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domenica 25 agosto 2019

PINDEMONTE: "ULISSE E POLIFEMO"


IMMAGINE:JORDAENS, JACOB - ULISSE NELLA GROTTA DI POLIFEMO (1625).JPG


PINDEMONTE: ULISSE E POLIFEMO

Quelli afferrâr l’acuto palo, e in mezzo
Dell’occhio il conficcaro; ed io di sopra,
Levandomi su i piè, movealo in giro.
E come allor che tavola di nave
Il trapano appuntato investe, e fora,
Che altri il regge con mano, altri tirando
Va d’ambo i lati le corregge, e attorno
L’instancabile trapano si volve:
Sì nell’ampia lucerna il trave acceso
Noi giravamo. Scaturiva il sangue,
La pupilla bruciava, ed un focoso
Vapor, che tutta la palpebra, e il ciglio
Struggeva, uscia della pupilla, e l’ime
Crepitarne io sentia rotte radici.
Qual se fabbro talor nell’onda fredda
Attuffò un’ascia, o una stridente scure,
E temprò il ferro, e gli diè forza; tale
L’occhio intorno al troncon cigola e frigge.
     Urlo il Ciclope sì tremendo mise,
E tanto l’antro rimbombò, che noi
Qua e là ci spargemmo impauriti.
Ei fuor cavossi dell’occhiaja il trave,
E da sè lo scagliò di sangue lordo,
Furïando per doglia: indi i Ciclopi,
Che non lontani le ventose cime
Abitavan de’ monti in cave grotte,
Con voce alta chiamava. Ed i Ciclopi,
Quinci, e quindi accorrean, la voce udita,
E, soffermando alla spelonca il passo,
Della cagione il richiedean del duolo.
Per quale offesa, o Polifemo, tanto
Gridastu mai? Perchè così ci turbi
La balsamica notte, e i dolci sonni?
(…)
Se tuo pur son, se padre mio ti chiami,
Di tanto mi contenta: in patria Ulisse
D’Itaca abitator, figlio a Laerte,
Struggitor di cittadi, unqua non rieda.
E dove il natio suolo, e le paterne
Case il destin non gli negasse, almeno
Vi giunga tardi, e a stento, e in nave altrui,
Perduti in pria tutti i compagni, e nuove
Nell’avita magion trovi sciagure.
     Fatte le preci, e da Nettuno accolte,
Sollevò un masso di più vasta mole,
E, rotandol nell’aria, e una più grande
Forza immensa imprimendovi, lanciollo.
Cadde dopo la poppa, e del timone
La punta rasentò: levossi al tonfo
L’onda, e il legno coprì, che all’isoletta,
Spinto dal mar, subitamente giunse.
Quivi eran l’altre navi in su l’arena,
E i compagni, che assisi ad esse intorno
Ci attendean sempre con agli occhi il pianto.
Noi tosto in secco la veloce nave
Tirammo, e fuor n’uscimmo, e, del Ciclope
Trattone il gregge, il dividemmo in guisa,
Che parte ugual n’ebbe ciascuno. È vero,
Che voller, che a me sol, partite l’agne,
Il superbo arïete anco toccasse.
Io di mia mano al Saturníde, al cinto
D’oscure nubi Correttor del Mondo,
L’uccisi, e n’arsi le fiorite cosce.
Ma non curava i sagrifizi Giove,
Che anzi tra sè volgea, com’io le navi
Tutte, e tutti i compagni al fin perdessi.
L’intero dì sino al calar del Sole
Sedevam banchettando: il Sole ascoso,
Ed apparse le tenebre, le membra
Sul marin lido a riposar gettammo.
     Ma come del mattin la figlia, l’Alba
Ditirosata in Orïente sorse,
I compagni esortai, comandai loro
Di rimbarcarsi, e liberar le funi.
E quei si rimbarcavano, e su i banchi
Sedean l’un dopo l’altro, e percotendo
Gïan co’ remi concordi il bianco mare.
Così noi lieti per lo scampo nostro,
E per l’altrui sventura in un dolenti,
Del mar di nuovo solcavam le spume.


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