IL COMUNE DI LARINO PREMIA
IL PROF.UMBERTO CERIO
IL PROF.UMBERTO CERIO
Umberto Cerio, collaboratore di Lèucade |
IL TESTO DELL’ENCOMIO
COMUNE DI
LARINO
CONCESSIONE DI
ENCOMIO
Il
Sindaco di Larino, ritenendo di interpretare i desideri e i sentimenti della
cittadinanza, segnala al pubblico riconoscimento attraverso la concessione di
un
ENCOMIO CIVICO
il professor Umberto Cerio, per i grandi meriti acquisiti in una vita dedicata
al lavoro, agli impegni sociali, all’arte poetica ed alla cultura in generale, per
aver onorato, quindi, l’intera comunità e, mostrandosi degno figlio della
nostra cittadina, per aver contribuito ad accrescerne il prestigio.
Il prof. Umberto Cerio è nato a Larino
ed alla sua città ha dato il meglio di sé, identificandosi sempre come figlio
devoto, sollecito a salvaguardarne l’immagine e l’importanza storico-sociale
con l’impegno di tutta una vita spesa non soltanto nella meritoria e
lusinghiera attività professionale, ma anche per la risoluzione dei problemi
sociali della sua terra, con un’intensa attività politica che lo ha portato più
volte a ricoprire ruoli di notevole rilevanza istituzionale.
L’attività didattica che lo ha visto
educatore di numerose generazioni studentesche e maestro di vita, si è avvalorata
per la sua particolare attenzione ai problemi contingenti della realtà
contemporanea, per la risoluzione dei quali si è notevolmente prodigato con un
impegno serio e nobilmente altruista per tutto l’arco della sua vita.
Costantemente attento ai problemi dei più deboli, sensibile interprete delle
istanze sociali, coerentemente impegnato in attività politiche tese al riscatto
di una terra generosa, ma penalizzata da una situazione di secolare
marginalità, con la conseguenza del doloroso, progressivo ed inarrestabile
abbandono dei suoi figli, ha saputo coniugare sempre e dovunque il notevole
apporto del poliedrico bagaglio culturale con il fervore e la passione
dell’innovatore che fonda le sue proposte risolutive sul rigore della seria e
meditata coscienza politica.
La profonda e vasta cultura umanistica,
retaggio della sua formazione presso il locale Liceo Classico e corroborata
dalla laurea in Filosofia, si è arricchita ed oggettivata senz’altro nella speculativa
attenzione alle ragioni dello spirito umano, ma anche nella frequentazione
quotidiana della Collettività che lo circondava, che gli ha permesso di
misurarsi direttamente con i problemi contingenti dell’uomo di tutti i giorni.
La sua professionalità di Docente di Materie Letterarie gli ha consentito di
affinare l’analisi dello svolgimento storico della società con una sensibilità
particolarmente attenta alla crisi ed al dramma della civiltà contemporanea, e
questo gli ha permesso di cogliere con acume e perspicacia l’universalità dell’uomo
nello svolgimento della storia.
Dell’uomo del nostro tempo è diventato
il cantore, dei drammi del suo cuore ha analizzato le tante sfaccettature,
della profondità dello spirito umano ha saputo rendersi interprete, innalzando
un canto che, superando i limiti della realtà immanente, riesce a porre
l’umanità al centro di una poetica millenaria che, dal passato cerca il sostegno
e la lezione necessaria a superare lo sconforto, dalla forza degli antichi aedi
trae l’energia indispensabile a penetrare gli arcani del destino umano e
recuperare il retaggio degli insegnamenti dei nostri padri per affrontare, con avveduta
consapevolezza, il cammino della vita umana.
Dalla poesia classica e dal mito antico
ha tratto la sensibilità squisita che gli ha permesso di diventare il Vate
della contemporaneità, il novello Aedo che, con la nitidezza delle sue analisi
e la complessità del suo canto riesce a dare al nostro spirito moderno,
inquieto e smarrito, la maschia determinazione ad affrontare la vita a testa
alta, con lo sguardo impavido, con la saggezza che solamente la conoscenza dei
grandi personaggi della nostra mitologia riesce ad infondere in chi sa leggere,
con la dovuta attenzione, gli avvenimenti antichi, accostandosi umilmente alla
tragedia di quegli eroi che, con le loro vicende, sono diventati un faro
universale.
“So che il mio canto tonerà – a
smuovere macigni…. – a rendere mansueti
gli animali – a placare gli uomini selvaggi….” dice il
Nostro in una sua opera ed Il suo canto diventa catartico; il nostro poeta va,
infatti, alla ricerca di quelle risposte che la ragione non può dare ed il
ricorso al mito è il tentativo di aiutare ogni uomo ad incontrare se stesso per
“…sognare tutti i sogni segreti - della conoscenza e delle memorie…”
Il nostro concittadino si è fatto
cittadino del mondo, ergendosi a baluardo contro la paura dell’ignoto, intento
a fustigare la mediocrità degli atteggiamenti, nella consapevolezza che la
società degli umani ha bisogno di grandi esempi a cui rifarsi per riscattare la
propria dignità.
I numerosi ed importanti premi che le
sue opere hanno collezionato in tanti simposi letterari testimoniano la grande
ammirazione che il prof. Umberto Cerio ha suscitato in tanti qualificati
ambienti e permettono a tutti noi, suoi concittadini, di sentirci
orgogliosamente partecipi dei riconoscimenti e delle lodi che universalmente
gli vengono attribuiti, nonché della stima di cui meritatamente gode.
Larino, li 01 - VI - 2018 Il SINDACO di LARINO
Avv. Vincenzo Notararangelo
Larino, li 01 - VI - 2018 Il SINDACO di LARINO
Avv. Vincenzo Notararangelo
Di seguito il contributo di
Pardini
UMBERTO CERIO
IO, ORFEO - NEL
LABIRINTO -
Ho letto e riletto
scritti vari dell’amico fraterno
Umberto; tanti e tutti pubblicati o sull’isola di Lèucade o sul mio monumentale
saggio di oltre 700 pagine: Lettura di
testi di autori contemporanei. La
sua figura primeggia, in primis, perché è un grande artista, e poi perché
interpreta l’arte alla mia maniera: passione, memoriale, rivisitazione e
attualizzazione del mondo classico-mitologico, panismo, e soprattutto
utilizzazione dei simboli naturali per concretizzare gli input emotivi. E lui è
un maestro; un grande maestro e un altrettanto grande uomo. Quante telefonate
per dirci di poesia, di vita, di anni che scorrono come acqua cheta! Quello che
lo rende unico è la sua magnanimità, la
sua disponibilità a comprendere gli altri ad ascoltare e fare tesoro di ogni
rapporto umano. La sua poesia corre diretta, fluente, compatta, armoniosa, robusta,
schietta; fatta di versi reificanti amore, sacralità della vita, affetti, abbrivi in vertigini di
sinestetica-allusività; in classiche misure metaforiche; in urgenti cavalcate
che traggono linfa dai problemi spleenetici del vivere. Per non dire della
modernità verbale, della saggezza culturale nel trasferire emozioni in corpi
significanti suasivi. Mi piace riportare un mio scritto su una delle sue opere
a me più vicina; su una esperienza sua personale difficile che mi ha tenuto per
parecchio in ansia; si sa che non di rado la nostra vita subisce degli
sconquassi emotivi quando siamo legati fortemente, con animo schietto, alle
sorti di un vero amico; a vicende che ne possono compromettere la vita e che
lui, dopo una postuma decantazione, ha saputo, da par suo, convertire in un
poemetto di elevato spessore estetico con punte di straordinaria lucentezza
lirica; dove i personaggi si fanno vivi ed attuali con la loro complessità epigrammatica; con un
vissuto straboccante di pathos: Io, Orfeo –
nel labirinto–
E inseguivo
Euridice,
che ombra tra le ombre, si perdeva
fino a sparire in una nebbia ostile.
I miei passi, -e la flebile certezza-
sempre più arresi a vana speranza,
seppero vicino il precipizio
seppero vicino il precipizio
e l’angoscia della caduta
nell’improvviso spazio
del vuoto ignoto della coscienza.
Umberto Cerio si presenta sull’isola con
un nuovo poemetto strettamente legato ad una sua vicissitudine personale: un
intervento a cuore aperto. Un viaggio, quindi, un odeporico intento, un nostos
in cui il poeta va alla ricerca di sé, della luce, della vita in un momento di
assenza dell’organo degli organi: di quello che tiene i nostri abbrivi emotivi,
le nostre vertigini esistenziali, i nostri azzardi oltre la ragione, oltre
l’omologazione tesa ad azzerare quella spiritualità che ci fa umani, soggetti a
cadere nel regno degli inferi, nel regno buio delle tenebre, fra le rocce che
squarciano la carne:
Ma io precipito, cado nel vuoto
nero, sbattendo sulle dure rocce.
Sanguina il mio corpo, sanguina
il mio cuore e lascia lunghe le tracce
del suo dolore oscuro
e il petto mi si squarcia, dilaniato
dalle lame feroci delle rocce.
Un vuoto fra la vita e la morte, in cui
l’anima tiene sempre impresso il volto dei giorni felici:
Dove sono le stelle
e gli occhi della mia donna in amore
dopo il fragore del crollo
che improvviso portò buio e silenzio?
Un metaforico allungo pieno di
significanza ontologica. Ma nel viaggio c’è un’isola in cui approdiamo prima
del porto finale; quella del rifornimento, del rimessaggio, quella di un
bilancio momentaneo, dell’aggiornamento della carta nautica; è lì che facciamo
il punto della situazione: riflettiamo, ripeschiamo le memorie, riviviamo i
rischi e le difficoltà incontrati fino ad allora, e aspiriamo, sì, aspiriamo a
raggiungere la meta; ci organizziamo, rinvigorendo le forze; cercando energie
nuove nascoste dentro di noi per la risalita; per il canto di un nuovo Orfeo:
Pietra dopo pietra e ombra dopo
ombra cerco la luce.
So che il mio canto tonerà
a smuovere macigni
a scuotere gli alberi dei boschi
a rendere mansueti gli animali
a placare gli uomini selvaggi.
Il canto mi renderà Euridice
e ci riporterà al Sole
e questa cava testuggine
che sempre offre suoni così dolci
renderà più bello il mio canto
quando risplenderà a me vicina.
Si fanno vive, corpose, e tracimanti le
memorie; il loro serbatoio contiene le immagini di un lungo cammino:
Le notti passate col fremito
della mia dolce Euridice?
Ed è così che focalizziamo il
punto d’arrivo; la meta dettata da una mente rinvigorita, trovatasi sola senza
il compagno della vita. È qui, durante le quattro ore in cui il poeta si
sfronta con la morte, quando tutto è in mano di coloro che in camice
bianco giocano sul suo esistere, proprio in questa fase, si conferma la natura
poetica del nostro; si fa più potente, più visiva; i personaggi intervengono
con più virulenza; appaiono più significanti nel loro ruolo:
Era vero ciò che il mio canto
otteneva, oppure era inganno
di Persefone il turbamento
e lo sguardo incredulo di Ade
per noi che tornavamo alla luce
e alla vita del mondo superno?
Ecco la mitopoietica; quella che fa del
mito la rielaborazione della vita personale; la contestualizzazione di una
realtà a volte crudele, a volte feconda. Tutto si fa simbolo, estremamente
dialettico e plurale, poeticamente affabulante. L’amore ideale sembra vincere
su thanatos; si incarna in Euridice, sogno, vita, luce, rinascita; la
navigazione vede il faro dell’isola agognata. Il viaggio si completa. Appare la
sagoma della foce; si torna al reale. Il risveglio è il sublime. Una voce:
“Tutto bene”. E accanto la moglie che, come la luce del vero, del bene, e del
sacro, forse piangente e tesa per i rischi corsi dal suo navigante, l'abbraccia
risalito ai lampi del giorno:
Euridice era lì. Io tornavo.
Alla forza del fremito di vita
che impazzito tempestava la linfa
che aspettava il tumulto vitale,
l’esplosione improvvisa della luce.
E il sangue di nuovo
premeva nelle vene e nel cuore.
Scomparvero le nottole urlando.
Tornarono i frutti della terra.
Grande poeta,
grande forgiatore di miti, ma soprattutto grande amico, fratello direi,
carissimo Umberto, ad maiora semper.
Nazario
Il contributo di
Balestriere.
UMBERTO CERIO
La poesia come
luce
Ho conosciuto Umberto Cerio il
20 ottobre 2013, in occasione della cerimonia di premiazione del concorso di
poesia “Città di Quarrata” nel quale
eravamo entrambi tra i vincitori. Prima di allora mi era noto solo di nome, come accade a chi
frequenta tale tipo di manifestazioni,
che hanno – se non altro – il grande merito di favorire contatti e
conoscenze tra poeti e scrittori. Però, mentre
questo primo approccio nella maggior parte dei casi si ferma a un livello
superficiale, nel nostro caso - mio e di Umberto, dico- si è trasformato in vera amicizia, alimentata
e cementata, oltre che da affinità
caratteriali, sociali, culturali, storico-geografiche ( Umberto mi ricorda
spesso che entrambi apparteniamo all’ex Regno delle due Sicilie) e da interessi comuni, anche da accadimenti e
vicende biografiche, liete o tristi. E ciò è accaduto, in particolare, perché
Umberto Cerio è persona di grande sensibilità e spessore umano, puro nei
sentimenti come tutti gli uomini dovrebbero essere, ma soprattutto i poeti.
Mi piace sottolineare che il
nostro festeggiato è stato egregio e
scrupoloso docente ed anche
amministratore e uomo politico onesto, accorto, generoso.
Per tutti questi motivi
Umberto Cerio è molto caro al mio cuore.
Ma ora voglio dirvi del poeta,
attraverso qualche passaggio critico, da
me redatto, che illustra gli elementi salienti del suo mondo creativo.
Sulla silloge
“La luce o del gioco delle memorie”
Emozionato
e partecipe, mi sono dato alla scoperta
dell’ultimo parto poetico di Umberto Cerio, “La luce”, con
sottotitolo “o del gioco delle memorie” (Edizioni ETS, Pisa
2016, pagg. 45 ) che integra ed espande, ma insieme definisce, un titolo
quasi fulminante nella sua brevità. Coinvolto già da tale intestazione,
vero e proprio ammicco al mio “Il sogno della luce”, ho immediatamente inteso
quest’opera del poeta molisano come un ulteriore amicale contributo a un
(bi)sogno di luce; e, a mano a mano che avanzavo tra i suoi versi pervasi dai
freschi profumi di una vita intensamente vissuta, sentivo che questa
aspirazione, o meglio esigenza, di luce ci accomunava e ci rendeva
ulteriormente fraterni e consonanti.
È proprio vero: rampolla
dall’immediatezza della vita reale, con il suo carico di gioie e di
dolori, la poesia di Umberto Cerio; proprio come il diamante emerge dalla cava
penombra della miniera. E tuttavia dalla realtà si affranca; se ne solleva,
depurandosi del torbido e delle scorie dell’hic et nunc e cercando una
dimensione spirituale dove più serenamente la riflessione si fonde con la
memoria, il pensiero con gli affetti, in una recuperata misura di saggezza, in
un perseguito desiderio di pace, in un cercato e realizzato equilibrio
creativo. È in questo spandersi nella vita, saggiandone e suggendone i
fermenti più intensi e talvolta inquietanti, per poi elevarsene, ma
portandosene echi e sentori e collocandoli nell’ atmosfera della memoria e del
canto, che risiede l’essenza artistica del nostro poeta. Che, qui,
canta la luce: scoperta, inseguita, afferrata, posseduta, perduta,
ritrovata, di nuovo persa. Ma sempre risorgente in quella continua corsa a
ostacoli che è la vita: “La luce che cercavo / è quella che ho trovato
mille volte”(La luce dove, vv. 1-2). Si tratta quindi di un attingimento
provvisorio, di un possesso mai perenne: come tutto ciò che appartiene alla
vita, come la vita stessa. E mi trova perfettamente d’accordo
l’affermazione con cui Nazario Pardini apre la sua ottima prefazione: “Verità,
vita che scorre, farfalla dolorosa, memoria; e luce. Una luce che ...
rappresenta l’aspirazione della condizione umana a quel fuoco che nutre i
colori ma che, al contempo, ne segna la fine”. Perché la luce e il buio come la
vita e la morte sono complementari, proprio come facce di una
stessa
medaglia.
Al lettore non disattento è del tutto
chiara la portata metaforica della luce: che a me pare incarnare soprattutto
una dimensione eletta, certo di sapienza, forse di appagamento contemplativo
che segue lo svelamento (“Portami preziosa la luce / che segna la nostra
esistenza, / che ci sveli l’ebbro canto dei giorni” Fragmenta animae,
vv. 16-18), un locus amoenus dell’anima; e, insieme, una condizione che
va oltre la terrenità e si colora di accenni metafisici con venature
metempsicotiche (“E un giorno forse sarò un gabbiano / o forse un airone / per
volare in cieli sconosciuti...” Gabbiano e airone, vv. 7-9). Quella del
gabbiano è una presenza fissa che entra, insieme al mare e all’abisso, in
quasi tutte le 26 liriche della silloge. Ed è figura in cui leggo il testardo
tentativo di superare gli ostacoli, la vivificante speranza, la pazienza del
vivere. Il gabbiano sorvola senza troppa fatica gli “abissi atroci” (La
clessidra, v. 17) per gli umani e il mare in tempesta, e riporta al
giusto metro l’immensità visiva di una piana marina, che potrebbe apparire
addirittura invalicabile. E soprattutto vede dal’alto: ciò potrebbe voler
significare, per il poeta, mantenere la giusta, saggia e quasi epicurea
distanza tra sé e le cose, per mantenere la loro influenza entro onesti
confini e per conservare serenità di vita e di giudizio.
E devo dire anche che ha il mito nel
cuore Umberto Cerio: un mito che si alimenta non di sterili fantasie, ma di
solida realtà, e quindi si riverbera e trova conferme nella nostra quotidianità
o da questa si diparte, fino a diventare archetipo della condizione umana di
sempre; un mito che trama fittamente la poesia del Nostro (che peraltro
testardamente è volto alla ricerca di analogie e di risposte per giungere alla
radice delle cose, cioè alla “luce” rivelatrice), rendendola ancora più
compatta e unitaria e che le dà colore e calore. Così il mito, qui,
ha sempre valore paradigmatico e, insieme, sintagmatico, giacché il poeta
intesse legami, e anzi costruisce ponti, tra l’antico e il moderno e
viceversa, ben consapevole dell’immutabilità della natura umana, che trova in
affetti e istinti i canali, i modi e le forme per manifestarsi;
sicché il mito abita, indifferentemente, nel passato e nel presente, vive
-in situazione di latenza- in tutti gli uomini. Potenzialmente tutti
possono incarnare un mito. In realtà solo chi ha consapevolezza di sé ne può
attivare la vita, in un processo di affinamento culturale e morale, in un
perseverato tentativo di migliorare se stesso e la società di cui fa parte.
Infine devo un ringraziamento
pubblico all’amico Umberto Cerio che ha voluto coinvolgermi -in modo chiaro o
velato- in ben tre componimenti di questa silloge, che si connota per
finissima sensibilità poetica e umana.
Sul poemetto Antigone
La
prima emozione viene al lettore dal linguaggio, soprattutto sotto il profilo
tonale: pacato, serio,intriso di pietas, segnato da echi e risonanze. Scolpito,
di tanto in tanto, da settenari che frenano e quasi dominano l’onda dei
sentimenti, la riducono entro i binari di una consapevolezza epico-tragica,
perfusa di un pathos assolutamente corale: perché tutto il testo riporta, in
fitto ideale dialogo, alla solennità dei cori delle tragedie greche, anche se
invero non vi sono barriere spazio-temporali per un personaggio come quello di
Antigone, drammaticamente solitario nel contesto in cui vive il suo doloroso
amore di figlia e sorella, e proprio per questo indiscutibilmente attuale e
proteso fino ai bordi di ogni epoca futura.
Qui in ogni verso si coglie la partecipe e sofferta
presenza dell’io poetante, che sceglie il registro del cuore profondo e vi
intinge la penna.
Sul
poemetto Medea
La poesia di Umberto Cerio si innerva nella classicità
e vi mette radici, seguendo la corsia di marcia che dalla realtà attuale giunge
fino al mito, cioè alla scaturigine della nostra civiltà e quasi della vita
stessa. Insomma, dal moderno all'antico, dove Cerio cerca -e ri/trova- gli
elementi essenziali e fondanti di una vicenda umana (come quella odierna) solo
apparentemente evoluta, di fatti ed eventi solo apparentemente contemporanei,
ma che invece stanno -immutabili- nella nostra condizione di esseri mortali. Il
poeta individua con sicurezza nei miti antichi i precedenti di ogni singola
avventura umana: anche per le Medee attuali che sacrificano gli affetti
sull'altare di una vendetta, di un'idea, di un'opinione,di un convincimento.
Aggiungerei che, ad indicare quanto certi sentimenti siano forti e perenni
nella natura umana, e quanto identici a se stessi, Cerio realizza uno scarto
verbale di grande potenza ed efficacia (dal passato remoto al presente) già
all'inizio del poemetto (“ Poi fuggisti ad Atene / sui cavalli alati, dono del
Sole./ Corinto, radice degli avi, / già ti era straniera, nemica feroce, / e
pensi alla vendetta... "). Con il passaggio al presente, la Medea del
mito, ben oltre ogni corredo antico ed epico che le è intorno, incarna già la
"Medea tradita di oggi". E il breve ritorno al tempo verbale del
passato remoto, verso la fine della prima parte del poemetto, non fa che
sancire tale situazione.
Conclusione
A Umberto Cerio, eccellente e illustre figlio di Larino, il mio
affettuoso abbraccio, un fervidissimo augurio di felice compleanno, con tanti complimenti per
il riconoscimento che in questa circostanza
un’attenta e lodevole Amministrazione
Comunale gli attribuisce. E che egli ha ben meritato per una vita di
serietà, di impegno, di dedizione agli altri, di poesia.
Ad maiora, amico mio!
E grazie al prof. Mario Moccia per avermi coinvolto in
questa festa.
Nel corso della serata, vivace e densa di spunti culturali, il prof.
Umberto Cerio è parso, a seconda dei momenti, visibilmente sorpreso, felice,
commosso, intervenendo, quando necessario,
per spiegare, chiarire,
puntualizzare; e ringraziando vivamente gli artefici dell’evento.
Mario Moccia
Approdato sulla nostra Lèucade, ho trovato i soliti mari profondi e voli di gabbiani nel nostro cielo terso e pieno di colpi di luce, e la sorpresa, graditissima, di quanto accaduto il primo giugno e su riportato con ampia dovizia di particolari, presso la biblioteca della mia città, con il conferimento di un Encomio civico della Amministrazione comunale di Larino. Inutile dire che quell'attestato di stima, accompagnato da contributi critici straordinari, vale, per me, più di un premio letterario. Pertanto, nel'ordine, voglio ringraziare tutti, da chi ha avuto scritti e parole di stima nei miei confronti a tutti i presenti che ho sentito vicini a quelli che su Face Book mi hanno dimostrato amicizia, a iniziare dal prof Mario Moccia al Sindaco di Larino, avv. V.Notarangelo insieme a tutta la civica Amministrazione. Infine, e ovviamente tutt'altro che ultimi,l'incomparabile contributo critico, sul alcune mie opere, di Nazario Pardini e di Pasquale Balestriere, che da pari loro, hanno "scritto" concetti e parole di lode (non so se interamente meritata).
RispondiEliminaGrazie veramente di cuore.
Umberto Cerio
Infinite congratulazioni per questo importantissimo riconoscimento che corona tutta una vita dedicata allo scrivere. Non è facile essere "propheta in patria" ma chi lo diventa può dire con orgoglio insieme a Orazio "Non omnis moriar".
RispondiEliminaCon l'augurio che questi ottanta anni non siano un punto di arrivo ma invece un punto di partenza per una stagione sempre più ricca di soddisfazioni.
Carla Baroni
Al mio caro amico Umberto che ho avuto l'onore di conoscerlo ed apprezzarlo qui su Leucade sia come persona che come artista/poeta il mio copioso e sincero augurio per questo meritatissimo riconoscimento a coronamento dei suoi 80 anni. Di Lui, sin dall'inizio, sono stato sempre attratto dalla sua proverbiale mitezza e silenziosità e per le sue poesie belle e vere che mi hanno sempre lasciato positivamente attonito per la loro spontanea espressività quale prerogativa propria e unica. Mi associo all'auguri della Baroni perchè questi 80 anni siano un nuovo punto di partenza per altre stagioni di successi letterari in uno a quello di buona salute. Pasqualino Cinnirella
RispondiEliminaRingrazio Carla Baroni e Pasqualino Cinnirella per le parole che mi hanno dedicato per il mio ....obiettivo di ottuagenario e per gli auguri per l'Encomio civile che l' Amministrazione comunale della mia città ha voluto dedicarmi. Per quanto riguarda, poi, la mia età prometto che scriverò ancora ed ancora. Grazie
RispondiEliminaUmberto Cerio