SILLOGE PER L’INGRESSO AD UN CIRCOLO
AUGUSTEO
Silloge fresca, carnale, di erotico prurito pagano, di
forte identità classicheggiante che fa del suo velluto formale un’alcova in cui
riposano messaggi di epigrammatico stampo; il poeta, affidando la sua urgenza
emotiva a grandi interpreti della letteratura greco-latina, rivela nervature di
elevata nozione culturale; e al contempo piega la storia al suo ontologico modo
di esistere, facendo un’operazione di scavo e di attualizzazione di vicende inusuali. Tutto un mondo che a
prima vista sembrerebbe passato alla storia, inattuale, se riferito ad una
poetica odierna che fa della poesia una rivisitazione della realtà sociale; di
sentimenti che escono con visività dall’impatto del poeta-uomo col mondo che lo
circonda. Ma la grandezza di Leonardo Fasciana sta proprio in questo: nel
condire il piatto delle problematiche esistenziali con una salsa fresca e di
moderna scuola culinaria, valida per sempre, accompagnandola con un chianti che
trae la sua forza da radici lontane. Il
linguaggio stesso dà corpo alle impennate emozionali servendosi di una
verbalità strettamente adeguata al
contesto. Arguzia e creatività, preparazione e forza lirica fanno di questo
canto un modello di ardua innovazione e consolidamento, visto che oggi si
scrive ignorando le matrici del “poema”.
Figure di età storica tornano vive e loquaci a dirci quanto la poesia
non abbia vincoli di tempo quando il messaggio è fresco e universale; umano e
duraturo: guerra, pace, amore, vita, amicizia, cultura, le questioni
dell’esistere, rapporto con l’aldilà
Nazario Pardini
DAL TESTO
FORUM
Se vaghi senza meta per il
Foro, caro Leuco,
non immedesimarti nei fianchi
o nelle cosce ben strette
dalle mani di Amore; non
scaldare la pece
che dai fragili calderoni di
bronzo
dilagheresti rovente in tutto
il petto;
non sacrificare sugli altari
di Rovina le ossa
dei corvi e le interiora di un
tenero agnellino.
Non è ancora tempo di maturare
tali pensieri.
Osservali bene, osserva i loro
sorrisi schiudersi
dopo il piacere di un bacio
che viene ricambiato.
Prendi nota di tutto ciò che
vieni a sapere di loro,
i regali, le cene, le
passeggiate che non rendono conto
al Tempo che tiranno si
genuflette davanti all’Amore.
Non renderti preda ancora
dell’Invidia della quale
sei il suo migliore sacerdote:
siamo giovani,
caro Leuco. Spera nel meglio,
per te, per loro,
soprattutto quando – massimo
due anni – le schiene
saranno chine dal dolore e i
volti avranno i solchi
delle lacrime roventi.
Assistili, cullali nella sconfitta.
Allora sì che potremo battere
la terra alla danza dei Salii
allora sì che siederemo alti
sui nostri troni immoti,
mentre tutti vedranno la
nostra fronte ascendere
alle stelle fulgenti.
PAX
AUGUSTEA - Oἰκουμένη
Madre del Mondo, ambizione dei
soldati e degli imperatori,
fulgida Ecumene, sotto le
bianche fiaccole del cielo
unisci i popoli sotto un’unica
egida, e con un’unica tavola
di leggi promulgate da te, o
Statore, bronzea e inossidabile,
porti costituzione ai popoli
oppressi,
progresso ai popoli arretrati,
ai popoli barbari la cultura.
Sotto il tuo scudo guariscono
le lance ferite
da frecce ed onagri; i marinai
ti guardano
benevoli, sfilando lungo le
vie del mare.
I soldati chiudono nei loro
depositi ampi
i dardi e le balestre
violente;
lungo le strade, le tue vene
imponenti,
riprendono a scorrere carovane
di messi.
A gran voce gli abitanti di un
unico tetto
si stringono attorno al loro
Imperatore: fa, o Illustrissima,
che la sua risolutezza non possa
mai vacillare
e la sfera di Atlante
saldamente regga,
e mai più incandescente
diventi l’asse del cielo:
voli lieta l’Aurora dalle dita
di rosa
e insieme a Rugiada precedano
il carro di Apollo!
Possa il tuo respiro essere
ispirazione di pace
sotto lo sguardo di un padre
benevolo, e il suo sorriso
sorgere in Oriente e in
Occidente tramontare mai.
Nelle taverne più remote si
brindi con i vini migliori,
senza mescerli con limpida
acqua, all’ebbra serenità;
nelle campagne i militi dalle
membra stanche
possano essere accolti dagli
abbracci assedianti,
e lacrime di madre, di stirpe
valorosa, e di fanciulla
fecondino il suolo con nuove e
più genuine primizie.
Le porte ora si tengano
spalancate: nessuno
dovremo più temere e grandi
peana
siano fischiettati per i fori,
per le vie,
sotto i portici, nelle piazze
grandi, sotto gli archi
della vittoria finale su
Tristitia folle;
siano osannati davanti ai
flamini e alle buccine;
siano innalzati al tuo
passaggio trionfale.
Tellus ti accoglie con
cornucopie di cibo e metalli,
e sui seggi dei senatori torni
a regnare, o Concordia.
Ade, deluso ma compiaciuto,
prende le ferie;
ravviva invece, Vesta, il
fuoco inestinguibile di Prometeo:
Giove ci deve vedere dalla
reggia del cielo
e fino al palazzo di Nettuno
le Nereidi udire.
Il Vendicatore Marte, sazio,
può considerarsi fiero
e di noi soddisfatto: infatti
ci sorride,
così come Vittoria Iride in
segno di trionfo
libra le sue ali candide ed
imponenti.
Finalmente chiuse le porte di
Giano Bifronte
possa tu, Augustissimo, riposta
la spada, gridare:
“PACE!”
Leonardo
Fasciana
SILLOGE PER L’INGRESSO AD UN CIRCOLO AUGUSTEO
INDICE
1. Ramo di Alloro
2. Forum
3. Propaganda al
nemico
4. Giulia –
Frammento greco
5. La Sacerdotessa
di Giove
6. Verginità
7. (Ode) Fluviale
– Afrodite Cnidia
8. Sorgente
9. Lettera a
Tibullo – I
10. Lettera a
Tibullo – II
11. Lettera a
Tibullo – IV
12. Lettera a
Tibullo – VIII
13. Lettera a
Tibullo – XII
14. Lettera a
Tibullo – XVII
15. Pax Augustea
BREVE SINOSSI
Questa silloge è
stata adattata per questo concorso in cui ho unito le mie poesie migliori che
ruotino intorno alla “classicità”, sia in senso letterario, sia sotto il
profilo degli autori stessi. La prima poesia è dedicata a Gaio Clinio Mecenate,
al quale mi presento e allo stesso tempo manifesto il progetto di riportare in
auge la poesia classica. Le due poesie successive invece sono dedicate ad
Orazio quale eccellenza della poesia gnomica (Forum) e rivalutatore ottimo
della poesia lirica greca (giambica, Propaganda al nemico). Il Frammento greco
invece è un esperimento artistico sia a livello poetico che grafico, in cui la
frammentarietà di un ricordo si intreccia con quella lasciata dai frammenti
greci dai quali non è possibile ricostruire la poesia originaria. La poesia
seguente (Sacerdotessa di Giove) ha un nucleo autobiografico, tra il giambico
ed il semi-mitologico: la nuova relazione dell’ex amata, la cui identità e
quella del nuovo compagno (Umberto significa illustre guerriero) vengono
idealizzate e allo stesso tempo superate dall’orgoglio dell’io lirico in quanto
si sente “Imperatore di sé stesso”, concetto che pur partendo dall’autarkeia
la supera. Sempre dedicata ad Orazio è anche “Verginità”, la quale si ricollega
antiteticamente al frammento 114 V. di Saffo: “Verginità, Verginità, mi
abbandoni: dove te ne vai?/ Non verrò più da te, non verrò più”
(G.Burzacchini). La settima ed ottava poesia sono dedicate invece ad Ovidio
quale maestro dell’erudizione mitologica e della poesia prosastica. Sorgente
invece merita una piccola menzione siccome il nucleo è ovidiano (con un tocco
dannunziano) nel quale si unisce un concetto meno classico e più personale come
la putrefazione dei sentimenti, mostrati in una chiave che si ricollega al
massimo della tragicità classica, il coro greco, nonché una piccola nota
scenografica a fine poesia. Gran parte della silloge invece è dedicata a
Tibullo, proposto nell’ottica di un grande amico e confidente all’interno del
circolo letterario (per questo il titolo della silloge è generico, non
specifico al solo Mecenate). In quanto confidente vengono manifestati gli
affanni di uno scrittore ed in particolar modo della “maledizione” che lo colpisce,
ovvero lo scrivere degli amori altrui e renderli immortali anziché vivere i
propri in quanto assenti; il rapporto tra l’eternità delle proprie opere [Exegi
monumentum aere perennius, Orazio, Odi, III, 30] e delle esperienze terrene
la caducità e l’oblio; l’intrecciarsi maledetto ed infelice delle proprie
esperienze amorose che avvelenano il poeta siccome illusorie e non ricambiate
(Lettera a Tibullo – XII); la metapoesia attorno alla lettura di un carme, alla
sua comprensione ed efficace interiorizzazione (Lettera a Tibullo – XVII).
La chiusa della
silloge invece, partendo dal Carmen Saeculare oraziano, è dedicata alla Pace
Augustea personificata in Ecumene, ovvero Dea del mondo civilizzato, che è la
chiave di volta dell’armonia di tutti i popoli, del multiculturalismo e
cosmopolitismo, nella quale si incarna la figura dell’Imperatore Augusto che,
come disse nelle sue Res Gestae: “Il tempio di Giano Quirino […] sotto il
mio principato per tre volte il senato decretò che dovesse essere chiuso”.
La chiusura celebrativa di Augusto non è solo da vedersi nell’ottica di una
mera poesia cortigiana e filoaugustea, ma come lode sincera e viva alla Pace
per mezzo di Augusto, sotto il cui principato è stata resa possibile la nascita
di uno dei periodi più prosperi della letteratura occidentale.
RAMO DI ALLORO
Una pianta di alloro è sorta,
o Mecenate,
nel giardino della mia dimora;
Polimnia
deve averne gettato il seme
come dono
in una notte in cui ancora
sgambettavo nella culla.
Dunque per tutti questi anni questa
pianta
è cresciuta sotto
l’indifferenza delle genti;
solo ora che si erge retta e
fanciulla
io fanciullo la ammiro.
Al tendere del vento parve che
sibilasse versi
agresti e, specchiandomi nelle
sue foglie,
mostrasse le fredde selve
d’Iperborea
e del Campidoglio il radioso
Sol.
Allora un ramo separai dal
tronco
e di questo mi cinsi le
tempie. Subito allora
le Muse si presentarono
leggiadre,
implorandomi di cantare.
Pregavano di raccogliere sotto
l’alloro
apollineo le opere della terra
di Liguria;
attorno all’Impero ricostruire
l’egida di Atena,
signora dei giusti pensieri.
Lei stessa mi mostrò la lancia
dorata
e d’onagro la sfera sulla
quale ti affacci
al mondo, o Vittoria. Quindi
la tenacia
e il Buongoverno mi chiedesti
di cantare.
Sono dunque l’ultimo buccinator
dei Romani, o Mecenate,
ma dopo di me non più
l’ultimo.
FORUM
Se vaghi senza meta per il
Foro, caro Leuco,
non immedesimarti nei fianchi
o nelle cosce ben strette
dalle mani di Amore; non
scaldare la pece
che dai fragili calderoni di
bronzo
dilagheresti rovente in tutto
il petto;
non sacrificare sugli altari
di Rovina le ossa
dei corvi e le interiora di un
tenero agnellino.
Non è ancora tempo di maturare
tali pensieri.
Osservali bene, osserva i loro
sorrisi schiudersi
dopo il piacere di un bacio
che viene ricambiato.
Prendi nota di tutto ciò che
vieni a sapere di loro,
i regali, le cene, le
passeggiate che non rendono conto
al Tempo che tiranno si genuflette
davanti all’Amore.
Non renderti preda ancora
dell’Invidia della quale
sei il suo migliore sacerdote:
siamo giovani,
caro Leuco. Spera nel meglio,
per te, per loro,
soprattutto quando – massimo
due anni – le schiene
saranno chine dal dolore e i volti
avranno i solchi
delle lacrime roventi.
Assistili, cullali nella sconfitta.
Allora sì che potremo battere
la terra alla danza dei Salii
allora sì che siederemo alti
sui nostri troni immoti,
mentre tutti vedranno la
nostra fronte ascendere
alle stelle fulgenti.
PROPAGANDA AL NEMICO
Preferisco ingigantire il mio
nemico
che gonfiare me stesso.
Scelgo di raddoppiare le
insegne e gli stendardi
che le sue truppe muovevano
contro di me.
Insisto sull’affermare che la
sua fanteria
era davvero tenace e combatteva
arditamente,
mentre la cavalleria mi
fiancheggiava, logorandomi;
per non parlare di quella
artiglieria dall’alto
della collina che sputava
munizioni fatali
da bocche forgiate da Efesto
in persona.
E lo stratega in capo
all’esercito sarà esente
da tali lodi? Di quali ingegni
marziali faceva novero
nella sua mente, e con che
rapidità e sicurezza
disponeva i soldati per il
campo di battaglia!
Preferisco rendere invincibile
il mio avversario,
perché quando la battaglia
sarà conclusa,
io, invitto, lo avrò
vinto.
GIULIA – Tratto da un
frammento greco ritrovato
“quel labbro cadente e
carnoso, preda
di diversi morsi”
“e lo schiudersi delle gambe
quando allora il Sole si
schiudeva
in dolci amplessi”
LA SACERDOTESSA DI GIOVE
Ora è tutto finito, cara
Giulia;
un’altra persona ti cingerà le
braccia;
sotto il suo tetto troverai
riposo
lontano dagli auspici di
Apollo.
Amore ha posto la sua
ghirlanda
sul frontone del nuovo talamo;
sotto il vischio massaggerà
con caldi unguenti le natiche
di Psiche.
Farai una gara con Eco, cara
Giulia.
Qual clamore riecheggerà più
forte
tra le rocche della mia
memoria?
le elegie di Tristia o di
Erato la passione?
Dall’alto dell’eremo, a capo
chino,
indosso un manto di stelle
fulgenti,
proteggendo chiuso nel petto
una fresca ferita aperta.
Con unguenti dell’oblio
svaniranno
nel vapore i soliti germi, ma
lo squarcio
si trasforma sempre in una
purulenta piaga.
Questi versi forse saranno
panacea divina.
Nuove fibre si riorganizzano
attorno ai muscoli
oltraggiati. L’acqua lustrale
ha lavato via
il sangue rappreso e una nuova
lancia
forgiata da Efesto splende
nella mano del Doriforo.
A schiena ritta osservo la
valle svelarsi sotto di me
illuminata dalle piccole
fiaccole presso l’uscio delle case.
“Se una sacerdotessa di Giove
appartiene ad un illustre
guerriero, mi
chiedo cosa spetti agli imperatori”.
VERGINITA’
Verginità, Verginità,
ma perché non te ne vai?
La stagione degli amori va
concludendo
e ancora avvolgi affettuosamente
il mio braccio.
Io cerco di mandarti via, ma
ancora
ti accoccoli tutta intorno a
me.
Così rimangono ovattati gli
orgasmi che sento
all’orizzonte, orizzonte che
non posso raggiungere
se tu mi blocchi il passo. Non
è una cosa
che fai con violenza, ma più
cerco di allontanarmi
più sono stretto a te. Sì, ma
ora levati!
E’ giunto anche per me il
momento del corpo,
dei nudi silenzi e dei
pomeriggi oziosi.
I peccaminosi sguardi e le
audaci proposte
mi attendono seguiti dai
ferini movimenti.
Le mie membra chiedono di
folleggiare
come Coribante tra le
Baccanti, e adesso
giacere languido nella notte
tra le carezze
di Psiche. Voglio stemperare
la mia furia
negli amplessi di Afrodite che
tutto quieta
con il suo dolce canto. Dai,
dai! Ora basta!
[Lunga pausa]
Scusami, non meriti un
trattamento simile.
Quanto siamo stati bene
insieme, non è vero?
L’età dell’innocenza e dei
sorrisi sinceri
ho condiviso con te finché i
miei boccoli
smisero di crescere nella
lieta estate della vita,
finché la barba non mi
crescesse dal viso
alle porte della primavera
efeba. Adesso
Cipride mi chiama dal talamo,
voluttuosa
pregandomi di alternare i
vivaci coi languidi ozi.
E tremando la raggiungerò a
passi incerti
nella celebrazione della Vita
che tu allevi
nei teneri bambini. Ma non
molto tardi dovrai
lasciarli andare perché il
trionfo della dea,
di cui tu sei prima
sacerdotessa, sia completo.
Io non ti dimenticherò; io
sempre volgerò
lo sguardo alla purezza, tua
orma sugli uomini,
che vedrò sul volto dei miei
figli, quando
le fiaccole nuziali
splenderanno del bagliore
più forte, ed io ricorderò i
nostri tempi trascorsi.
Ma ognuno in cuor suo, con
toni dolci, deve
ottenere la tua comprensione.
Madre apprensiva,
tu accoglierai la mia
richiesta e con grande rispetto
mi lascerai andare. Non
temere, presto ci rivedremo,
all’estate dei tuoi nipoti.
Da
queste parole
con una carezza sul viso
sincero ti avrò congedato,
e il tuo corpo si
scioglierà come cera.
FLUVIALE – AFRODITE CNIDIA
Qui tra i muschiati
effluvi e la frescura
umida godrai di una divina
visione.
Tra le liete rive di questo
laghetto
alle prime luci dell’Aurora,
un coro
di ancelle assiste Venere,
loro signora,
al bagno purificatore, dopo
aver condiviso
la fulgente notte tra il
talamo e di Marte il petto.
Qui Cipride è solita trovare
ristoro dalle fatiche,
lontana da occhi indiscreti,
lontana dalle passioni
che la travolgono durante il
giorno.
Su un grande sasso cadono
scivolando sul muschio
i panni di Afrodite, sciolti
da un dorato fermaglio.
E maestosa appare: le cerulee
vene percorrono
sinuose appena sotto la
marmorea pelle,
i piedi aggraziati e le belle
natiche,
e davanti il morbido ventre
poi i rotondi seni
verso il collo ben tornito e i
capelli raccolti.
Attorno a lei si raccolgono le
ancelle e versano
sul suo corpo un vaso di puro
nardo e un altro
da cui lento versa l’eleomèle.
Dunque si immerge
nel lago di glicine e al
piacere si abbandona.
– Ma tradito si fa il
nascondiglio di Atteone
nel fragore di un ramoscello
secco spezzato
all’arretrarsi del piede
ammaliato. Di scatto
Afrodite emerse dall’acqua
cercando pudico
rifugio presso le vesti; ma
tale fretta bastò
all’ammiratore di osservar la beltà
del suo ombelico
e il biondo pube. Estrema
memoria fu questa
per Atteone che correva nelle
profondità del bosco
fuggendo con balzi di cervo.
Il passo dell’uomo
si fece daino e quello dei
Molossi lo seguiva
lungo le pendici del Citerone.
– Alle ombre della sera
nel fiume di Gargafia
galleggiano separate le membra
dell’animale tra sanguinolenti
balsami. Allo stesso tempo
Venere stempera la
furia di Marte sul morbido giaciglio.
SORGENTE, ossia LA DISTOPIA DI
UN LIETO FINE
Pura e divina è l’acqua
che sgorga pulsante dalle
rocce;
ogni peccato tra le mani
sciacqua
e disseta le borracce.
O viaggiatore,
loda la fortuna di aver
trovato tale tesoro;
suvvia purificati, peccatore,
allietato da ninfe, un coro.
La più bella tra queste,
sì, proprio lei,
si sta immergendo con te,
creatura di una scaglia degli
dèi.
Capel rossi e biondi,
lungi da noi
il pensier di toccare l’ombra
di eroi
che hanno sfiorato i seni
rotondi,
che hanno lambito la sua pelle
lattiginosa
e spostato la fulva ciocca
dietro l’orecchio,
dove la corona, bucolica, si
fa luminosa
e di ciò che vive ne è lo
specchio.
Fresca e saporita è l’aria
che scende dalle montagne,
piena
di odori dalla magnitudo
straordinaria,
che i polmoni ossigena.
Questa natura entra
prepotente,
cicatrizza di guerra le ferite
sopra un cuore di rose
inaridite,
ora, un campo di spine dal
ghiaccio fetente.
Sono putrefatti questi
sentimenti,
se chiudi gli occhi li senti:
urla di caduti che chiedono il
seno di una ninfa,
che chiedono un amore che
trionfa!
Dai cimiteri del cuore
soldati grigi afferrano l’aria
ferma,
ora serrati, i ranghi della legione
inferma,
marciano
spediti alla ricerca della panacea d’amore.
ad una
donna,
tanto
quanto prossimo
alla
speranza che inganna
che ti
prende,
ti
eleva,
ti
scarica,
ti
preleva,
delusioni
lastrica
e il
cuore una pietra ghiacciata rende.
Così
il nostro viaggiatore muore
tra le
braccia di Pegèa
vedendo
come estrema bellezza i suoi occhi,
occhi
pieni di dolcezza e amore,
restituendo
il corpo alla madre Gea
dopo
aver aspettato troppi lamenti d’amore, i rintocchi.
[Escono tutti tranne il viaggiatore, galleggiante e prono]
LETTERA A TIBULLO – I
Stringere il seno di un
cuscino, caro Albio,
questo mi resta, e la speranza
sempre più
grande e vuota che schiaccia
gli umori
ai confini del petto nudo, a
cui morte,
– ma quali venti propizi – sembra volgere pudico.
Che sia questo, il gran voto
di castità
che i narratori fanno perché
le storie
loro possano sconfiggere il
ruotare sfrenato
delle stagioni? Che sia
questa, l’evirazione
delle nostre passioni, perché
passionali
narrassimo degli amori altrui
e sempre felici?
Vagavo per il Foro l’altro dì,
caro Albio,
e vidi gran fila di innamorati
baciarsi
contro i muri del porticato.
Io ero l’unico
che sguardo coperto non avea
dalla testa
di un’altra. Dunque le storie
di costoro
ho raccolto e appoggiato sulla
scrivania,
dopo aver levigato con pomice
che forse mai
toccherà la schiena del Canto
Supremo.
Quando, quando arriverà il
carme più alto
della nostra vita, che pare
votata all’etere,
un militare il cui fulgore
delle armature
viaggia oscurato dall’elmo di
Ade?
“Sarà dietro l’angolo”
– dissi dieci isolati fa.
LETTERA A TIBULLO – II
C’è una storia d’amore in ogni
piega
di lenzuola, caro Albio, e i
poeti
hanno le trapunte più
stropicciate,
in attesa della propria Musa
che al talamo tornerà a
rendere stirati
i cuori. Storie immaginarie,
storie della carne e della
mente,
audaci, a cui sempre Fortuna
pone l’ultima parola lieta.
E a noi cosa serba nel suo
progetto?
Noi sai quante volte avrei
voluto posare
gli allori sul mio scrittoio,
o lasciarli
in balia della corrente di un
fiume
dove l’airone si preoccuperà
di porgerli
ad un più meritato fanciullo,
che saprà
apprezzarne il rigoglio e gli
aurei frutti.
Ma fusi sono i rami attorno
alle vene
della mia testa,
condividendone la linfa,
e nella sinfonia della sera le
drupe luccicano
alla danza delle lucciole,
mostrandomi
l’arduo sentiero. Tenacia
immane Ella
ci prescrisse contro l’Odio e
l’Invidia, mentre
faceva vibrare della lama
suicida il sussurro.
Pur di non arretrare di un
passo, noi, Albio,
dovemmo piegarci allo strazio
che l’aquila
giulia infierì al nostro
martoriato corpo.
Come si può raddrizzare una
legge impari?
Più in alto pende sopra le
nostre teste,
più distorta e incline al
castigo sembra volgere,
ma ha lo stesso volto della
Grande Madre.
E superate le ferite rapaci e
dei veleni lenti
le ulcere, tutte quante le
Muse beltà d’animo
ci riconosceranno. E i
desideri logori
dalle delusioni e nello
sconforto sbiaditi,
quasi ad aver gettato le armi
e gli scudi,
verranno finalmente esauditi.
E le nostre storie
aggiungeranno al perpetuo
canto che Venere, Dea
superiore, intona
intorno alle lenzuola stese
e con lei Vita si accora.
LETTERA A TIBULLO – IV
Fortuna non smette mai di
stupirci
e di tessere storie che noi
poeti
siamo destinati a raccogliere,
meravigliandoci sempre della
cecità
che altri provano davanti ai
pomi di Melanione.
E’ materiale aureo per una
squisita
storia, e Ovidio ne è ghiotto
estimatore;
spero di non suscitare la sua
ira quando
su questi libelli avrò stilato
l’umore
dei mirti che crescono sulle
tempie stefanee.
Licinio a lungo desiderava la
mano
di Filena chiusa nel braccio
del possente
Tracio di Capua. Licinio
passava i giorni
a mantenere degli sforzi il
fronte compatto,
covando il desiderio nel cuore
che l’assedio
di quella mano si sfaldasse.
Ma la Sorte
ebbe un destino migliore per
il tenace Licinio
e venne ricompensato di un
amore duraturo,
forgiato nella lontananza e
nel dolce ardere.
E quando vennero i giochi del
secolo
fatale fu quello scontro per
il Tracio
il cui sangue giugulare si
mesceva
alla bava all’agonia alla
polvere ad altro sangue.
Filena lo pianse il giusto,
poi la sua memoria
svanì, arsa nel desiderio di
quel Licinio
che tanto aveva sperato la sua
mano.
Amore svelò tardi l’affetto
che aveva provato
lui per lei, e adesso lei si
strugge; il senso
di colpa la travolge, e nella
composta follia
cerca di stemperarlo cercando
mani vuote.
E la gente del Foro ora nota
la sorte
rovesciata che va
accompagnando
il suo volto triste; la gente
del Foro scommette
sulla loro unione felice,
scambiando
maliziosamente tra loro gli
sguardi.
Come si può sfuggire alla
tentazione
di partecipare ad una giocata
simile;
come non si riesce a mirare la
perizia
di una storia così ben
costruita, e reale!
Tiche non smette mai di
stupirci;
tra le rive della sua fontana
ripeto l’aleatorio gesto che
nell’aria
immobile rovescia le facce del
sesterzio,
e nell’acque rigogliose completa l’omaggio.
LETTERA A TIBULLO – VIII –
SUSSURRI
Albio, non ho mai provato
emozione
più piacevole che quella
scaturita
da un sussurro, quel caldo
sussurro
che una notte la mia amata
porse
all’orecchio infondendomi
pace.
E tacquero le corde del cuore
e lo stomaco brontolante,
le fibre delle gambe e delle
braccia,
i turbinosi pensieri e delle
fronde
il moto oscuro; dormirono i
fatali
sospiri, gli ansiosi sgomenti
della morte
e le mesti realtà. Il sibilo
della voce
si confuse nella brezza
notturna
della campagna; una luna
argentea
splendeva nel pozzo placido
dalle acque immote. Al vento
rispose
il canto delle cicale. Tutto
si calma
al levarsi del suo sospiro.
Tutto tace;
rispondono solo le cicale.
LETTERA A TIBULLO – XII – LA PANCHINA
Accanto alla pianta d’alloro
vi è un ulivo secolare, Albio,
attorno al quale costruii
una panchina dello stesso
legno ligustre. Ha da sedere
almeno per due persone.
La consacrai ad Afrodite
Melanide
affinché una notte, e le notti
a venire, sotto i fiori
d’ulivo
avrei scambiato baci di
amanti.
Adesso, misero, giaccio
raggomitolato
sulla panchina, che ha da
sedere
almeno per due persone;
non mi muove il fruscio del
vento,
non mi muove il carezzevole
raggio
che mi saluta ogni giorno.
Lungo le orbite gli occhi sono
vacanti;
nel flettere la schiena avanti
e indietro
cerco consolazione; indietro e
avanti
un ritmo tenace mi mantiene
vivo.
Verme appestato, piagato,
strisciante
sul legno come il veleno lungo
le vene.
Sentimenti putrefatti esalano
pieni di rabbia e dolore,
d’amore
un tempo le grida ora astiose.
Membra e gote melliflue sono
prive
di qualsiasi pinguità;
Saturo di bitume cola
spontaneo
il sangue che nero sporca i
legni
candidissimi.
Perdona il mio sacrilegio,
o Venere! Sul fare della Sera
concedi il mio fiato
echeggiare
di poesia per tutta la valle!
LETTERA A TIBULLO – XVII – IL PESCATORE
Quando hai tra le mani un
carme, caro Albio,
tienilo come fa il pescatore
con un pesce pregiato.
Aprilo e fai scivolare il dito
lungo il taglio
per rivelarne le viscere; tra
le squame del libro
noterai le vene dei versi che
trasportano
attraverso la carne la linfa,
il succo della poesia.
Con mano ferma e coltello
accorto separa
la fibra dalle ossa e
contempla le profondità
adesso svelate ai tuoi occhi,
la freschezza
della parola, delle membra il
nitore.
Lascia la carne al palato del
volgo;
riserva per te le ossa, perché
questo spetta
a un dio, Albio, al Dio Lirico.
PAX
AUGUSTEA - Oἰκουμένη
Madre del Mondo, ambizione dei
soldati e degli imperatori,
fulgida Ecumene, sotto le
bianche fiaccole del cielo
unisci i popoli sotto un’unica
egida, e con un’unica tavola
di leggi promulgate da te, o
Statore, bronzea e inossidabile,
porti costituzione ai popoli
oppressi,
progresso ai popoli arretrati,
ai popoli barbari la cultura.
Sotto il tuo scudo guariscono
le lance ferite
da frecce ed onagri; i marinai
ti guardano
benevoli, sfilando lungo le
vie del mare.
I soldati chiudono nei loro
depositi ampi
i dardi e le balestre
violente;
lungo le strade, le tue vene
imponenti,
riprendono a scorrere carovane
di messi.
A gran voce gli abitanti di un
unico tetto
si stringono attorno al loro
Imperatore: fa, o Illustrissima,
che la sua risolutezza non
possa mai vacillare
e la sfera di Atlante
saldamente regga,
e mai più incandescente
diventi l’asse del cielo:
voli lieta l’Aurora dalle dita
di rosa
e insieme a Rugiada precedano
il carro di Apollo!
Possa il tuo respiro essere
ispirazione di pace
sotto lo sguardo di un padre
benevolo, e il suo sorriso
sorgere in Oriente e in Occidente
tramontare mai.
Nelle taverne più remote si
brindi con i vini migliori,
senza mescerli con limpida
acqua, all’ebbra serenità;
nelle campagne i militi dalle
membra stanche
possano essere accolti dagli
abbracci assedianti,
e lacrime di madre, di stirpe
valorosa, e di fanciulla
fecondino il suolo con nuove e
più genuine primizie.
Le porte ora si tengano
spalancate: nessuno
dovremo più temere e grandi
peana
siano fischiettati per i fori,
per le vie,
sotto i portici, nelle piazze
grandi, sotto gli archi
della vittoria finale su
Tristitia folle;
siano osannati davanti ai
flamini e alle buccine;
siano innalzati al tuo
passaggio trionfale.
Tellus ti accoglie con
cornucopie di cibo e metalli,
e sui seggi dei senatori torni
a regnare, o Concordia.
Ade, deluso ma compiaciuto,
prende le ferie;
ravviva invece, Vesta, il
fuoco inestinguibile di Prometeo:
Giove ci deve vedere dalla
reggia del cielo
e fino al palazzo di Nettuno
le Nereidi udire.
Il Vendicatore Marte, sazio,
può considerarsi fiero
e di noi soddisfatto: infatti
ci sorride,
così come Vittoria Iride in
segno di trionfo
Finalmente chiuse le porte di
Giano Bifronte
possa tu, Augustissimo,
riposta la spada, gridare:
“PACE!”
Lavoro immenso. Onore al critico e al poeta!
RispondiEliminaLuisa