Sandro Angelucci, collaboratore di Lèucade |
Nell'ambito della rassegna I.p.la.c.
TITIWAI, DI SANDRO ANGELUCCI
(LADOLFI EDITORE)
presentato
a Roma, presso Hora Felix, il 15 giugno
Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Da quando nel
pensiero greco si cominciò a distinguere i concetti, accadde che il Bello, il
Vero, il Buono, eccetera, iniziarono ad apparire come valori separati ed
autonomi, addirittura antitetici gli uni agli altri. Una frammentazione che a
lungo andare, radicalizzandosi, doveva inevitabilmente condurre alla
distruzione di ogni valore e del senso stesso della vita, come è accaduto
realmente con l'avvento del nichilismo. In tempi arcaici, al contrario, la mente
umana, tutt'altro che ingenua come potrebbe sembrare, era dedita ad un solo
obiettivo: la ricerca della Sapienza, del Senso della vita, di quei valori
universali che non sono pregiudizi, ma Princìpi effusi nel creato dalla
creazione stessa.
Una fede che non
dava nulla per scontato, in quanto fondata su una macerazione interiore
costante, su un'autocritica tesa all'abbattimento di ogni puntello di comodo e di
ogni facile illusione. Fede alimentata dal dubbio, che non può essere scambiata
per ingenuo fideismo. Ebbene, è a questa fede, propria del pensiero prelogico e
misterico, mitico-sapienziale degli avi - fede per la verità mai abbandonata
del tutto dal genere umano, pur essendo caduta largamente in oblio - è a questa
fede, dicevo, che si collega la ricerca poetica di Sandro Angelucci. Vi si
ricollega da sempre, ma particolarmente in quest'ultima fase del suo canto, Titiwai, che è tutta una ricerca delle
Leggi effuse nel creato dall'iniziale big
bang.
Una poesia,
pertanto, che va molto al di là delle bellezze formali, del narcisismo
autoreferenziale e delle superficiali emozioni
tanto care ai poeti intimisti. Un dire piano e sommesso, quello di Sandro, lirico
e filosofico nello stesso tempo, capace di scendere nelle profondità
dell'essere per donare emozioni e stupori profondi, legati alle vertigini
universali del primo giorno che la terra fu. Poesia come risveglio dell'uomo nella
verità, nella sua propria verità. La natura è al centro di questo amore e di
questo canto. Natura non intesa arcadicamente, come luogo di vita amena, bensì
come depositaria di principi impervi di cui ogni vivente è custode nel
profondo.
Solo Adamo è
riottoso, scontento. Soltanto lui è in cerca di espedienti per aggirare le
regole. Per lui, dice Sandro, "è un lento, progressivo allontanarsi".
Come Ulisse da Itaca, cui pure è destinato a tornare e tornerà. Un viaggio, una
fuga infinita da se stesso alla ricerca di se stesso, della verità che porta
dentro, nel segreto scrigno dove luci e tenebre si abbracciano in complice
armonia. Alta tensione inquietante, da cui Adamo (Ulisse) si svincola per
inseguire altre, astratte e illusorie, armonie: "Siamo tutti liberi. /
Siamo tutti uguali. / Siamo tutti buoni. / Siamo tutti belli. / E nessuno lo è
davvero".
Ma la salvezza è
dietro l'angolo: "Torneremo ad esserlo / quando saremo prigionieri, /
differenti, cattivi, brutti". Quando cioè, svanite le illusioni, saremo
maturi per accogliere anche il male alla nostra mensa. Così ci troveremo di
nuovo nell'Eden, negli equilibri iniziali, e risorgerà la Fenice. E finalmente
ci accorgeremo del Paradiso che non ci ha abbandonato mai: "Navighiamo per
mari stranieri. / Cerchiamo in terre lontane / la creta che abbiamo nel
cuore". Sta dentro di noi e non lo sappiamo, ma ritroveremo la rotta
ovunque orienteremo la prua. Anche se c'è un prezzo da pagare, purtroppo: il
rogo apocalittico.
Poi, tornato a Itaca
(ovvero a se stesso), Ulisse sarà di nuovo pronto per rimettersi in mare.
Un'altalena perenne, la sua, perché c'è sempre bisogno del contrario, e del
contrario del contrario. Non si può vivere sempre nella grazia. Bisogna
attraversare la disgrazia per potersi guadagnare di nuovo la grazia. Segnalo in
proposito una poesia, Big bang, dove
il poeta ripercorre nel pensiero le tappe della prima incarnazione umana. Un
viaggio interstellare che lo conduce, novello Adamo, sulla terra, dove,
spaesato, si scopre di nuovo "smanioso / di cogliere il frutto / del melo
proibito".
Questo il nucleo
poetico-filosofico di Titiway. Un
nucleo denso di echi alti e di profondi richiami, con l'apparizione di
archetipi fondamentali, quali Madre Terra e Padre Cielo in azione congiunta e
speculare. Un canto sciamanico che irrompe con boati silenti, rigeneranti, nel
grigiore assordante della cultura postmoderna in cui viviamo. Nella prima parte
della silloge, Il giorno della legna,
si parla dell'uomo, del suo stampo archetipo e della sua perversione mentale.
Nella seconda parte, Pan Flute,
l'orizzonte si sposta dalla metafisica pura alla metafisica incarnata e
sanguigna del creato.
Dal mistero
dell'Assoluto lontano, al mistero vicino, ma non meno profondo, della
Relatività. Il che accade dopo avere collocato al giusto posto gli
interrogativi metafisici: chi siamo? dove
andiamo? Domande prive di risposte, ma non per questo infondate. Se è vero,
infatti, che non si è autorizzati a rispondere, non si è neppure autorizzati a
sigillare la propria coscienza di fronte al mistero. Chi siamo? dove andiamo? Domande che non sono solo domande, ma
anche e soprattutto risposte, giacché fede e dubbio sono fratelli siamesi.
Facce della stessa medaglia, inseparabili tra di loro.
Ciò che conta è
vivere con pienezza nella realtà in cui viviamo, dare umilmente fondo, in
quella parte dell'Universo, alla sapienza che ci è stata data in dono. "E'
così bello essere mortali / sapere di far parte del mistero". L'eterno è
dovunque, non bisogna cercarlo chissà dove: "So soltanto / che ora è qui
quel luogo, / in questi pochi versi. / Feroce come un pugno / dolce come una
carezza". Basta leggere nelle pagine del cielo, respirare il vento e
fremere nel sole, come sa fare ogni creatura. Oppure suonare nei prati e nelle
selve, come fa il poeta soffiando su un filo d'erba o in una semplice canna.
Bisogna farsi
piccoli per scoprire la grandezza. E' il gioco eterno dei contrari. Più si
infrange la corazza dell'ego, più si
fa spazio all'altro, al Gigante che è
dentro di noi: "Fare il vuoto, poeta / questo ti chiede / quando - senza
saperlo - / ne avverti la presenza. / Ti chiede di eclissarti / di toglierti di
torno / di non essere invadente / con il tuo io / che si vergogna ad essere se
stesso. / E fa il gradasso. / E non perde occasione / di reputare vero / ciò
che al contrario è falso. / Ti chiede la libertà. / Lo spazio del silenzio /
dove tutto parla, / tutto si ascolta. / E non si vive a vanvera".
Ma tant'è. Ulisse
(Nessuno) sfida Polifemo (il Gigante che è Tutto), il nostro spirito, il nostro
doppio ultrafisico, "l'occhio che ci guarda e poi ci mangia",
pensando che sia "sufficiente un palo / per togliergli la vista. // Quando
soltanto un cieco / può accorgersi del Sole / prima dell'alba". E' la
lotta che la ragione ingaggia contro lo spirito, superabile soltanto quando
riesce a comprendere di doverlo invece abbracciare. "Una, soltanto una / è
la strada tracciata dalla vita", quella "di nascere giorno dopo
giorno", come "ogni uovo è fatto per aprirsi / alla carezza di questa
eternità".
Titiwai è
il canto di un uomo che la vita ha messo a dura prova e che sa di dover passare
"in mezzo ai rovi, tra le spine" per poter uscire "con le ferite
rimarginate al Sole". "Io non sapevo / che credere significa soffrire
/ con il sorriso / che ti squarcia il cuore". E' la filosofia degli ultimi
che saranno i primi, da intendersi in senso spirituale, e non materiale come si
ostinano a fare i più. E' un tornare agli equilibri del creato, che non è un
saltare all'indietro nel passato, nel tempo, ma uno scoprire che le origini son
qui, perché noi viviamo sempre e comunque nella potenza dell'iniziale big bang (si legga Ristabilire).
Equilibrio è il nome
segreto dell'Universo, e felice colui che può dire: "E' giunto il tempo
dei bilanci. / Tiro le somme. / Ho vinto tanto. / Tanto quanto ho perso. / Bene
così. / Guai mi fossi trovato in deficit / o in sopravanzo". Titiwai, il nome delle larve
incandescenti che proiettano bagliori simili a stelle nelle volte delle grotte
di Waitomo, è una stupenda metafora di questi equilibri, di questo mistero
speculare, di questa dualità. E' l'incontro del Cielo con la Terra, l'abbraccio
del Padre con la Madre, l'armonia tra lo Yin
e lo Yang. La Terra non è che un
Cielo capovolto, se possiamo trovarlo inabissato nelle sue cavità.
Franco Campegiani
Fantastico l'evento del nostro Poeta puro Sandro Angelucci, che ho avuto l'onore di moderare. Franco, come sempre, ci ha travolto con le sue parole, che illuminano, stupiscono, inducono a profonde riflessioni. Mai come in questa occasione la sua armonia dei contrari era il sigillo perfetto per l'opera dell'Autore. E' stato affiancato da una relatrice altrettanto incisiva e insieme ci hanno coinvolti nel mondo degli 'ultimi' che sono sempre stati i primi. Loredana ha chiuso il cerchio con le sue letture soavi e le domande calde e ricche di sensibilità. Una serata che dà senso alla Poesia, alla Cultura e al nostro essere Umani!
RispondiEliminaMaria Rizzi