasciarli
in balia della corrente di un fiume
dove l’airone si preoccuperà di porgerli
ad un più meritato fanciullo, che saprà
apprezzarne il rigoglio e gli aurei frutti.
Ma fusi sono i rami attorno alle vene
della mia testa, condividendone la linfa,
e nella sinfonia della sera le drupe luccicano
alla danza delle lucciole, mostrandomi
l’arduo sentiero. Tenacia immane Ella
ci prescrisse contro l’Odio e l’Invidia, mentre
faceva vibrare della lama suicida il sussurro.
Pur di non arretrare di un passo, noi, Albio,
dovemmo piegarci allo strazio che l’aquila
giulia infierì al nostro martoriato corpo.
Come si può raddrizzare una legge impari?
Più in alto pende sopra le nostre teste,
più distorta e incline al castigo sembra volgere,
ma ha lo stesso volto della Grande Madre.
E superate le ferite rapaci e dei veleni lenti
le ulcere, tutte quante le Muse beltà d’animo
ci riconosceranno. E i desideri logori
dalle delusioni e nello sconforto sbiaditi,
quasi ad aver gettato le armi e gli scudi,
verranno finalmente esauditi.
E le nostre storie aggiungeranno al perpetuo
canto che Venere, Dea superiore, intona
intorno alle lenzuola stese
e con lei Vita si accora.


LETTERA A TIBULLO – IV

Fortuna non smette mai di stupirci
e di tessere storie che noi poeti
siamo destinati a raccogliere,
meravigliandoci sempre della cecità
che altri provano davanti ai pomi di Melanione.
E’ materiale aureo per una squisita
storia, e Ovidio ne è ghiotto estimatore;
spero di non suscitare la sua ira quando
su questi libelli avrò stilato l’umore
dei mirti che crescono sulle tempie stefanee.
Licinio a lungo desiderava la mano
di Filena chiusa nel braccio del possente
Tracio di Capua. Licinio passava i giorni
a mantenere degli sforzi il fronte compatto,
covando il desiderio nel cuore che l’assedio
di quella mano si sfaldasse. Ma la Sorte
ebbe un destino migliore per il tenace Licinio
e venne ricompensato di un amore duraturo,
forgiato nella lontananza e nel dolce ardere.
E quando vennero i giochi del secolo
fatale fu quello scontro per il Tracio
il cui sangue giugulare si mesceva
alla bava all’agonia alla polvere ad altro sangue.
Filena lo pianse il giusto, poi la sua memoria
svanì, arsa nel desiderio di quel Licinio
che tanto aveva sperato la sua mano.
Amore svelò tardi l’affetto che aveva provato
lui per lei, e adesso lei si strugge; il senso
di colpa la travolge, e nella composta follia
cerca di stemperarlo cercando mani vuote.
E la gente del Foro ora nota la sorte
rovesciata che va accompagnando
il suo volto triste; la gente del Foro scommette
sulla loro unione felice, scambiando
maliziosamente tra loro gli sguardi.
Come si può sfuggire alla tentazione
di partecipare ad una giocata simile;
come non si riesce a mirare la perizia
di una storia così ben costruita, e reale!
Tiche non smette mai di stupirci;
tra le rive della sua fontana
ripeto l’aleatorio gesto che nell’aria
immobile rovescia le facce del sesterzio,
e nell’acque rigogliose completa l’omaggio.


LETTERA A TIBULLO – VIII – SUSSURRI

Albio, non ho mai provato emozione
più piacevole che quella scaturita
da un sussurro, quel caldo sussurro
che una notte la mia amata porse
all’orecchio infondendomi pace.
E tacquero le corde del cuore
e lo stomaco brontolante,
le fibre delle gambe e delle braccia,
i turbinosi pensieri e delle fronde
il moto oscuro; dormirono i fatali
sospiri, gli ansiosi sgomenti della morte
e le mesti realtà. Il sibilo della voce
si confuse nella brezza notturna
della campagna; una luna argentea
splendeva nel pozzo placido
dalle acque immote. Al vento rispose
il canto delle cicale. Tutto si calma
al levarsi del suo sospiro. Tutto tace;
rispondono solo le cicale.


LETTERA  A TIBULLO – XII – LA PANCHINA

Accanto alla pianta d’alloro
vi è un ulivo secolare, Albio,
attorno al quale costruii
una panchina dello stesso
legno ligustre. Ha da sedere
almeno per due persone.
La consacrai ad Afrodite Melanide
affinché una notte, e le notti
a venire, sotto i fiori d’ulivo
avrei scambiato baci di amanti.
Adesso, misero, giaccio raggomitolato
sulla panchina, che ha da sedere
almeno per due persone;
non mi muove il fruscio del vento,
non mi muove il carezzevole raggio
che mi saluta ogni giorno.
Lungo le orbite gli occhi sono vacanti;
nel flettere la schiena avanti e indietro
cerco consolazione; indietro e avanti
un ritmo tenace mi mantiene vivo.
Verme appestato, piagato, strisciante
sul legno come il veleno lungo le vene.
Sentimenti putrefatti esalano
pieni di rabbia e dolore, d’amore
un tempo le grida ora astiose.
Membra e gote melliflue sono prive
di qualsiasi pinguità;
Saturo di bitume cola spontaneo
il sangue che nero sporca i legni
candidissimi.
             Perdona il mio sacrilegio,
o Venere! Sul fare della Sera
concedi il mio fiato echeggiare
di poesia per tutta la valle!


LETTERA A TIBULLO – XVII – IL PESCATORE

Quando hai tra le mani un carme, caro Albio,
tienilo come fa il pescatore con un pesce pregiato.
Aprilo e fai scivolare il dito lungo il taglio
per rivelarne le viscere; tra le squame del libro
noterai le vene dei versi che trasportano
attraverso la carne la linfa, il succo della poesia.
Con mano ferma e coltello accorto separa
la fibra dalle ossa e contempla le profondità
adesso svelate ai tuoi occhi, la freschezza
della parola, delle membra il nitore.

Lascia la carne al palato del volgo;
riserva per te le ossa, perché questo spetta
a un dio, Albio, al Dio Lirico.





PAX AUGUSTEA - Oἰκουμένη

Madre del Mondo, ambizione dei soldati e degli imperatori,
fulgida Ecumene, sotto le bianche fiaccole del cielo
unisci i popoli sotto un’unica egida, e con un’unica tavola
di leggi promulgate da te, o Statore, bronzea e inossidabile,
porti costituzione ai popoli oppressi,
progresso ai popoli arretrati,
ai popoli barbari la cultura.

Sotto il tuo scudo guariscono le lance ferite
da frecce ed onagri; i marinai ti guardano
benevoli, sfilando lungo le vie del mare.
I soldati chiudono nei loro depositi ampi
i dardi e le balestre violente;
lungo le strade, le tue vene imponenti,
riprendono a scorrere carovane di messi.

A gran voce gli abitanti di un unico tetto
si stringono attorno al loro Imperatore: fa, o Illustrissima,
che la sua risolutezza non possa mai vacillare
e la sfera di Atlante saldamente regga,
e mai più incandescente diventi l’asse del cielo:
voli lieta l’Aurora dalle dita di rosa
e insieme a Rugiada precedano il carro di Apollo!

Possa il tuo respiro essere ispirazione di pace
sotto lo sguardo di un padre benevolo, e il suo sorriso
sorgere in Oriente e in Occidente tramontare mai.
Nelle taverne più remote si brindi con i vini migliori,
senza mescerli con limpida acqua, all’ebbra serenità;
nelle campagne i militi dalle membra stanche
possano essere accolti dagli abbracci assedianti,
e lacrime di madre, di stirpe valorosa, e di fanciulla
fecondino il suolo con nuove e più genuine primizie.

Le porte ora si tengano spalancate: nessuno
dovremo più temere e grandi peana
siano fischiettati per i fori, per le vie,
sotto i portici, nelle piazze grandi, sotto gli archi
della vittoria finale su Tristitia folle;
siano osannati davanti ai flamini e alle buccine;
siano innalzati al tuo passaggio trionfale.

Tellus ti accoglie con cornucopie di cibo e metalli,
e sui seggi dei senatori torni a regnare, o Concordia.
Ade, deluso ma compiaciuto, prende le ferie;
ravviva invece, Vesta, il fuoco inestinguibile di Prometeo:
Giove ci deve vedere dalla reggia del cielo
e fino al palazzo di Nettuno le Nereidi udire.
Il Vendicatore Marte, sazio, può considerarsi fiero
e di noi soddisfatto: infatti ci sorride,
così come Vittoria Iride in segno di trionfo
libra le sue ali candide ed imponenti.

Finalmente chiuse le porte di Giano Bifronte
possa tu, Augustissimo, riposta la spada, gridare:

                                          “PACE!”



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