Mostra di Renato Guttuso a
Varese
Maria Grazia Ferraris, collaboratrice di Lèucade |
Dal 19
maggio 2019 nei musei di Villa Mirabello
a Varese sarà aperta la mostra dedicata a R. Guttuso che presenterà 25
dipinti del Maestro. Tra queste, il celebre dipinto Spes contra spem,
1982, l’opera simbolo di Guttuso, uno degli ultimi capolavori che il Maestro
considerava una sorta di testamento.
Le
opere, organizzate in nove sezioni, vanno dalla Natura morta (Barattoli
1966, l’autoritratto 1975, per arrivare a Il sonno della ragione
genera mostri del 1980, dipinto in occasione della strage di Bologna). A Varese, nello studio di Velate, dove dipinse
anche la famosa Vucciria, Guttuso
ebbe modo di frequentare, tra gli altri, intellettuali come Guido Piovene,
Dante Isella, Piero Chiara, Angelo Frattini, Vittorio Tavernari…
Alla
realizzazione della mostra ha collaborato anche Fabio Carapezza Guttuso: nel
catalogo un suo significativo contributo con testimonianze inedite di una
realtà speciale, vissuta col Maestro, in prima persona. La mostra è stata
realizzata grazie alla collaborazione con la Fondazione Pellin: ventuno opere sono patrimonio della
Fondazione. Importante anche la collaborazione con l’Associazione Giovanni
Testori e con il FAI.
Velate
è il magnifico paese alle pendici del
Sacro Monte di Varese, dove il pittore soggiornerà a lungo a partire dagli anni
’50. Velate e villa Dotti sono i luoghi della moglie Mimise: con lei entra nell’immaginario di
Guttuso il paesaggio prealpino lombardo, il Varesotto che gli fu caro.
Velate e la sua torre di vedetta,
la valle nera, incisa ferita,
lo studio, la gran vetrata, remota,
là sotto ardenti e colorati tetti,
gomitoli di viuzze solitarie;
il Rosa lontano limpido nel tramonto
il lago bianco, un fiume ineguale,
sinfonie di colori, irte armonie,
i limoni di Sicilia lontani,
il mare turchino perso nel sogno.
Ricrei il Mediterraneo in terra
lombarda, ch’ami con toni accesi:
rossi tramonti, gialle atmosfere,
neri pini e cipressi, viola il cielo…
Silenzio e lavoro, amicizie certe
letture, conversari e dispute
dai tempi politici segnati…(M.G. F.)
Conosceva
bene anche la Milano degli anni Trenta. Divisa tra fascismo e antifascismo, era
tutta un pullulare di iniziative: Antonio Banfi e Anceschi, Treccani davano
vita a Corrente, cui Guttuso
partecipa con consapevolezza morale. Ricorderà in uno scritto più tardo:
«Corrente fu soprattutto un luogo di incontro e di scontri tra alcuni giovani
che avevano idee originali e anche il coraggio delle loro idee. Niente era
pacifico in Corrente…».
In una nota redazionale del numero del
dicembre 1939, la rivista chiarisce la natura della propria arte e la sua
tensione verso un nuovo “realismo”: «[il realismo], questo sì, era un problema
che soprattutto preoccupava noi giovani, perché condizione delle nostre
certezze spirituali era un libero esame di quella realtà che si andava creando
intorno a noi, “realtà” che noi dovevamo conquistare con le nostre forze per
sentirla veramente nostra, senza incertezze».
Nell’83
metterà mano al grande affresco della fuga
in Egitto alla terza cappella del Sacro Monte di Varese. Ne nacquero
polemiche. Troppo si sottolinea quel S. Giuseppe con la giubba da palestinese,
metafora del dramma dell’uomo che è costretto ad abbandonare la sua terra, che
traduce il Vangelo nell’attualità politica, dimenticando che la sintassi che
anima il lavoro è del tutto lombarda, risalendo storicamente agli affreschi
indimenticabili di S. Maria foris portas di Castelseprio.
La
tematica sociale nondimeno si attenua
negli anni Sessanta, diventa più misurata, la malinconia che è una delle
caratteristiche del carattere di Guttuso si manifesta nella pittura delle
nature morte, nella ricerca della violenza simbolica degli oggetti, che
assumono connotazioni autobiografiche: immagini della sua terra, colori
brillanti, scene della sua gente, della giovinezza.
La memoria si materializza nei particolari,
nei dettagli, come nella Vuccirìa:
pesci, carni, verdure, peperoni, sedani, olive, uova, arance e limoni,
fichidindia…. Dettagli che costruiscono il quadro in una armonia colorata e
circolare che pur manca di centro: quasi un’interpretazione della vita confusa
che stiamo vivendo.
La
natura morta, gli oggetti, il paesaggio ci riconducono ai lavori di Velate, iniziati negli anni
Cinquanta, come quell’olio Alberi
a Velate, del ’58, che per
colori, tutti nordici, e pennellate
sembra un omaggio a Cézanne e
Cesto di castagne di dieci anni dopo, che riprende il tema della quotidianità -dei prodotti autunnali
varesini-, la quotidianità del suo realismo, e che induce alla riflessione non
solo sulla scelta oggettuale, bensì sulla struttura, circolare, pregnante,
centrale e strabordante, nondimeno compatta della tela, che è una delle
caratteristiche della sua espressione pittorica. Una pittura densa, corposa,
caratterizza queste immagini in cui gli oggetti inanimati sembrano assumere una
carnalità e una tattilità che appare come la negazione stessa del concetto di
“natura morta”, piene come sono di una materiale vitalità.
A
Velate trovava la calma, la concentrazione
e la tranquillità necessaria per progettare le nuove tele. Molte volte
viene dipinto il paesaggio che poteva vedere dal balcone finestra della sua
casa, con tele che sembrano ripetersi nel soggetto e che invece variano il
dettaglio, l’ispirazione, il colore, la luce, la tecnica. Bisogna fare attenzione alle date: si va da Alberi a Velate, del 1958 a Tetti a Velate, olio su tela del 1961; da
una Veduta
di Velate con il monte Rosa,1961, Tramonto
di Velate 1960, Monte Rosa da Velate,
1963 a Balcone a Velate,1967.…
Dettagli che sono proiezioni della sua personalità. Le luci, i cieli lombardi
incantati, i tramonti, i castagni, i boschi, gli elementi tematici costanti,
poi le varianti : cesto di castagne, bosco a Velate con ortensia, 1984, che
ha accenti lirici, Natura morta e bosco a
Velate,1985….in cui, su una sedia che sembra quella di Van Gogh,
sistema anche gli attrezzi del suo lavoro di pittore,
testimoni della sua non indifferente presenza.
Quel
paesaggio di Velate, tutto verticale, che culmina nel Rosa al tramonto, blu e
viola di contro al cielo rosso, incendiato ed inquietante si ripete, come un
urlo che parte dai tetti, scuri e sghembi, per sconfinare nel misterioso
infinito. Violenti tagli spaziali,
fratture di piani, esasperazione di espressione, ricerca audace di nuovi nessi
sintattici. Quadri caldi, vitali, sconvolti, generosi. Confesserà Guttuso nel
1985: <Dal ‘79-80 ad oggi ho avuto meno preoccupazioni narrative nella mia
pittura e più preoccupazioni interiori. I significati della mia pittura sono
diventati in un certo senso più segreti e quindi esposti in forma allegorica
>.
I
tetti sono una costante nei quadri di Guttuso, quasi un riferimento tematico
simbolico di casa, paese, appartenenza: quelli di Bagheria, più volte ritratti
nella giovinezza e nel ricordo nostalgico, quelli di Roma, quelli di
Ischia…: i tetti di Velate, in struttura
verticale riconducono a uno spazio interiore, chiuso. È ancora Guttuso che
dichiara:< credo che il progresso del mio lavoro sia cominciato nel momento
in cui mi sono staccato dalla volontà di fare violenza “sulle cose”e ho cercato
di esprimere la violenza “delle cose”. Questa è l’ultima fase della mia vita, e
quindi questa violenza insita, interna alle cose, secondo me ora viene fuori di
più. E mi ci abbandono con tutto me stesso>.
G.
Testori, affascinato dall’autore e dal paesaggio, definisce questi quadri “ mirabili cantiche del poema
“varesino” di Guttuso, … atti di cultura…d’affezione e d’amore legame¸ come
canto; inno, anzi: che raramente fu, come questo rosario “Varesino”, così alto,
glorificante e, insieme, così placato….”
Velate,
Varese e Guttuso, un binomio
inscindibile, ormai storico.
Interessante e vivace disamina di una delle voci più significative del novecento pittorico italiano, nelle sue fasi conclusive, sempre più immerse in un realismo allegorico dove affiora quel conflitto tra mondo reale e mondo ideale cui le successive correnti del Realismo internazionale rinunceranno in favore di una testimonianza angosciante dell'uscita di scena dell'uomo. La poetica di Renato Guttuso è di un umanesimo non ancora sconfitto, non rinunciatario, ma assai combattivo e proprio per questo struggente.
RispondiEliminaFranco Campegiani