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giovedì 6 giugno 2019

ETTORE E ANDROMACA ALLE PORTE SCEE


Ettore, Andromaca, Astianatte e la nutrice

Finito non avea queste parole
La guardïana, che veloce Ettorre
Dalle soglie si spicca, e ripetendo        
Il già corso sentier, fende diritto
Del grand’Ilio le piazze: ed alle Scee,
Onde al campo è l’uscita, ecco d’incontro
Andromaca venirgli, illustre germe
D’Eezïone, abitator dell’alta            
Ipoplaco selvosa, e de’ Cilíci
Dominator nell’ipoplacia Tebe.
Ei ricca di gran dote al grande Ettorre
Diede a sposa costei ch’ivi allor corse
Ad incontrarlo; e seco iva l’ancella  
Tra le braccia portando il pargoletto
Unico figlio dell’eroe troiano,
Bambin leggiadro come stella. Il padre
Scamandrio lo nomava, il vulgo tutto
Astïanatte, perchè il padre ei solo     
Era dell’alta Troia il difensore.
Sorrise Ettorre nel vederlo, e tacque.
Ma di gran pianto Andromaca bagnata
Accostossi al marito, e per la mano
Strignendolo, e per nome in dolce suono 
Chiamandolo, proruppe: Oh troppo ardito!
Il tuo valor ti perderà: nessuna
Pietà del figlio nè di me tu senti,
Crudel, di me che vedova infelice
Rimarrommi tra poco, perché tutti        
Di concerto gli Achei contro te solo
Si scaglieranno a trucidarti intesi;
E a me fia meglio allor, se mi sei tolto,
L’andar sotterra. Di te priva, ahi lassa!
Ch’altro mi resta che perpetuo pianto? 
Orba del padre io sono e della madre.
M’uccise il padre lo spietato Achille
Il dì che de’ Cilíci egli l’eccelsa
Popolosa città Tebe distrusse:
M’uccise, io dico, Eezïon quel crudo;  
Ma dispogliarlo non osò, compreso
Da divino terror. Quindi con tutte
L’armi sul rogo il corpo ne compose,
E un tumulo gli alzò cui di frondosi
Olmi le figlie dell’Egíoco Giove          
L’Oreadi pietose incoronaro.
Di ben sette fratelli iva superba
La mia casa. Di questi in un sol giorno
Lo stesso figlio della Dea sospinse
L’anime a Pluto, e li trafisse in mezzo 
Alle mugghianti mandre ed alle gregge.
Della boscosa Ipoplaco reina
Mi rimanea la madre. Il vincitore
Coll’altre prede qua l’addusse, e poscia
Per largo prezzo in libertà la pose.      
Ma questa pure, ahimè! nelle paterne
Stanze lo stral d’Artémide trafisse.
Or mi resti tu solo, Ettore caro,
Tu padre mio, tu madre, tu fratello,
Tu florido marito. Abbi deh! dunque  
Di me pietade, e qui rimanti meco
A questa torre, né voler che sia
Vedova la consorte, orfano il figlio.
Al caprifico i tuoi guerrieri aduna,
Ove il nemico alla città scoperse          
Più agevole salita e più spedito
Lo scalar delle mura. O che agli Achei
Abbia mostro quel varco un indovino,
O che spinti ve gli abbia il proprio ardire,
Questo ti basti che i più forti quivi      
Già fêr tre volte di valor periglio,
Ambo gli Aiaci, ambo gli Atridi, e il chiaro
Sire di Creta ed il fatal Tidíde.
  Dolce consorte, le rispose Ettorre,
Ciò tutto che dicesti a me pur anco      
Ange il pensier; ma de’ Troiani io temo
Fortemente lo spregio, e dell’altere
Troiane donne, se guerrier codardo
Mi tenessi in disparte, e della pugna
Evitassi i cimenti. Ah nol consente,     
No, questo cor. Da lungo tempo appresi
Ad esser forte, ed a volar tra’ primi
Negli acerbi conflitti alla tutela
Della paterna gloria e della mia.
Giorno verrà, presago il cor mel dice,  
Verrà giorno che il sacro iliaco muro
E Priamo e tutta la sua gente cada.
Ma nè de’ Teucri il rio dolor, né quello
D’Ecuba stessa, né del padre antico,
Né de’ fratei, che molti e valorosi        
Sotto il ferro nemico nella polve
Cadran distesi, non mi accora, o donna,
Sì di questi il dolor, quanto il crudele
Tuo destino, se fia che qualche Acheo,
Del sangue ancor de’ tuoi lordo l’usbergo, 
Lagrimosa ti tragga in servitude.
Misera! in Argo all’insolente cenno
D’una straniera tesserai le tele:
Dal fonte di Messíde o d’Iperéa,
(Ben repugnante, ma dal fato astretta)        
Alla superba recherai le linfe;
E vedendo talun piovere il pianto
Dal tuo ciglio, dirà: Quella è d’Ettorre
L’alta consorte, di quel prode Ettorre
Che fra’ troiani eroi di generosi            
Cavalli agitatori era il primiero,
Quando intorno a Ilïon si combattea.
Così dirassi da qualcuno; e allora
Tu di nuovo dolor l’alma trafitta
Più viva in petto sentirai la brama        
Di tal marito a scior le tue catene.
Ma pria morto la terra mi ricopra,
Ch’io di te schiava i lai pietosi intenda.
   Così detto, distese al caro figlio
L’aperte braccia. Acuto mise un grido 
Il bambinello, e declinato il volto,
Tutto il nascose alla nudrice in seno,
Dalle fiere atterrito armi paterne,
E dal cimiero che di chiome equine
Alto su l’elmo orribilmente ondeggia.

1 commento:

  1. Il miracolo si ripete. La lettura di certi passi di Poesia ammalia ancora oggi come allora, al tempo degli anni verdi...
    Grazie Nazario, per non farci dimenticare.
    Edda Conte.

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