Emanuele Aloisi, collaboratore di Lèucade |
Emanuele Aloisi legge la silloge di
Claudia
Piccinno
“La nota irriverente”
La
poesia non è fuga dalla realtà, ma è lente di ingrandimento con cui si amplifica
la percezione stessa, di un luogo un uomo e di un oggetto, qualcosa che non ha
materia: meno materia ha, e più la prospettiva aumenta il focus, tramutandolo
in Topos.
È
ciò che avviene nella silloge “La nota irriverente”, dove, e in molte liriche,
l’autrice parla di prospettive e latitudini, di sguardi all’insù, oltre le
nuvole, e di aria a bassa quota. Scrive di geo-localizzazioni da cui osservare
un assoluto, una realtà ipotetica, una realtà del Tutto, insita nel relativo: “la relatività del tutto ci ha dato
l’assoluto”.
Nell’incipit
della silloge (L’ipotesi di te) scrive
Nessun teorema avrebbe confutato
l’ipotesi di te che avevo
amato
Due
versi, due endecasillabi, con cui l’autrice svela da subito la propria
padronanza metrica. Tuttavia non si costituisce, la sua poesia, di un
verseggiare lirico, di una ricerca di sonorità, che spesso è priva di contenuti.
La
poesia della Piccinno fa uso naturale di competenza linguistica, fonetica e
semantica, basata su maturate conoscenze, classiche e moderne, armonizzate tra
loro, con la finalità di una creazione artistica, poiché originale; una
creatura senza il DNA di assiomi, e pur avendo impronte...
Differenziata raccolta di
parole
Vuoti a perdere senza rimbombo
La
Speranza, ricorrente topos,
è il solo assioma
inconfutabile per qualsiasi teorema.
Allora,
ci si potrebbe chiedere, perché scrivere poesia? Perché fare, delle parole, una
silloge di pennellate d’anima?
Come
già detto, la poesia non è fuga dalla realtà, ma strumento con il quale
investigarla, frantumarla e ricomporla, dentro e fuori di sé.
Ed
è la realtà, e necessariamente deve esserlo, l’oggetto della poesia, che
piaccia, oppure no. E il poeta ce ne fa dono, come fa la Piccinno in questa
silloge. Ci fa dono di sé, del mondo che le è dentro, e di quello che la
circonda, quello che vede ed in cui vive, che tocca e non è fatto di distanze,
immaginarie emozioni, semmai vissute percezioni, talvolta attenuate proiezioni,
frenate, distanziate da finestrini e vetri opachi, interstizi “tra pelle e anima” e recinti di freddo
(Rotaie ruggenti)…
Il recinto mi ricorda quanto
sia lungo l’inverno
Nel cuore di questa nostra
Europa
Il
freddo dell’indifferenza, della sola passione virtuale, costruito e
simboleggiato da modernità fonetiche, il freddo dell’apatia e dell’ignominia,
sembrano riportarla al desiderio di calore, nella metafora del volo, e la paralisi
di fughe
Una colomba
Sui fili elettrici
Si scalda.
Quasi invoca la scossa
Per non sentire
Il ghiaccio che incombe.
Ed
è in essa che si “specchia/stalattite
senza sfumature”
alata
creatura adirata, delusa, poiché contaminata dallo stesso freddo, ed è per
questa ragione che invoca la scossa.
Pasolini
diceva: non costruire la vita come fosse
un’opera d’arte, ma l’opera d’arte come fosse la vita.
Ed
è la poetica che ritroviamo nella confessione artistica della Piccinno.
Nessun
estetismo liricheggiante, se non quello di un patrimonio usucapito, col bene tacito
del dono, impreziosito da studio, esperienze di perdite, rinunce e sacrifici,
dolori. Nessun estetismo formale, se non quello di una formazione linguistica,
e una valigia culturale appresso. Nessuna gratuità, finzione, gioco e
superficialità, se non la nota di un assonante vitalismo, di un atto poetico
autentico e diretto, come lo è la vita, che piaccia oppure no, la nota
irriverente.
L’autrice
è versatile, stilisticamente, linguisticamente, velatamente manierista, nell’uso
frequente di neologismi moderni, finalizzati a rendere carattere di pratica razionalità
al discorso poetico; è poligrafa, polisemica, a tratti polimorfa, poiché dotata
di talento mimetico, inteso come percorso di mimesi carnale ed ambientale, per riempirsi,
redimersi e andare oltre.
Sebbene
faccia uso di metafore, allegorie, analogie, tutto è decifrabile, e
ombrosamente diretto, persino l’amuleto montaliano, un mitologico girasole, che
osserva all’insù, in soste di parcheggi (pit-stop); persino gli atomi e le molecole
di affinità strappate, e affinità elettive (esplicito riferimento a W. Goethe).
E poi c’è Dante e il contrappasso (La pena del contrappasso)…
Poesia
in cui si rivolge a qualcuno, o di qualcuno parla, del suo “vuoto d’anima” e della sua “inconsistenza”, incompatibili con “l’immaginario” di una donna, col
consistente desiderio (lontano da costellazioni) di un nido; nido che nessun
usignolo farà mai lì dove è vuota la corteccia...
La pena del contrappasso
In questo inferno affronterai.
Immagine
che non ha nulla di criptato, o di non detto, ma espresso con trasparenza oracolare.
L’autrice
non ricorre all’ermetismo, nel senso che non cela vissuti ed emozioni, ma parla
di segreti “per non appassire”, e li
confessa, involontariamente, o volontariamente, con la voce della poesia. E soprattutto
non fugge con ali spiumate da ogni eco realistica. È fondamentalmente
concentrata ed essenziale ma non trascendente, non tesa verso l’ineffabile, e
nonostante faccia “il salto nel buio”
(Spalle alle rotaie), ma senza intenzionalità, la pretesa di svelare
illuminazioni (Rimbau), anche se con “inusuale
gioia...scopre più luce nella grotta che non nella penombra”.
Una
grotta piena di atmosfere temporali, di atomi e molecole palpate, a volte
intuite, ma non lontane e trascendenti (M. Luzi).
Potremmo
definirla antifilosofia platonica, in riferimento al mito della caverna. La
Poetessa non necessita di uscire allo scoperto dove la luce è maschera, dove si
abbagliano apparenze, pirandelliani personaggi giocolieri, striscioni e giorni
di festa, Arlecchini in quaresima. Una realtà fatta di sorrisi forzati, e
abbozzi terapeutici di umore, per camuffare il niente, anche paure, e addii
incipienti. Non vuole il sole del rumore, solo un “esplicito silenzio”, la lampada della poesia, per ritrovarsi
Cassandra in dialogo con se stessa: “nella
più sterile delle illusioni/quella di essere amata/malgrado le (sue) debolezze”. E fa un mea-culpa, e
venticinque volte, come un settanta volte sette andato a male, un atto di
dolore (Parlami Dio) per ciò che ha di buono, e ancor di più per ciò che ha di
sbagliato, per la rabbia che non trasforma in compassione.
Ma
di compassione, nel significato etimologico, ne ritroviamo tracimante, nella
silloge della Piccinno: un verbo di carne tintinnante: la nota irriverente, un pugno
sonoro alla ragione.
E
s’incarna, coprendosi di fogli bianchi, nelle vittime di malasanità e
solitudine, di malattie e sconforti; nelle vittime della violenza di genere (Addio
Stellina mia - Lei lo sa- Donne). La rabbia la porta a maledire, e dire in
sillabe accennate, e penetranti pause, urlate, come fossero spine, e chiodi
senza ruggine; come fossero strappi, brandelli di carne, e grani ritrovati di
preghiera. Rabbia che si alterna a dosi di filiale e materna tenerezza. Poesia
dove si evidenzia l’importanza del ruolo pedagogico della cultura,
dell’educazione e della formazione (essendo lei madre, e insegnante)…
Io madre di Noemi
Io madre del suo boia
Poiché
la donna non è soltanto vittima del suo carnefice, ma è prima madre, di un uomo,
di un Pericle anticipatore di metamorfosi kafkiana.
In
questo salto nel buio, nel confessionale della grotta (metafora della poesia),
l’autrice va alla ricerca di un abbraccio con se stessa, di una realtà che trova,
forse, un tutto un niente, un relativo-assoluto, un concreto labirinto
spazio-temporale che la vede viaggiatrice “pendolare
dei cieli”, esploratrice e geologa, alla ricerca di una terra, delle sue
viscere e delle sue radici, di autentici patrimoni ereditati, il cui valore non
ha prezzo
E non mi pesa questo
peregrinare
se la ricompensa
è ancora il suo sorriso
Il
sorriso di una madre, di un padre, con cui “ridevamo
della frenesia altrui/noi che ci regalavamo il nostro tempo”…”c’era la vita da
raccontare/i nostri sogni, i desideri, i ricordi”.
Un
dantesco peregrinare, tra fronde di vitali selve, acacie e giri veritieri,
funerei luoghi, dove ritrova cieli, e voli di gabbiani a pelo d’acqua: “erano le anime dei miei cari”.
A
pelo d’acqua...la realtà di un corrispondente viaggio. Un viaggio, scriveva
Baudelaire
Per il ragazzo amante delle
mappe e delle stampe
l’universo è pari al suo
smisurato appetito.
Com’è grande il mondo al lume
delle lampade!
Com’è piccolo il mondo agli
occhi del ricordo!
Un mattino partiamo, il
cervello in fiamme,
il cuore gonfio di rancori e
desideri amari,
e andiamo, al ritmo delle
onde, cullando
il nostro infinito
sull’infinito dei mari(...)
Ma i veri viaggiatori partono
per partire(...)
Partono
per partire -i poeti- portandosi la lampada dell’alfabeto appresso, come
dichiara la Piccinno, che tra le onde del suo mare trova l’olio, “l’olio migliore”, che ripulisce “la polvere tiranna/ e luci(da) ingranaggi
senza vita”.
Parte
per partire, “anima errante”, e tra
le nuvole con un timone in mano, alla ricerca di una casa, e un’altra mano, un
porto dove scomporre, e ricomporre le lettere dell’alfabeto. Ma è senza regole
di sintassi –il volo- “non può obbedire/
a una traiettoria/nell’imprevisto ha le sue coordinate”.
Si
scopre il fascino di una meta, di un’Itaca nel viaggio stesso, un tuffo nel
lago dello specchio, come il Narciso di un Raffaello d’avanguardia. Vi si
rispecchia per riflettere, e riconoscere, nelle “cromie del reticolo” che “tramontano
i dubbi”, nel logorante gioco di luci e ombre, per ritrovare una
conoscenza, compresa la consapevolezza che il dolore, come diceva Seneca, non è
un male, ma un disagio da sopportare, spiritualmente
da portare, per accrescere la virtù della forza interiore. Hermann Hesse
diceva: “Incominciai a capire che i dolori, le delusioni e la malinconia non
sono fatti per renderci scontenti e toglierci valore e dignità, ma per
maturarci”. E per il poeta, nella
visione romantica, un percorso gnoseologico, capace di ispirare il desiderio di
pace dall’inquietudine: “la gioia di essere tristi”(V.Hugo). Per l’uomo, un
cortocircuito tra dolore e piacere, che non è certo masochismo, il percorso
fisiologico di fare del dolore un’esperienza che arricchisce il proprio
bagaglio e in grado di generare, attraverso la memoria collettiva,
un’esperienza di crescita e di gioia: dal dolore la voglia di denunciarlo, di
condividerlo e farne salvezza. E la poesia, quando è condivisa, è un’esperienza
comune e comunitaria, umana. È una sinestesia di assenze, e ritrovate presenze nel
verde-giallo delle foglie, nel retrogusto di spremute d’arance: “eravamo noi” (esplicito correlativo
Eliottiano).
L’autrice
dipinge, con le parole, tele di specchi nelle cui maglie si riflette e vi fa entrare
il lettore, come una sindrome di Stendhal, per ritrovare un Montaliano varco
tra passato e presente, la discrepanza tra il non cuore e il cuore, tra la memoria
e la necessità di oblio.
La
memoria dei cari, dei morti “tra le tombe”
dove “l’upupa ride sommessa/ lei lo sa
che cerco invano/voci e volti tra le zolle/il suo verso mi dice/ di cercare
altrove” (Novembre).
Biblica
immagine di non morte: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Luca
24). Una memoria che permette la Resurrezione “nel solito incedere/nei passi dispersi”, nella vita di ogni
giorno.
Il
cuore dell’amore, quello che fa vibrare l’anima, all’unisono di un palpito di
carne accarezzata.
E
poi vi è la necessità della non memoria, racchiusa nella fonte di un perdono
imperdonabile, nella necessità dell’oblio, strumento indispensabile per spiccare
il volo: “l’amore richiede coraggio”,
per riprendersi “il tempo che occorre/per
celebrare memoria/e seminare speranza”; il tempo per ritornare a volare,
per vivere, come
“ avvoltoio (di
un) cannibale/senza più rabbia”.
Ed
è lì la conoscenza, è nella nota irriverente, nell’eco d’onda a pelo d’acqua, nello
specchio e nell’abbraccio del riflesso, nell’anfora ferita della vita. La
poesia è creazione, e non rinuncia alle cicatrici della materia, alle corde di
una voce, ai manici di un deus figulus...
(Il
solo antidoto)
Così raccolgo i cocci e faccio
un vaso
lì custodisco la forza di
proseguire
Il cammino
un carburante rinnovabile
fuoriesce dal vaso risanato
nessuna epigrafe ci svela il
segreto
di quanto coraggio ci impone
la vita.
Emanuele Aloisi
Grazie mille a entrambi per la vostra preziosa lettura e grazie Nazario per la cortese ospitalità
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