Claudio Fiorentini, collaboratore di Lèucade |
Nel mondo della
cultura? No, sarebbe un'esagerazione. Diciamo: nel mondo della letteratura e
della poesia contemporanee… mmhhh, anche qui esagero… nel mondo degli
"scrittori" contemporanei, ecco, o nel mondo di quelli che si
dilettano a scrivere poesie, racconti, pensieri, romanzi… in quel mondo ci sono
anch'io… e sapete cosa penso? Che siamo un po' tutti cialtroni presuntuosi nel
momento in cui gongoliamo per le lodi dell'ammiratore di turno. O forse siamo
una banda di personaggi in cerca d'autore e, non trovandolo, ci
improvvisiamo poeti per presentarci al mondo con questa maschera. Modestia,
umiltà e mitezza sono doti che abbiamo perso quasi del tutto… per questo ho
deciso: faccio solo cose in cui credo e non mi spendo più per ottenere il mio
momento di gloria. Abbasso la vanità, al bando il narcisismo, basta con
qualsiasi tipo di adulazione o di ricerca della stessa… ciò che conta è la FEDE
nell'Opera, e l'Opera ha senso se scava dentro, più dentro del vomere. Alla
fine, se vale, l'Opera vivrà anche dopo di me e se non vale la scarterà la
storia… ma se dovesse servire solo per l'appagamento effimero che ricavo dal
credermi poeta, allora sarebbe opera di poco conto… Basta: ho scelto.
L'appagamento non mi interessa, ma la tempesta che mi devasta l'anima, quella
la voglio vivere fino in fondo! E ora lapidatemi pure, i poeti siete voi.
Claudio Fiorentini
Stupenda riflessione, caro Claudio. Si scrive per se stessi, per chiarire a se stessi il proprio mondo interiore. Tu parli del senso più autentico del comunicare. Lo scrittore in fondo se la canta e se la suona, nel senso che espone riflessioni, pensieri, idee, domande e risposte che sono prettamente personali. Non vuole fare la predica a nessuno, né far passare le cose che scrive per una verità assoluta, di fronte alla quale si devono tutti inchinare. Diffidiamo di chi dice di scrivere per gli altri. Chi glielo ha chiesto? Sono forse io a chiederti di scrivere per me? no. E allora tu scrivi per te stesso, l'esigenza di scrivere nasce da te ed io ti sono grato se mi dai il riflesso di questa tua ricchezza interiore. Me la devi dare di riflesso, però, non di proposito, altrimenti tu non lo fai per me, ma lo fai per salire sul piedistallo, per farti acclamare, per soddisfare il tuo narcisismo. Scrivere per sé, o per pochi, non è un fatto elitario, come potrebbe sembrare, ma un fatto estremamente rispettoso e democratico, perché lascia libero ciascuno di accettare o meno quanto comunicato, senza funambolismi pretestuosi o dialettici. Sta qui l'universalità dell'arte e della poesia. Quando ci si avvicina ad esse, i parametri dell'universalità si trasformano, perché esse non parlano a tutti, come un messaggio pubblicitario, ma al cuore di ognuno. Per il fruitore, poi, vale lo stesso argomento. L'ha detto Proust, ne Il tempo ritrovato: “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”. Gli fa eco Davide Rondoni, che ne Il fuoco della poesia scrive: "Quando si ascolta una poesia di Leopardi o di un vero poeta, non ci si commuove per la vita di lui, ma per la propria". Questo per dire che ciò che ci interessa realmente, attraverso la lettura, è di capire chi siamo noi, non colui che scrive. Le storie letterarie, come ogni vera storia in fondo, non la fanno i nomi celebri (quelli sono soltanto un mezzo), ma il fiume sconfinato e sommerso dell'anonima folla degli spiriti umani.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Claudio Fiorentini:persona seria. Punto. E lo dico con tutta serietà.
RispondiEliminaAggiungo una piccola insignificante osservazione: ti condivido.
Un saluto di simpatia.
Edda Conte.
Mi associo a questo pensiero di Edda Conte. Nel commento precedente ho dimenticato di dire che sono un grande estimatore di Claudio, di cui ho prefato e presentato in pubblico alcuni fondamentali lavori.
RispondiEliminaFranco Campegiani
RICEVO E PUBBLICO
RispondiEliminaRingrazio Franco ed Edda per i loro commenti, e ringrazio Nazario e Lèucade per l'approdo. Mi riaggancio a quanto egregiamente scritto da Franco per completare il mio pensiero.
Il poeta non deve ripetere la realtà, per questo già ci sono i giornalisti, ma evocare, ispirare nuovi pensieri, far vivere la realtà in modo inedito, scuotere… disturbare. Certo, percorrere strade già note concede più facilmente l'approvazione del lettore, ma è questo quello che cerchiamo? Sento spesso dire, anche ai corsi di scrittura, che si scrive per un pubblico; invece non è mai stato così, come giustamente dice Franco: il pubblico non ti ha chiesto di scrivere... Ma c'è chi lo fa, anche troppo spesso (vedi i temi abusati con le varie giornate celebrative che gli si dedicano) rischiando di diventare un giullare, e propone cose che il pubblico già sa. Ebbene sì, quando il pubblico è rassicurato da ciò che conosce approva l’opera. Troppo facile. Io dico NO, l'arte non è accomodante: bisogna proporre qualcosa che il pubblico non sa, bisogna che la sedia scotti sotto il sedere. Il primo a sorprendersi, o ad alzarsi di scatto dalla sedia, deve essere proprio l'autore. Scrivere (o fare arte) non è per nulla lusinghiero, ma per molti è necessario... E occorre tener presente che se il lettore, o il pubblico, dice "è vero, lo penso anch'io…", il risultato della comunicazione artistica è un totale fallimento, l'artista non ha fatto nulla di nuovo, viaggia nel mondo del prevedibile e, quindi, non ha adempiuto al compito assegnatogli dal suo dono. Se invece il pubblico dice "Oh, mamma, e adesso?" (questa sarebbe la migliore delle reazioni) oppure "Accidenti, non ci avevo pensato" oppure "Caspita, questa mi giunge nuova" allora il seme della comunicazione c'è stato, ed è allora che il lettore (o il fruitore in generale) trova quel pezzo di se stesso che lo cambia. Per questo credo che l'arte tutta, ma la poesia in special modo, sia fallimentare se non accompagnata da uno scavo interiore, da una ricerca della voce unica, archetipa, da quella voce che ci anima, riconducendo il moto poetico a una ricerca iniziatica (o addirittura trasformandolo quasi in una liturgia, in un esercizio spirituale) che non finisce mai e che non ha come scopo ottenere l'applauso del pubblico, ma capire l'Anima che ci portiamo dentro, e ubbidire ai suoi segnali. E infine, trovo giusto dire che ogni artista deve riconoscere che lavora per se stesso. L’Opera artistica (necessariamente al nero) è la ricerca di ciò che ancora non c'è ma che in qualche modo già è. Se l'artista ha come scopo piacere al pubblico, allora riconosca che il suo ruolo non si discosta da quello dell'intrattenitore o del decoratore. Ciò detto, esistono i fuoriclasse, quelli possono fare di tutto, e lì, tanto di cappello.
Claudio Fiorentini