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giovedì 13 giugno 2019

ROSSELLA CERNIGLIA: "LA VITALITA' DELLA PAROLA"


 LA VITALITA' DELLA PAROLA
    
Rossella Cerniglia,
collaboratrice di Lèucade

In un mondo sempre più assediato dal rumore, in cui la parola, sempre più abusata, violentata, fraintesa, è divenuta chiacchiera, porsi il problema della sua vitalità è cosa determinante per l’identità stessa dell’uomo in quanto tale.
  Parola è, infatti, pensiero, e tramite per cui ciò che è proprio del soggetto entra in connubio con l’oggetto, con l’altro, con la realtà che da sempre sembra fronteggiare l'io.
   La parola –come dicevano i Sofisti- è divina, perché come un dio può creare e distruggere universi. Essa lega il nostro mondo interiore, la nostra individualità, a ciò che è altro da noi, la parola è sintesi vivente, microcosmo umano che riflette il macrocosmo del Verbo divino, piccola verità che si rapporta alla assoluta Verità di Dio. È il tramite di una sintesi universale, della reductio ad Unum della realtà stessa: crea comunione e circolarità di intenti che pone il tutto in intima connessione con la trascendenza.
   Ma i tempi in cui viviamo sono quelli di una parola abusata dalla massificazione culturale, e come tale svuotata di autentico significato. La parola della contemporaneità è quella che serve il sistema, ne traduce scelte e ideologia, è diventata stereotipo e luogo comune, e l’uomo che di essa si serve è divenuto schiavo, s’è svuotato di umanità, ha l’anima del burattino fatta di fili che lo muovono a sua insaputa.
   Mi interrogo su come sia ancora possibile, in questa attuale temperie, in questo clima di finta democrazia, di finta pluralità, in cui tutto si decide ai vertici, lontano da noi, in cui ci vengono fornite le coordinate per pensare come si vuole che tutti pensino, in questo tempo di uniformità rassegnata, in cui i grandi della terra si ergono sulle plebi per plagiarne i pensieri e l'anima, in questo tempo in cui tutto è globale: pensiero, cultura, economia, politica, mi chiedo in che consista l’umanità dell’uomo, l’umanità che si esprime anche, o soprattutto, attraverso la parola.
   Dov’è l’individualità, il microcosmo che ha un valore altrettanto assoluto rispetto al macrocosmo, perché altrettanto unico? E come si può ridefinire e riconquistare la vitalità della parola? Come può essere riproposta nella corrente omologazione che spazza via i connotati più autentici e le ragioni di ogni cosa?
   È davvero problematico, nel nostro tempo. È impresa titanica rimanere ancorati a significati e idee, a sentimenti che franano da ogni parte dentro e fuori di noi. Persino quando la neoavanguardia ha tentato di interrompere questo circolo vizioso, eludendo i canoni tradizionali di un linguaggio, ormai sconvolto e irreggimentato, in realtà, ha perseguito le stesse linee programmatiche del sistema, che proclama e vuole sempre il nuovo ad ogni costo, contro quanto rimane a costituire valore permanente e insostituibile.
   La parola vitale è, invece, quella che dice ancora qualcosa, perché questo qualcosa rimanga, perché non sia trascinato via dalla corrente. La parola vitale, per eccellenza, è quella poetica perché àncora questo perenne corso, questo incessante flusso, alla necessità, al suo essere più vero, più profondo, assoluto; perché, eliminando il dato transeunte, il passeggero, il contingente, va al di là, al nocciolo della cosa, all’essere, a rapire il suo cuore nascosto, la sua matrice inossidabile, la sua eterna essenza. Solo giungendo al cuore delle cose, si può rapire la loro verità, l’immutabilità di ciò che è mutevole, la perfetta forma che fugge nell’indeterminata fluidità del divenire.
   Ancorare la parola a questo valore eterno, e perciò universale, è il compito sovrano della mente dell’uomo. La ricerca della verità che è al di là di ogni mutevolezza, ciò che rimane fermo per ogni uomo, è ciò che, da sempre, la più autentica, la più alta poesia ha tentato di esprimere. E lo ha fatto pur sapendo il sacrificio destinato allo scacco, lo ha fatto dando corpo alla sofferenza dell’uomo che affronta il Mistero insondabile ed eterno; alla grandezza dell’uomo che si piega alla necessità del divino senza venire meno al compito grandioso che la scintilla di Dio, presente in lui, ha generato. 

***                                                                                 
    
La poesia è anche un modo di esprimere una visione e una conoscenza della realtà attraverso modalità che le sono proprie, vale a dire attraverso un linguaggio che ha caratteristiche proprie e che è, appunto, il linguaggio poetico.
   Vi sono svariati modi per esprimere il proprio pensiero intorno alle cose: gli scienziati adoperano il linguaggio specifico, settoriale, della scienza che esplorano e attraverso cui conducono le proprie indagini; il matematico si serve del linguaggio che è proprio di tale disciplina e così fa anche il musicista, servendosi delle note che sono parte del linguaggio della musica. Così il pittore e l’architetto. Anch’essi esprimono, attraverso un proprio linguaggio, una visione delle cose e della realtà che rimane a fondamento della loro opera. In tal modo, tutti i saperi, nel loro insieme, contribuiscono alla conoscenza il più possibile sfaccettata, variegata e completa dell’intera realtà, del Tutto che ci circonda.
   La poesia ha, dunque, un linguaggio che ha proprie regole. Esso parla al cuore e alla mente dell’uomo e suscita in esso il senso della bellezza e dell’eterno. La poesia ricerca, infatti, non ciò che è superficiale nel mondo, ma la verità più propria, il fondamento delle cose, la loro parte più intima e nascosta, il nucleo più insondabile che pure urge di venire alla luce della conoscenza. La poesia è, dunque, una ricerca di verità, aspira alla conoscenza di una Verità ultima, di tutte le cose, una verità che sia il fondamento del Tutto.
   Nel nostro tempo si vuole che tutto cambi, e cambi in fretta, e niente rimanga.  Nel nostro tempo, contrassegnato dall'usa e getta, pare che anche il pensiero e la parola non siano fatti per restare, ma presto si confondano e si perdano come uno dei mille prodotti dell’attività umana, anch’essi fagocitati da un consumismo che accartoccia e getta via ogni cosa. Così, in questo nostro mondo consumato dalla fretta, dove tutto appare presto frusto e logoro, anche le idee scorrono via veloci e nulla è pensato per restare. Ogni cosa è come masticata in fretta, in fretta digerita, perché il nuovo incalza. In seno alla realtà non esistono più valori permanenti, cui riferirsi, tutto scorre in questa fiumana; anche qualcosa che avrebbe ragione di resistere è portato via nei gorghi di liquami e spazzatura che sommergono il nostro benessere e la nostra voracità di consumatori di beni materiali e immateriali.
   Per questo, fare poesia al giorno d’oggi, impegnarsi con ostinazione e controcorrente nella ricerca del fondamento, del nucleo ultimo di realtà che esprime le cose nella loro essenza, sia pure rarefatta, sia pure evanescente, è un’impresa alquanto difficile, e sarebbe spesso votata al fallimento se l’ostinazione del poeta non venisse in soccorso della poesia stessa con una volontà di ricerca ardua, che talvolta quasi trascende i limiti dell’umano.
   Ma questa Verità ricercata dalla poesia ha un elemento di individualità imprescindibile poiché il nucleo di verità indagato nelle sue profondità, e che qualcuno vorrebbe definire sacro, appartiene, tuttavia, a un uomo, il poeta stesso che la poesia ha creato. Tutto il mondo interiore del poeta, la sua sensibilità, la sua memoria, la sua capacità immaginativa, il suo pensiero, sarebbero irrimediabilmente perduti se egli non riuscisse a modellare un linguaggio che esprima, in una suprema sintesi, questo crogiolo incandescente. Il potere di un tale linguaggio è quello di dar forma a questa materia prepotente e informe che urge per essere detta, per venire alla luce in un parto che è della testa e dell’anima e non del ventre, che è spirituale e non materiale.
   La verità che ricerca, dunque, il poeta è la sua stessa verità, la sua haecceitas, il suo modo di vedere la realtà e di porsi di fronte ad essa, la sua profonda, singolare, intuizione del mondo che nasce dalla comunione di molteplici fattori che hanno vita nella sua interiorità. Anche sant’Agostino è preso da una tale ricerca interiore, nel cercare Dio; anch’egli è convinto che “In interiore homine habitat veritas.” Ed è questa stessa Veritas agostiniana che il poeta fondamentalmente persegue.
   Così, in ultima istanza, il pensiero del poeta, tutta la sua anima, tendono ad essa, alla Verità come elemento unificante, come dato ultimo che compendi tutto il reale e ne sia il fondamento.
   Succede poi che molte delle verità espresse dal poeta (e che dovrebbero culminare nella verità ultima, agostiniana, nella Veritas di Dio), siano poi condivise dal mondo. Chi legge dei versi sente talvolta in profondità la consonanza col mondo interiore del poeta, con quello che egli dice e pensa, sente che profondi legami stringono il mondo del poeta al suo; anch’egli avrebbe voluto esprimere le stesse verità e, di fatto, le esprime attraverso la voce del poeta che parla per lui così profondamente e così universalmente che tutto l’uomo e tutta la realtà trovano compendio nella sua parola.
   È questo il valore universale che la poesia possiede in sé, quello di parlare a tutti esprimendo valori universali, universalmente condivisi e fortemente radicati nell’uomo e fondamentali al di là di ciò che è superficiale ed effimero.
   Il linguaggio della poesia è, pertanto, un linguaggio che come quello della matematica o quello della musica ha un suo codice e sue regole che rendono possibile codificare messaggi ineffabili, come se il Mistero, a lungo indagato in noi, trovasse finalmente forma e alito vitale per vivere autonomamente nel mondo fuori di noi. E in questo, in tale forza illuminante che è della poesia,  in tale turbine creatore risiede la vitalità più ardita e prorompente della parola, quella non abusata, ma scavata dentro di noi, quella che ci riporta alle radici ultime, originarie, alla trascendenza e a Dio.

 Rossella Cerniglia 
                                                                               
                                                                                                                            

                                        


18 commenti:

  1. Lingua, linguaggi e poeti

    Sono pienamente d’accordo su tutto. Sulla verità dell'atto poetico, sulla ricerca instancabile di un verbo che eguagli gli input emotivi. Ma soprattutto sull’idea che la lingua debba essere semplice e comunicativa e che non si debba rifugiare in rocamboleschi barocchismi che il più delle volte servono a nascondere vuoti di idee. Tanto più la poesia. Essa deve raggiungere la platea, e lo deve fare con immediatezza, agguantando l’anima del lettore in una simbiotica empatia, ammesso che esista l’atto creativo, il cosiddetto genio estetico. Questo è il primo obiettivo. E deve emozionare, deve far vibrare le corde del cuore. E lo deve fare al primo impatto con la sua vis umana, esistenziale, nel suo magico gioco di azzardi che ne traslano gli abbrivi oltre i limiti del nostro essere terreni. Da ciò l’universalità del canto: partire dalle cose più umili per farne una scalata verso l’irraggiungibile; d’altronde la poesia è uno dei pochi mezzi che ci permette di agguantare la coda dell’eccelso. Possono andar bene figure retoriche, nèssi allusivi, ma spontanei, vòlti ad abbellirla e non ad appesantirla. E credo soprattutto che debba rispettare misure metriche finalizzate a creare quella indispensabile armonia versificatoria che è elemento determinante dell’atto creativo. Non credo di certo ad una misura spaziosa, prosastica, in cui il verso possa permettersi di andare a capo a piacimento. Ed il critico? Poeta poetae adductus. Artifex artifici adductus. Il critico deve fare sua l’opera, la deve ri-vivere, ri-creare, e con tutta la sua generosità emotiva stendere la pagina critica imbevuta del suo modo d’intendere e di sentire. Poesia su poesia. Respiro su respiro.
    L’atto creativo è individualità traslata all’universalità del sentire. E la funzione dell’esegeta è quella di sapersi intrufolare anima e mente nei significati e significanti del testo, tanto da farsi lui stesso nuovo creatore. Non ci devono di certo essere barriere, stacchi, fra le due posizioni. Ma interscambiabilità emotiva. Confluenza sentimentale e semantica. E dirò di più: se il critico, oltre ad essere tale, è anche poeta credo che otterrà la sua finalità con più partecipazione autoptico-interpetrativa. Con maggiore resa critico-estetica, umano-esistenziale, o etico-sociale.

    Nazario Pardini

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    1. Ringrazio in primo luogo il nostro grande Poeta e critico letterario Nazario Pardini che, con l'eccezionale generosità che contraddistingue ogni suo gesto, ha ospitato queste mie modeste riflessioni nel suo sito. Noto, sempre di più, tra noi una grande consonanza di pensiero e di sentire che mi rende onorata e lieta.
      Sono, pertanto, d'accordo con lui, quando sostiene che meglio sarebbe se il critico fosse anche poeta. Ma dovrebbe essere veramente poeta, come lo è, ad esempio lo stesso Pardini, non come lo sono i critici che provano a fare poesia per così dire “a tavolino”, cioè montando e smontando “pezzi” e chiedendo ad altri di intervenire per trovare insieme la soluzione migliore. Evidentemente, la mia concezione della poesia non somiglia al montaggio di puzzle a non so quante mani.

      Rossella Cerniglia

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  2. La parola, dono divino. Magìa. Gratuita, essenziale. Libertà: e non finta democrazia. Autenticità, che non significa mai conformismo, assuefazione mediatica all’uso generico o mercificato del già confezionato. Pensiero e non chiacchiere fasulle: concordo.
    Parola vera. Compito individuale e sociale, “scolastico”: “saper cogliere e definire il pensiero altrui, mettendolo in relazione coi propri paradigmi culturali, a qualsiasi tempo e luogo appartengano; saper valutare i propri principi sulla base di tale confronto; saper individuare questioni pertinenti di fronte a una serie quasi illimitata di informazioni; saper smantellare i livelli retorici del linguaggio per valutarne il reale contenuto… saper riconoscere il valore della vita”.
    La poesia: vita che si intreccia con le parole e crea altra vita, affronta l’ignoto e sopravvive al presente. È parola offerta al futuro. È in questo senso certo voce divina. Conoscenza che penetra, entra nella realtà e la traduce e nel tradurre crea. Voce talmente libera da non soffrire nemmeno per la mancanza di ascolto. Apertura all’oltre, al futuro: il suo significato è sempre di là da venire.

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    1. Saluto Maria Grazia Ferraris e la ringrazio per la fatica della lettura e per il commento dagli accenti così vibranti che indica, in forma precettistica ed illuminante, come tener fede al compito vero e alla dignità della parola, soprattutto di quella poetica. Ancora Grazie!

      Rossella Cerniglia

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  3. “La parola vitale, per eccellenza, è quella poetica perché … va al di là, al nocciolo della cosa, all’essere, a rapire il suo cuore nascosto, la sua matrice inossidabile, la sua eterna essenza.” Credo che in queste poche righe si possa sintetizzare il senso dell’intero percorso della riflessione proposta da Cernaglia.
    È questo il movente primo e il fine ultimo della poesia: cogliere l’eterna essenza delle cose, con un linguaggio che riesce a superare ogni altro linguaggio perché è un prodotto dell’anima più che del pensiero nel senso che solo la poesia riesce a spiegare ciò che si può unicamente sentire e lo fa attraverso la parola. Di questa parola vitale e divina, il poeta deve avere piena responsabilità perché essa può diventare motivo di dialogo e di confronto, può illuminare un percorso in chi la legge e non è poco in una società in cui parole come visibilità, funzionalità, velocità imperano. Fare poesia è dunque un gesto profondamente civile, di più, un gesto rivoluzionario. Il poeta compie scrivendo in assoluta gratuità un gesto di resistenza che mai dovrebbe essere finalizzato.

    Annalisa Rodeghiero

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    1. Ringrazio di cuore Annalisa Rodeghiero per aver pienamente individuato e condiviso, attraverso un'attenta analisi del testo, il senso profondo che investe il compito della poesia e la missione del poeta.

      Rossella Cerniglia

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  4. RICEVO E PUBBLICO

    L' "unità" impossibile di Rossella Cerniglia
    Rossella Cerniglia nella sua onnicomprensiva ed esaustiva relazione sulla contemporaneità sfiora molteplici tematiche dal post-moderno alla funzione del linguaggio, dalla frammentazione artistico-sociale-scientifica alla progressiva separazione tra l'unità di "pensiero" e "canto" di Heidegger (il vero problema della creatività poetica del nostro tempo).
    In effetti oggi la creatività poetica è compressa sempre più dalla globalizzazione totale di azione e pensiero e rischia di annullarsi nel dettaglio solipsistico ovvero nel rifugio privato, senza ampliamenti di orizzontalità che travalichino il contesto codificato della creazione già delimitata a monte.
    La risposta che Cerniglia espone e cerca, tuttavia non può ritrovarsi nell'attuale dimensionalità, sia tecno, sia di mercato, se non rifiutando canoni e codici nella celebrazione della Libertà di espressione.
    Solo la Libertà propositiva, infatti può tentare un'interpretazione "autentica" di quel tormento interiore che l'Origine impone agli artisti e che si nasconde sempre mostrandosi in qualsiasi esplosione interiore. Anche il linguaggio del non-senso (così definito) non sfugge al tormento, con il cercare nuove spazialità forse più filosofiche che poetiche. La "forma unica" enunciata e condivisa nella relazione, non si compone peraltro con facilità ma risente della sensibile dicotomia causata dalla contemporaneità. Tale sofferenza di rivoluzione mancata o di mutamento difficile e auspicato non produce pura arte, ma cronaca (derivata o meno), che nulla condivide con la poesia.
    La stessa "immanenza/trascendenza" senza Libertà espressiva rimane confusa in una dialettica sterile, priva di veri contenuti alternativi che ne favorirebbero lo sviluppo di pensiero incorporato nel Canto. Tutto lo svolgimento di Cerniglia, incentrato sulla dogmaticità intoccabile (ab origine) del dirigismo poetico, rischia dunque il naufragio dell'abulìa tecno/consumistica, cioè del vuoto che fagocita ogni teoria, da Lyotard al colosso Heidegger, dal minimalismo di Vattimo al "nulla" delle "avanguardie".
    Il super problema rimane comunque l'Essere nelle sue interpretazioni filosofico-artistiche diversificate nella Storia.
    L'Essere è infatti il padre di tutte le rappresentazioni umane, ma l'Essere reclama la Libertà in altrettante forme e dimensioni prospettiche.
    Non la libertà unidirezionale che ci propone la Cerniglia, ma la libertà multiforme e polivalente che deve comprendere ogni possibilità di ampliamento sia linguistico sia artistico. L'Essere è tanto unico quanto molteplice comprensivo quindi del dettaglio, del frammentarismo, dell'Immanenza/Trascendenza, della ricerca scientifica e dello stesso "Dikthung" (di Heidegger, unità di pensiero e Canto) e come l'Oltre rimane inconoscibile per tutti noi, ma tutti noi lo ricerchiamo e indaghiamo da sempre.
    Quindi tutte le espressioni poetiche hanno diritto di presenza partecipativa al grande orizzonte dell'Essere-Oltre, al di là di ogni dogmatistica o dirigismo di corrente o di moda.
    La Poesia stessa è quell'Oltre che esiste ma non si consegue mai per la gioia creativa di tutti i poeti del mondo.

    Marco dei Ferrari

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    1. Ringrazio Marco dei Ferrari per aver letto ed essere intervenuto commentando. E gli rispondo riprendendo il pensiero illuminante di Heidegger che nel saggio "Holderlin e l'essenza della poesia", formula una nuova concezione dell'Essere connessa ad una precedente impostazione del problema della Verità: la concezione dell'Essere come "Evento" cui si collega il ruolo ontologico del linguaggio.
      Per Heidegger, infatti, “Ciò che prima di tutto è, è l'essere”. E la parola "Evento", viene a designare nel suo sistema filosofico, l'originaria reciproca appartenenza dell'uomo e dell'essere: l'uomo infatti ha la prerogativa di porsi il problema dell'essere e del suo senso, a differenza dei semplici "enti intramondani": “Nella dimora dell'essere abita l'uomo- dice Heidegger - e i pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è portare a compimento la manifestatività dell'essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono.”
      E' vero, come lei giustamente fa notare, che “la poesia stessa è quell'Oltre che mai si consegue” ma, certo, indipendentemente dalla gioia creativa dei poeti che, in tal modo, possono continuare a produrre poesia. L'"Oltre" rimane in ogni caso irraggiungibile, con o senza la poesia, altrimenti non ci sarebbe “divenire”. La poesia sembrerebbe, tuttavia, un linguaggio privilegiato che più ci pone “nella vicinanza del- l'Essere”.

      Rossella Cerniglia

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  5. “IL VERO E LA PAROLA POETICA” – PRIMA PARTE

    Ritengo che Rossella Cerniglia sia nel “vero” - tanto per rimanere in tema - quando rileva la tendenza di ogni autentico poeta («con tutta la sua anima»), «alla Verità, come elemento unificante, come dato ultimo che comprende tutto il reale e ne sia il fondamento».
    Nell’“Estetica” (1835) di Georg W.F. Hegel leggiamo: «La forma dell’“intuizione sensibile” appartiene all’“arte”, così che l’arte è quella che presenta alla coscienza la Verità sotto forma sensibile, anzi, sotto una forma sensibile che ha in questa sua apparenza un senso e significato più alti, più profondi ma che non vuole però con il medio sensibile rendere apprendibile il concetto come tale nella sua universalità; poiché proprio l’unità di esso con l’apparenza individuale costituisce l’essenza del bello e della sua riproduzione a opera dell’arte». Quindi esemplifica: «Questa unità si realizza nell’arte, a dire il vero, anche nell’“elemento della presentazione”, e non solo in quello dell’esteriorità sensibile, e ciò avviene particolarmente nella poesia».
    Ciononostante, sempre secondo il caposcuola dell’Idealismo, nella poesia, spiritualissima tra le entità protette dalle Μοῦσαι (Mùsai) ellenistiche, agisce l’unione difensiva, singolare, di significante/significato, e i contenuti sono percepiti, raffigurati, in modo immediato. Alle origini - lo scrive il filologo classico tedesco Walter Friedrich Otto in “Theophania” - «le Muse hanno un posto altissimo, anzi unico, nella gerarchia divina. Son dette figlie di Zeus, nate da Mnemosyne, la Dea della memoria; ma ciò non è tutto, ché ad esse, e ad esse soltanto, è riservato portare, come il padre stesso degli Dei, l'appellativo di olimpiche, appellativo col quale si solevano onorare sì gli Dei in genere, ma - almeno originariamente - nessun Dio in particolare, fatta appunto eccezione per Zeus e le Muse».
    La Cerniglia afferma: «La poesia ha, dunque, un linguaggio che ha proprie regole. Esso parla al cuore e alla mente dell’uomo e suscita in esso il senso della bellezza e dell’eterno». In una prospettiva allargata, però, è subito il caso di precisare quanto nel sistema hegeliano - che sembra proficuo accostare alle evocazioni offerte dal brano critico della studiosa - la τέχνη (tèkne), pur coltivando l’obiettivo centrale del “vero”, della spiritualità, non possa semplicemente fornire l’intuizione di esso mediante semplici oggetti particolareggiati della natura come sole, luna, terra, stelle: questi referenti sono di sicuro esistenze sensibili, ma distaccate, incapaci da sé di fornire l’intuito del campo spirituale ricercato.
    Infatti, seguitando a interpretare tra le righe del saggio commentato, essendo la “parola”, ossia la coesione di vocabolo e contenuto, anche «pensiero, e tramite per cui ciò che è proprio del soggetto entra in connubio con l’oggetto», l’arte acquista un posto assoluto, non potendo servire semplicemente da contenuto eterogeneo per interessi a essa estranei. Del resto, la religione medesima ricorre di frequente spesso all’aura artistica per avvicinare al sentimento, oppure garantire alla fantasia immagini coincidenti con il contesto confessionale: ecco un esempio nobile nel quale l’arte è senza dubbio utilizzata in una sfera differente dalla sua. Per altro verso, quando è espressa nella massima perfezione, sua tipica, allora si mostra effettivamente in grado di corrispondere al carattere della Verità ricercata.

    Cinzia Baldazzi (segue)

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    1. Grazie per il gentile e colto commento, pieno di spunti interessanti e vitalissimi, come il richiamo all'Estetica hegeliana. Hegel è triadico nello svolgimento del suo pensiero: procede per tesi, antitesi e sintesi, che rappresentano la base di una logica creativa, e l'arte rappresenta un primo momento della sua tripartizione, attraverso cui lo Spirito raggiunge la sua Assolutezza. Primo momento che culmina nell'arte romantica per trapassare nella Religione e infine nella Filosofia, sintesi suprema dello Spirito Assoluto. Formidabile richiamo e accostamento. Ancora, grazie!

      Rossella Cerniglia

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  6. “IL VERO E LA PAROLA POETICA” – SECONDA PARTE

    Presso i Greci - la Cerniglia ricorda i Sofisti, dove «la parola […] è divina, perché come un dio può creare e distruggere universi» - l’arte fu l’area dello spazio-tempo più alta nella quale il popolo diede corpo agli Dei, fondando la coscienza della Verità; poeti e artisti, nel mondo ellenico, hanno determinato, creando gli abitanti dell’Olimpo, l’“hic et nunc” specifico dell’agire, del vivere, dell’operare divino: e questo non perché tali rappresentazioni esistessero prima della ποίησις (pòiesis) in canoni e modi astratti della coscienza, nella fisionomia di dogmi religiosi, astrattivi, del pensiero generale, rivestite in seguito dagli artisti con icone e ornamenti poetici esteriori. Al contrario, il macrocosmo globale fu idoneo a permettere di elaborare ciò che si agitava in loro soltanto nella forma dell’arte e della poesia in particolare.
    Ma come il macrocosmo dell’arte possiede un “prima” nella natura, nel fluire finito della vita, così dispone di un “dopo”, cioè un ambito a sua volta adeguato a oltrepassare il modo di concepire, manifestare l’eterno. Con una esegesi efficace, Rossella Cerniglia dichiara che, legando «il nostro mondo interiore, la nostra individualità, a ciò che è altro da noi, la parola è sintesi vivente, microcosmo umano che riflette il macrocosmo del Verbo divino, piccola verità che si rapporta alla assoluta Verità di Dio. È il tramite di una sintesi universale, della reductio ad Unum della realtà stessa: crea comunione e circolarità di intenti che pone il tutto in intima connessione con la trascendenza».
    Purtroppo - e qui lascio di nuovo la “parola” alla nostra Rossella - «i tempi in cui viviamo sono quelli di una parola abusata dalla massificazione culturale, e come tale svuotata di autentico significato». Occorre dunque lavorare molto, sempre meglio, per dotare ancora il nostro microcosmo di un valore supremo da rispettare se messo a confronto con un interlocutore, invece, avversario dilagante o spesso invasivo.

    Cinzia Baldazzi

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  7. Come dicono in tanti appunto, non ho parole per eguagliare commenti e riflessioni di chi della parola, ne fa ampiamente lode. Ho letto e compreso quanto si sta perdendo e sopratutto alterando laddove si dovrebbe, non dico inculcare ma dare la giusta dimensione di cosa sia la parola; veicolo indiscusso di comprensione e dialogo. Ormai lontana dal tempo a me caro, temo, deduco ma soprattutto ne ricevo continue prove che dovremmo ripristinale e riprendere le redini di una lingua non solo parlata ma anche trasmessa attraverso le emozioni diventate poesia.

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    1. Speriamo, Manuela, che i tuoi, i nostri auspici si possano quanto prima realizzare.

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  8. Ho letto con molto interesse l’articolo di Rossella Cerniglia e i vari commenti. Premesso che non sono un critico letterario, sono d’accordo con tutto quanto è stato scritto da Rossella Cerniglia e Nazario Pardini. In particolare, la poesia deve essere immediatamente comunicativa. Non mi piacciono le poesie di alcuni poeti moderni piene di metafore che hanno bisogno di essere interpretate. Non sono d’accordo, invece, sul rispetto delle “misure metriche” come elemento importante nella poesia, poiché, a mio parere, potrebbe eliminare la spontaneità della comunicazione poetica. La poesia si è evoluta nel tempo come la musica che è la forma d’arte a essa più vicina. Faccio un esempio nel campo della musica leggera italiana: Domenico Modugno con “Volare” è stato un innovatore e dopo di lui Lucio Battisti e così via; nessun cantautore o musicista moderno ha osato tornare indietro. Oggi scrivere poesie in metrica è un po’ come negare un’evoluzione che si osserva in tutte le forme d’arte. J.R.R. Tolkien riteneva che gli scrittori e i poeti fossero sub creatori, poiché ogni loro opera è un “atto creativo”, ma sono sub creatori in rapporto alle epoche in cui vivono. Se non si accettasse questo concetto, l’uomo dovrebbe restare fermo all’età della pietra.
    Sono d’accordo anche su quanto ha scritto Nazario Pardini, perché, se il critico fosse un poeta, potrebbe meglio scavare nei versi e fornire una migliore interpretazione e aggiungo sempre che le poesie siano, indipendentemente dal rispetto della metrica, frutto di un’immediata comunicazione della “universalità del sentire”. Cinzia Baldazzi, ha confermato, ricollegandosi a Hegel, la necessità di comunicare con la poesia in modo immediato e ha fatto riferimento all’arte sacra che traduce in immagini concetti religiosi elevati che altrimenti non si potrebbero sempre comprendere, se fossero soltanto concetti astratti. La poesia si serve della parola per svolgere lo stesso servizio e avvicinare gli uomini al trascendente.
    La Baldazzi ha ragione anche sull’odierno abuso delle parole, oppure sul loro utilizzo sbagliato, perché le parole sono armi che usate male potrebbero anche uccidere.

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    1. Grazie, Rosanna. Sono pienamente d'accordo con le tue precisazioni.

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  9. Ho trovato il saggio di Rossella Cerniglia molto interessante e ricco di spunti di riflessione. Già il titolo in se “La vitalità della parola”, apre all’importanza dell’uso del linguaggio che si fa molto pressante in questo nostro tempo. Di fondo si percepisce quasi una voce allarmistica che volge alla precisa domanda di dove vadano a finire la bellezza e l’eleganza allorché queste cadono vittima del consumismo di specie, ideologico, politico, industriale, giornalistico se non ancor peggio dell’ignoranza.
    Mi fa piacere sottolineare come il primo risultato ottenuto dall’autrice, sia senza dubbio quello di aver generato una sorta di tavolo di discussione nel quale, con vero trasporto trovo come al filone guida si innestino pareri importanti e mai scontati che lo arricchiscono.
    Al parere sempre appropriato del prof. Pardini fanno eco, propositivi gli altri, ognuno con il proprio taglio ed il proprio punto di vista. Cinzia Baldazzi, ad esempio, con i suoi spunti filologici, la sua erudizione, i richiami filosofici mette a disposizione di tutti noi una cornucopia di valori fondanti del pensiero e della stessa poesia.
    Da sempre la filosofia ha esplorato il campo della parola in tutta la sua profondità e spesso hanno prevalso alcune scuole di pensiero piuttosto che altre (presocratici, Platone, Aristotele) fino a giungere ai giorni nostri.
    Già la poesia! Essa, se bene esposta, ci da la dimensione di come la parola possa sublimare il pensiero che la genera offrendoci tutta la gamma delle sensazioni umane possibili. Per quelle divine, basti ricordare il celebre versetto di Giovanni apostolo: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”, a significare come la parola trascenda l’uomo per fondersi con la divinità.
    Personalmente condivido, perché non le trovo antitetiche, tutte le definizioni e le affermazioni esposte, conscio del fatto che non sia la parola nel suo significato etimologico a dare forza ad un discorso o ad uno scritto quanto invece la corrispondenza con ciò che il pensiero vuole esprimere. Ossia, per superare la metamorfosi tendente alla Babele del linguaggio generata anche dalla sempre più frenetica vita dell’uomo, che ci sta proponendo neologismi e nuove realtà di comunicazione verbale (basti pensare allo Slang o alle forzature che ci vengono imposte dai linguaggi informatici), occorre rifarsi al significato chiave della parola Logos derivante dal greco che nella sua accezione più calzante può definirsi: “Parola intesa come manifestazione del pensiero”.
    La poesia che è arte che va oltre, riuscirà ad affermarsi ammaestrando ogni nuovo linguaggio alla bellezza.

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    1. Ti ringrazio, Carmelo, per questa dotta trattazione di poesia e filosofia, coerente, articolata e ricca di nuove prospettive.

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  10. Commento di Antonio Damiano

    Riflessioni profonde, attuali, che ci chiamano a riflettere sul valore della parola ed ancor più su questi tempi che la modellano a loro piacimento, asservendola alle istanze non solo dei potenti, tradizionalmente intesi, ma anche dei nuovi potentati economici, commerciali, finanziari, oltre che politici, identificando e costruendo di volta in volta nuovi idoli quale strumento di coercizione delle masse. Di fatto traduce in maniera quanto mai brillante quello che ognuno di noi pensava e pensa, condensandolo in pensieri chiari e lineari. E nel contempo ci chiama a vigilare, ad operare, ad approfondire, andando controcorrente e soprattutto cercando di non smarrire mai le ragioni del Vero. Che sono, poi, quelle che dovrebbero contraddistinguere la nostra attività letteraria, nell'immane sforzo di non assoggettarci alle tendenze di una società grigia, amorfa, velleitaria e disumanizzata, modellata su parametri di mera convenienza, in cui le ragioni dell'Io, il nostro stesso essere, risultano sempre più coartate. Riscopriamo e riaffermiamo le ragioni profonde del nostro Essere, se vogliamo che l'umanità abbia ancora un futuro!

    Antonio Damiano

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