Adriana
Pedicini: Il fiume di Eraclito. Casa Editrice
Mnamon.
2015
Istantanee di vita
a fermare il tempo,
amore della vita
che lenta scivola nel
rimpianto,
timore della morte
e nessun rimedio per fermarla.
Crogiuolo di mille domande
sulle ali di una farfalla.
Partire
da questi versi dal sapore di vita, dalla visione di un tempo che scorre veloce
senza darci la possibilità di palpare il presente irrequieto e inafferrabile,
significa andare a fondo di una poesia complessa e inquietante. Di una
plaquette che tocca i tasti più dubbiosi del fatto di esistete e che mette in
campo i dati della realtà fenomenica e quelli di un ripiego escatologico di
grande complicanza esistenziale. Sta qui il polemos tra gli opposti eracliteo;
il pascaliano dissentire tra rien e tout.
Sì, c’è la vita con tutta la complessità dei suoi ricami: saudade,
mistero, nostos, melanconia, inquietudine, memoriale come fonte di amore, come
tuffo in profumi di acacie:
Dietro il lento oscillare delle acacie
sale la filigrana del ricordo
del lungo ramo
che sbatteva alla finestra
e tra i fiori acri sfiorito il volto
e immobile
lo sguardo.
Anche oggi
tra i passi lenti
di questa
primavera
solo si spande nell’aria
il profumo dolceamaro
delle acacie.
Ai cigli delle vie fuori città
sui terrapieni corrono,
nei giardini e nelle aiuole cittadine
i fiori bianchi fluttuano sgranandosi
al vento gelido di fine marzo
che ora come allora
asciugandole rapina le mie lacrime.
Di te
solo il profumo dolceamaro
delle acacie (Le acacie
di marzo)
Si nota fin dagli inizi il disagio della Nostra
di fronte al confronto tra l’esistere e l’infinitezza degli spazi che ci
circondano. È troppo umano questo esserci; troppo limitato, troppo precario:
Ho pianto il mio dolore
ho pianto la gioia
l’odio ho pianto
di quest’effimera vita.
Tutto sembra inutile
e il vivere sia fatto invano
in attesa del tempo senza tempo.
Eppure più forte è il desiderio
di questa precaria vita
come di assetato
che mai estingua alla fonte
nel cammino
la bramosia di lunghi sorsi,
di conservare sulle labbra
e in ogni fibra/della fresca estasi
il brio… (Vita)
ed
è per questo che allunghiamo sguardi in lontananze sperdute con la speranza di
trovarvi la soluzione ai tanti perché dei nostri irrisolti e irrisolvibili dilemmi. C’è in ognuno di noi il desiderio di fermare
la clessidra, di arrestarne l’ingordigia che fagocita le cose più preziose
della nostra terrenità. Forse è ricorrendo proprio ai ricordi o al sogno che si
cerca di riportare alla luce ciò che resta di questo sacro patrimonio nel
tentativo di prolungarne la storia:
A brace spenta
bruciano
le mani del sogno
caldo in cuore.
Neri rami s’elevano
sterile fumo
alla neve del cielo.
Di pioggia le nuvole
s’ammassano dense
segni fatali di sorte.
Pace o segno di
nero silenzio
questa assenza di voce, (Sogno)
nel
tentativo di placare il dolore delle sottrazioni, rifugiandoci in un’alcova di
volti rassicuranti, di primavere innocenti troppo presto sparite, chiedendo
collaborazione ad una natura profumata e umanizzata per configurare e dare
corpo a forti emozioni. D’altronde il nostro sguardo è limitato e incapace di
andare oltre gli orizzonti che ci limitano. E si rischia di sperderci in mondi
sovrumani, in ambiti d’infinita estensione per le nostre flebili forze; per noi
che viviamo l’”amore della vita/ che
lenta scivola nel rimpianto,/ timore della morte/ e nessun rimedio per
fermarla”. Thanatos e eros, vita e morte, speranza e rimpianto, rimpianto e
nostalgia per parole non dette, per cose non fatte, cosciente, la Nostra, della
precarietà dell’esistere e della sua definitiva ultimazione:
Scivola ancora
di nuovo
più fitta la pioggia
lungo i muri e le pozze riempie
porta suoni lontani di voci
sopite per sempre,
la nostalgia porta di una vita
che non è quella da vivere.
Sfilza le ore
e grava l’aria di cupi ricordi.
Tutte son morte le foglie
e la vita è un desiderio
strozzato nel cuore.
All’orizzonte
il nulla di questo giorno.
Sull’impiantito della mente
disegno il mio larario antico
e di ghirlanda adorno
il posto vuoto, (Nostalgia)
una
dualità, una contrapposizione di estremi la cui simbiotica fusione si fa
alimento della scioltezza eufonica del poema, i cui versi, combinandosi con
quelli che sono gli input vicissitudinali, si risolvono in brevi e apodittiche
soluzioni; in un linguismo che fa della metaforicità la base d’appoggio per
verticalità meditative; per confessioni di ontologica complessità emotiva. È
qui il nocciolo della substantia di questa poesia; sta tutto in una
versificazione stretta e monoverbale, anche, incisiva e redditizia, per il
valore etimo-fonico e comunicativo dei
significanti. La parola è sufficiente a se stessa, si fa unità morfosintattica
e risolutiva per un pensiero di intensità epigrammatica sul rapporto della
vicenda umana col tempo; tanto che, dal polimorfismo di accostamenti
inconsueti, emerge, con nettezza parenetica, che la vita è il tempo prestato
dalla morte. “La vita è
un naufragio, ma nelle scialuppe di salvataggio non dobbiamo dimenticare di
cantare” affermava Voltaire. Anche se illuminista, anche se della ragione
faceva il fulcro dei suoi convincimenti, in tale affermazione presagiva uno dei
motivi focali del primo ottocento: il mare; quell’immenso spazio che più si
avvicina al bisogno di libertà; ma di una libertà vaga, indeterminata di
memoria delacroisiana cercata inutilmente dai romantici, anch’essi còlti da
quel malum vitae che portava, spesso, a pessimismi o a melanconie congenite di
memoria leopardiana. Alfredo Panzini definì i Poeti “simili al faro del mare”:
quel faro che illumina una parte di un tutto sommerso dalla notte. È in quel
mare che si perde l’animo del Poeta incapace di andare oltre quella scia che
invita a più ampie navigazioni. Questo è tutto ciò che troviamo nella poesia
della Pedicini. Una poesia complessa che fa degli interrogativi esistenziali il
cuore del canto; un canto, che, con grande partitura musicale, e con urgente
partecipazione panica, ci prende per mano per inoltrarci, al fin fine, in
quelli che sono i valori della vita. Sì, perché porsi le tante questioni sulla
nostra venuta, non significa altro che amarla questa storia; esserne integrati
moralmente, civilmente ed esteticamente; esserne passionalmente avvinti tanto
da non dimenticare di cantare sulla scialuppa di salvataggio; perché, in
definitiva, sono proprio i dolori a farsi
gradini di una scala tramite cui ci eleviamo a cime spirituali le più
vicine all’inarrivabile “… E se
la costante della vita è, in definitiva, il dolore, in esso è anche il riscatto
della dignità umana, oltre che l'unico veicolo possibile della conoscenza (πάθει
μάθος). E, inoltre, esso predispone
ad una dimensione altra, dove il dolore è anche il veicolo per raggiungere
livelli spirituali alti, in cui la Fede e la preghiera risultano essere di
significativo impatto sull’animo umano che in tal modo “graziato” produrrà
positive energie con ricadute notevoli nella personale vicenda esistenziale”.
(Dalla prefazione dell’Autrice)
Quando il dolore
avrà macerato
le fibre del mio cuore
stilleranno i ricordi
in gocce di parole.
Nazario Pardini
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