M. Grazia Di
Mario e Sandro Angelucci:
scrittori a
confronto
FRANCO CAMPEGIANI DEL 24
GIUGNO 2019ARTE
Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Due scrittori
si confrontano, una donna ed un uomo. Due generi letterari (narratrice lei,
poeta lui), ed entrambi, guarda caso, a riflettere in maniera dissacrante
proprio sul tema del confronto. Perché dissacrante? perché, contrariamente al
luogo comune che vede due o più individui discutere tra di loro, qui il
confronto viene inteso come dialogo con se stessi. Non monologo, ma dialogo,
ciascuno con se stesso, come se l’uomo avesse due teste e come se, prima di
relazionarsi con gli altri, egli sia chiamato a relazionarsi con se stesso. In
effetti, se ci pensiamo bene, saltando questo primo anello della catena
relazionale, salta tutta intera la catena e i rapporti sociali si fanno
inautentici. L’autenticità, dunque, come tema
centrale, come leitmotiv, come fil rouge che lega questi due lavori
diversissimi tra di loro. Lavori di fronte ai quali, un filosofo come
Heidegger, che separa dolorosamente l’Ente dall’Essere, lasciandolo orfano e in
balia di se stesso, arriccerebbe il naso sospettoso. Puntando i fari sulla
differenza ontologica, egli sembra infatti, apparentemente, stabilire una
dualità tra l’Essere e l’Ente, ma il suo Dasein, il suo Esser-ci, non è in
realtà che il ritratto di un uomo dimezzato, costretto ad una vita inautentica.
Una visione non binaria o duale, pertanto, ma sostanzialmente monistica, dove
la dimensione dell’Essere non è che un puro e semplice sfondo dimenticato. Ebbene,
di quali lavori stiamo parlando? Innanzitutto di La donna senza testa, di Maria
Grazia di Mario, edito da Giulio Perrone; in secondo
luogo di Titiwai, di
Sandro Angelucci, edito da Giuliano Ladolfi. Due testi lontani anni luce tra di
loro – l’uno di narrativa onirica, a sfondo ironico; l’altro lirico, a sfondo
sapienziale – che tuttavia riflettono su una comune tematica: il degrado
sociale come conseguenza del lassismo dei singoli, del loro atteggiamento
rinunciatario nel prendere in mano la propria esistenza. Due testi, pertanto,
ciascuno con proprie peculiarità, che insistono sull’esigenza di assumere tale
consapevolezza, suggerendo una ricetta tanto impervia quanto semplice:
l’autoanalisi, il contatto con l’io profondo, il porsi in discussione di fronte
a se stessi. Guardarsi dentro: nel che, d’altro canto, consiste il vero ruolo
dell’intelligenza. Termine, questo, che deriva da intelligere, inter-ligere
(leggere dentro, appunto). Ed è una facoltà compressa da quella cultura
dell’apparire che certamente non va demonizzata, ma che diviene patologica se
noi lasciamo che assuma l’intera ed esclusiva padronanza del campo. L’uomo deve
viaggiare su due dimensioni, non su una soltanto, bilanciando la cultura
dell’apparire con una adeguata cultura dell’essere: ragione ed anima, potremmo
dire, antagoniste ed alleate tra di loro. Non ci sarebbe equilibrio se l’uomo
non avesse due teste. E vanamente egli s’industria di eliminarne una con ogni
mezzo, nell’illusione di facilitarsi il compito. Maria, la
protagonista di La donna senza testa, vive nel sogno una vicenda allucinante.
La troviamo di fronte allo specchio a inizio di racconto: uno specchio che
alimenta la sua vanità, il suo desiderio di agiatezze e frivolezze, di lauti
guadagni e facili successi mondani. Proprio lei che non si sarebbe mai
abbassata a tanto, improvvisamente cede all’abbaglio di affermarsi, di
diventare qualcuno. E improvvisamente, in un raptus, “capì che non c’era tempo
da perdere, era arrivato il momento di cambiare. Prese un coltello che aveva
riposto con cura e, con un colpo netto, tranciò la sua testa dal collo, poi
tamponò le ferite… e decise di riporre… la testa in un cassetto dell’armadio”. Priva
di quella sua testona che “non faceva altro che parlare di principi, di
giustizia, di diritti, di doveri”, finalmente poteva sentirsi libera e leggera,
spensierata – almeno lei così credeva – pronta a lanciarsi, senza scrupoli,
alla conquista del mondo. L’importante era non pensare, non confrontarsi con se
stessa e seguire le istruzioni, fare esattamente ciò che il mondo voleva da
lei. Mai più specchiarsi, dunque, nel vero specchio, quello della verità e
della sapienza, di cui la sua testona ingombrante era portatrice, e tenersi
unicamente caro lo specchio della vanità, per potersi strizzare l’occhio e
farsi coraggio, dicendosi: “Vedi, non sei poi così male, ce la puoi fare”. Sperava, sulle prime, di poterlo conservare in un cassetto quel suo testone
sfigato, serioso ed esageratamente adulto, così da poterlo usare una tantum,
quando ne avesse avuto bisogno, ma la sua sorpresa sarà amarissima quando si
accorgerà che esso non c’è più, sparito del tutto, chissà dove. Se vuoi farti
ingoiare dal mondo, hai bisogno di uno specchio-vanità che duplica la tua
immagine, fa di te un duplicato, non di uno specchio-verità che ti pone sotto
sferza e ti chiede di confrontarti con lui. Per adattarti al mondo ti occorre
una cosa soltanto: “solo una vera, grande, facciona da culo”. Cancellare dunque
la propria personalità. Non vivere, ma lasciarsi vivere, lasciarsi rubare a se
stessi. E ciò accade, in realtà, anche riuscendo ad esercitare funzioni di
comando. Raramente accade che chi è padrone del mondo sia anche padrone di se
stesso. C’è infatti un pilotaggio di partenza, un plagio, di cui, lui come
tutti, si deve liberare. Come? interrogando appunto il testone nascosto,
facendo spazio all’essere che gli vive dentro e che vorrebbe viaggiare in
simbiosi con lui. Sintomatico, in merito, quanto scrive Sandro Angelucci in Lo
spazio del silenzio: “Fare il vuoto, poeta, / questo solo ti chiede / quando –
senza saperlo – / ne avverti la presenza. / Ti chiede di eclissarti / di
toglierti di torno / di non essere invadente / con il tuo io / che si vergogna
a essere se stesso. / E fa il gradasso / E non perde occasione / di reputare
vero / ciò che al contrario è falso. / Ti chiede la libertà, / lo spazio del
silenzio / dove tutto parla, / tutto si ascolta. / E non si vive a vanvera”. Chi pensa che la vita non ha senso è perché non crede in se stesso, quindi è un
illuso, uno che vive di miraggi. Attenzione, però: credere in se stessi non è
cieco fideismo, bensì fede fondata sul dubbio, fede che non dà nulla per
scontato. E’ macerazione interiore costante, tesa all’abbattimento di ogni
puntello di comodo, di ogni diceria, di ogni pregiudizio, di ogni ingenua
asserzione. Ci vuole una grande fede per poter dubitare e ci vuole un dubbio
grandissimo, incontenibile, per poter crescere nella fede. Vera fede è quella
di Ulisse, capace di rinascere da ogni naufragio, di ricostruire il distrutto
vascello, di riprendere sempre e comunque a navigare, orientando meglio la
prua. Scrive Maria Grazia: “La sua testona l’aveva sempre sorpresa, aveva idee
geniali e un senso dell’equilibrio stupefacente, grazie al quale riusciva
addirittura a camminare su funi di cristallo senza scivolare. Lei si che
riusciva ad ascoltare le parole dell’acqua, del vento, a sentire il calore
della terra madre sotto i suoi piedi, lei si era sempre rialzata, forte, dai
tormenti, dalle delusioni, ed era sempre andata a testa alta. La sua testona
conosceva la poesia e la solitudine, l’amore, il dolore e la gioia dei tramonti
inascoltati, sapeva bruciare di passione, sapeva sognare”. Una fede che è
poesia, una poesia che è fede. Uno stupore. Una ricerca, meglio. Come è ricerca
quella del bambino che attraverso i suoi stupori irrobustisce la propria spina
dorsale, crescendo nell’equilibrio. Non nell’illusione, nel sogno, ma
nell’equilibrio. E’ il modo di procedere del pensiero prelogico e misterico,
mitico-sapienziale, degli avi: modalità per fortuna mai abbandonata del tutto
dal genere umano, pur essendo largamente caduta in oblio. Ed è a questa modalità
che si collega la ricerca poetica di Sandro Angelucci,
Sandro Angelucci, collaboratore di Lèucade |
particolarmente in
quest’ultima fase del suo canto, Titiwai, dando piena voce al bisbiglio di
quella testa recisa da Maria e rinchiusa nel cassetto dell’armadio.Un dire
piano e sommesso, quello di Sandro, lirico e filosofico nello stesso tempo,
capace di scendere nelle profondità dell’essere per donare emozioni e stupori
profondi, legati alle vertigini universali del primo giorno che la terra fu.
Tutto vive nell’Eden, nell’Armonia dei Contrari. Soltanto Adamo è riottoso,
scontento. Per lui, dice Sandro, “è un lento, progressivo allontanarsi”. Come
Ulisse da Itaca, cui pure è destinato a tornare, e tornerà. Un viaggio, una
fuga infinita da se stesso alla ricerca di se stesso, della verità che porta dentro,
nel segreto scrigno dove luci e tenebre si abbracciano in complice armonia.
Un’altalena perenne, perché c’è sempre bisogno del contrario, e del contrario
del contrario. Non si può vivere sempre nella grazia. Bisogna attraversare la
disgrazia per potersi guadagnare di nuovo la grazia. Bisogna farsi piccoli per
scoprire la grandezza. E’ il gioco eterno dei contrari. Più si infrange la
corazza dell’ego, più si fa spazio all’altro, al Gigante che è dentro di noi, a
quella testona che chiudiamo nel cassetto, rinunciando alla sua sapienza per
inseguire la nostra vanità. Titiwai è il canto di un uomo che la vita ha messo
a dura prova e che sa di dover passare “in mezzo ai rovi, tra le spine” per
poter uscire “con le ferite rimarginate al Sole”.
“Io non sapevo / che credere significa soffrire / con il sorriso / che ti
squarcia il cuore”. E’ la filosofia degli ultimi che saranno i primi, da
intendersi in senso spirituale, e non materiale come si ostinano a fare i più.
E’ un tornare alla sapienza innata di quella testona recisa che dal cassetto
reclama i suoi diritti, lanciando moniti che nell’epoca dei “senza testa”,
alfieri della vita facile, nessuno è più disposto ad ascoltare. Maria, nel
sogno descritto da Di Mario, finirà suicida nel Tevere, ma, svegliatasi dal
sogno, riuscirà a liberarsi di tutti i feticci e di tutti gli orpelli, certa
che “nessuno, neppure se stessa, avrebbe potuto rinchiudere, derubare,
annientare la sua testa. Lei non si sarebbe mai fermata”.
Franco Campegiani
Una operazione di riflessione quanto mai suggestiva questa messa in atto da F. Campegiani che legge a confronto due testi letterari molto diversi, in alcuni passaggi antitetici, che esaltano due generi letterari- il romanzo e la poesia- alla ricerca della tesi unificante, che sa magistralmente trovare, con i suoi raffinati strumenti filosofici, che ci suggerisce.
RispondiEliminaIl primo: il dialogo. La dimensione dialogica è connaturale alla conoscenza e all’ontologia dell’essere umano: tra-uomo-e-uomo, intercorre qualcosa che non ha l'eguale nella natura. Il secondo: un approfondimento del tema: il dialogo con se stessi, che non coincide affatto col monologo (…“come se l’uomo avesse due teste”), alla ricerca della autenticità. È, in altre parole, l'investimento dell'esistenza all'interno del rapporto, la disponibilità ad attingere dalla relazione la profondità dell'essere che vi è nascosta, il dialogo interiore dello spirito che riflette e che ricompone numerose tensioni, fra cui la coincidenza dialettica tra auto- ed etero-relazione, fra singolarità e universalità. In forza di questa premessa il nostro filosofo può addentrarsi nella comparazione dei due testi in analisi, apparentemente molto distanti.
Il romanzo della di Mario prende vita da un sogno che traduce una scelta di vita paradossale e allucinante (l’auto privazione della propria testa, che in nome di principi e coerenza, le impedisce di essere “ adeguata” al mondo in cui vive): la testa da riporre in un cassetto per “sentirsi libera e leggera, spensierata – almeno lei così credeva – pronta a lanciarsi, senza scrupoli, alla conquista del mondo” scoprendo però che le è divenuto impossibile recuperarla a piacimento… La poesia di Angelucci, che pure riflette sul degrado sociale, è parimenti un invito socratico alla ricerca, alla profondità, alla ricerca autentica di se stessi.
"Navighiamo per mari stranieri. / Cerchiamo in terre lontane / la creta che abbiamo nel cuore". Sta dentro di noi la verità, bisogna ritrovare la rotta …: questa è la rotta. Leggendo le due opere Campegiani ci invita a tornare agli equilibri del creato, a scoprire le origini e l’ armonia dell’ Universo.
Maria Grazia Ferraris non smette di stupire per lucidità e profondità di lettura. Queste sue note acutissime danno sinteticamente il senso di quanto ho cercato di dire a proposito di due autori molto interessanti, ma stilisticamente lontani tra di loro. In particolare, mi colpisce la chiarezza con cui espone la mia idea del dialogo, inteso innanzitutto come dialogo con se stessi, alla ricerca della verità: "Sta dentro di noi la verità, bisogna ritrovare la rotta".
RispondiEliminaFranco Campegiani