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lunedì 2 settembre 2019

EMANUELE ALOISI LEGGE: "LA NOTA IRRIVERENTE" DI CLAUDIA PICCINNO

Emanuele Aloisi,
collaboratore di Lèucade


Emanuele Aloisi legge la silloge di
Claudia Piccinno
“La nota irriverente”

La poesia non è fuga dalla realtà, ma è lente di ingrandimento con cui si amplifica la percezione stessa, di un luogo un uomo e di un oggetto, qualcosa che non ha materia: meno materia ha, e più la prospettiva aumenta il focus, tramutandolo in Topos.
È ciò che avviene nella silloge “La nota irriverente”, dove, e in molte liriche, l’autrice parla di prospettive e latitudini, di sguardi all’insù, oltre le nuvole, e di aria a bassa quota. Scrive di geo-localizzazioni da cui osservare un assoluto, una realtà ipotetica, una realtà del Tutto, insita nel relativo: “la relatività del tutto ci ha dato l’assoluto”.
Nell’incipit della silloge (L’ipotesi di te) scrive
Nessun teorema avrebbe confutato
l’ipotesi di te che avevo amato

Due versi, due endecasillabi, con cui l’autrice svela da subito la propria padronanza metrica. Tuttavia non si costituisce, la sua poesia, di un verseggiare lirico, di una ricerca di sonorità, che spesso è priva di contenuti.
La poesia della Piccinno fa uso naturale di competenza linguistica, fonetica e semantica, basata su maturate conoscenze, classiche e moderne, armonizzate tra loro, con la finalità di una creazione artistica, poiché originale; una creatura senza il DNA di assiomi, e pur avendo impronte...
Differenziata raccolta di parole
Vuoti a perdere senza rimbombo

La Speranza, ricorrente topos,
è il solo assioma inconfutabile per qualsiasi teorema.
Allora, ci si potrebbe chiedere, perché scrivere poesia? Perché fare, delle parole, una silloge di pennellate d’anima?
Come già detto, la poesia non è fuga dalla realtà, ma strumento con il quale investigarla, frantumarla e ricomporla, dentro e fuori di sé.
Ed è la realtà, e necessariamente deve esserlo, l’oggetto della poesia, che piaccia, oppure no. E il poeta ce ne fa dono, come fa la Piccinno in questa silloge. Ci fa dono di sé, del mondo che le è dentro, e di quello che la circonda, quello che vede ed in cui vive, che tocca e non è fatto di distanze, immaginarie emozioni, semmai vissute percezioni, talvolta attenuate proiezioni, frenate, distanziate da finestrini e vetri opachi, interstizi “tra pelle e anima” e recinti di freddo (Rotaie ruggenti)…
Il recinto mi ricorda quanto sia lungo l’inverno
Nel cuore di questa nostra Europa

Il freddo dell’indifferenza, della sola passione virtuale, costruito e simboleggiato da modernità fonetiche, il freddo dell’apatia e dell’ignominia, sembrano riportarla al desiderio di calore, nella metafora del volo, e la paralisi di fughe

Una colomba
Sui fili elettrici
Si scalda.
Quasi invoca la scossa
Per non sentire
Il ghiaccio che incombe.

Ed è in essa che si “specchia/stalattite senza sfumature”
alata creatura adirata, delusa, poiché contaminata dallo stesso freddo, ed è per questa ragione che invoca la scossa.
Pasolini diceva: non costruire la vita come fosse un’opera d’arte, ma l’opera d’arte come fosse la vita.
Ed è la poetica che ritroviamo nella confessione artistica della Piccinno.
Nessun estetismo liricheggiante, se non quello di un patrimonio usucapito, col bene tacito del dono, impreziosito da studio, esperienze di perdite, rinunce e sacrifici, dolori. Nessun estetismo formale, se non quello di una formazione linguistica, e una valigia culturale appresso. Nessuna gratuità, finzione, gioco e superficialità, se non la nota di un assonante vitalismo, di un atto poetico autentico e diretto, come lo è la vita, che piaccia oppure no, la nota irriverente.
L’autrice è versatile, stilisticamente, linguisticamente, velatamente manierista, nell’uso frequente di neologismi moderni, finalizzati a rendere carattere di pratica razionalità al discorso poetico; è poligrafa, polisemica, a tratti polimorfa, poiché dotata di talento mimetico, inteso come percorso di mimesi carnale ed ambientale, per riempirsi, redimersi e andare oltre.
Sebbene faccia uso di metafore, allegorie, analogie, tutto è decifrabile, e ombrosamente diretto, persino l’amuleto montaliano, un mitologico girasole, che osserva all’insù, in soste di parcheggi (pit-stop); persino gli atomi e le molecole di affinità strappate, e affinità elettive (esplicito riferimento a W. Goethe). E poi c’è Dante e il contrappasso (La pena del contrappasso)…
Poesia in cui si rivolge a qualcuno, o di qualcuno parla, del suo “vuoto d’anima” e della sua “inconsistenza”, incompatibili con “l’immaginario” di una donna, col consistente desiderio (lontano da costellazioni) di un nido; nido che nessun usignolo farà mai lì dove è vuota la corteccia...
La pena del contrappasso
In questo inferno affronterai.

Immagine che non ha nulla di criptato, o di non detto, ma espresso con trasparenza oracolare.
L’autrice non ricorre all’ermetismo, nel senso che non cela vissuti ed emozioni, ma parla di segreti “per non appassire”, e li confessa, involontariamente, o volontariamente, con la voce della poesia. E soprattutto non fugge con ali spiumate da ogni eco realistica. È fondamentalmente concentrata ed essenziale ma non trascendente, non tesa verso l’ineffabile, e nonostante faccia “il salto nel buio” (Spalle alle rotaie), ma senza intenzionalità, la pretesa di svelare illuminazioni (Rimbau), anche se con “inusuale gioia...scopre più luce nella grotta che non nella penombra”.
Una grotta piena di atmosfere temporali, di atomi e molecole palpate, a volte intuite, ma non lontane e trascendenti (M. Luzi).
Potremmo definirla antifilosofia platonica, in riferimento al mito della caverna. La Poetessa non necessita di uscire allo scoperto dove la luce è maschera, dove si abbagliano apparenze, pirandelliani personaggi giocolieri, striscioni e giorni di festa, Arlecchini in quaresima. Una realtà fatta di sorrisi forzati, e abbozzi terapeutici di umore, per camuffare il niente, anche paure, e addii incipienti. Non vuole il sole del rumore, solo un “esplicito silenzio”, la lampada della poesia, per ritrovarsi Cassandra in dialogo con se stessa: “nella più sterile delle illusioni/quella di essere amata/malgrado le (sue) debolezze”. E fa un mea-culpa, e venticinque volte, come un settanta volte sette andato a male, un atto di dolore (Parlami Dio) per ciò che ha di buono, e ancor di più per ciò che ha di sbagliato, per la rabbia che non trasforma in compassione.
Ma di compassione, nel significato etimologico, ne ritroviamo tracimante, nella silloge della Piccinno: un verbo di carne  tintinnante: la nota irriverente, un pugno sonoro alla ragione.
E s’incarna, coprendosi di fogli bianchi, nelle vittime di malasanità e solitudine, di malattie e sconforti; nelle vittime della violenza di genere (Addio Stellina mia - Lei lo sa- Donne). La rabbia la porta a maledire, e dire in sillabe accennate, e penetranti pause, urlate, come fossero spine, e chiodi senza ruggine; come fossero strappi, brandelli di carne, e grani ritrovati di preghiera. Rabbia che si alterna a dosi di filiale e materna tenerezza. Poesia dove si evidenzia l’importanza del ruolo pedagogico della cultura, dell’educazione e della formazione (essendo lei madre, e insegnante)…
Io madre di Noemi
Io madre del suo boia

Poiché la donna non è soltanto vittima del suo carnefice, ma è prima madre, di un uomo, di un Pericle anticipatore di metamorfosi kafkiana.
In questo salto nel buio, nel confessionale della grotta (metafora della poesia), l’autrice va alla ricerca di un abbraccio con se stessa, di una realtà che trova, forse, un tutto un niente, un relativo-assoluto, un concreto labirinto spazio-temporale che la vede viaggiatrice “pendolare dei cieli”, esploratrice e geologa, alla ricerca di una terra, delle sue viscere e delle sue radici, di autentici patrimoni ereditati, il cui valore non ha prezzo
E non mi pesa questo
peregrinare
se la ricompensa
è ancora il suo sorriso

Il sorriso di una madre, di un padre, con cui “ridevamo della frenesia altrui/noi che ci regalavamo il nostro tempo”…”c’era la vita da raccontare/i nostri sogni, i desideri, i ricordi”.
Un dantesco peregrinare, tra fronde di vitali selve, acacie e giri veritieri, funerei luoghi, dove ritrova cieli, e voli di gabbiani a pelo d’acqua: “erano le anime dei miei cari”.
A pelo d’acqua...la realtà di un corrispondente viaggio. Un viaggio, scriveva Baudelaire
Per il ragazzo amante delle mappe e delle stampe
l’universo è pari al suo smisurato appetito.
Com’è grande il mondo al lume delle lampade!
Com’è piccolo il mondo agli occhi del ricordo!
Un mattino partiamo, il cervello in fiamme,
il cuore gonfio di rancori e desideri amari,
e andiamo, al ritmo delle onde, cullando
il nostro infinito sull’infinito dei mari(...)

Ma i veri viaggiatori partono per partire(...)


Partono per partire -i poeti- portandosi la lampada dell’alfabeto appresso, come dichiara la Piccinno, che tra le onde del suo mare trova l’olio, “l’olio migliore”, che ripulisce “la polvere tiranna/ e luci(da) ingranaggi senza vita”.
Parte per partire, “anima errante”, e tra le nuvole con un timone in mano, alla ricerca di una casa, e un’altra mano, un porto dove scomporre, e ricomporre le lettere dell’alfabeto. Ma è senza regole di sintassi –il volo- “non può obbedire/ a una traiettoria/nell’imprevisto ha le sue coordinate”.
Si scopre il fascino di una meta, di un’Itaca nel viaggio stesso, un tuffo nel lago dello specchio, come il Narciso di un Raffaello d’avanguardia. Vi si rispecchia per riflettere, e riconoscere, nelle “cromie del reticolo” che “tramontano i dubbi”, nel logorante gioco di luci e ombre, per ritrovare una conoscenza, compresa la consapevolezza che il dolore, come diceva Seneca, non è un male,  ma un disagio da sopportare, spiritualmente da portare, per accrescere la virtù della forza interiore. Hermann Hesse diceva: “Incominciai a capire che i dolori, le delusioni e la malinconia non sono fatti per renderci scontenti e toglierci valore e dignità, ma per maturarci”.  E per il poeta, nella visione romantica, un percorso gnoseologico, capace di ispirare il desiderio di pace dall’inquietudine: “la gioia di essere tristi”(V.Hugo). Per l’uomo, un cortocircuito tra dolore e piacere, che non è certo masochismo, il percorso fisiologico di fare del dolore un’esperienza che arricchisce il proprio bagaglio e in grado di generare, attraverso la memoria collettiva, un’esperienza di crescita e di gioia: dal dolore la voglia di denunciarlo, di condividerlo e farne salvezza. E la poesia, quando è condivisa, è un’esperienza comune e comunitaria, umana. È una sinestesia di assenze, e ritrovate presenze nel verde-giallo delle foglie, nel retrogusto di spremute d’arance: “eravamo noi” (esplicito correlativo Eliottiano).
L’autrice dipinge, con le parole, tele di specchi nelle cui maglie si riflette e vi fa entrare il lettore, come una sindrome di Stendhal, per ritrovare un Montaliano varco tra passato e presente, la discrepanza tra il non cuore e il cuore, tra la memoria e la necessità di oblio.
La memoria dei cari, dei morti “tra le tombe” dove “l’upupa ride sommessa/ lei lo sa che cerco invano/voci e volti tra le zolle/il suo verso mi dice/ di cercare altrove” (Novembre).
Biblica immagine di non morte: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Luca 24). Una memoria che permette la Resurrezione “nel solito incedere/nei passi dispersi”, nella vita di ogni giorno.
Il cuore dell’amore, quello che fa vibrare l’anima, all’unisono di un palpito di carne accarezzata.
E poi vi è la necessità della non memoria, racchiusa nella fonte di un perdono imperdonabile, nella necessità dell’oblio, strumento indispensabile per spiccare il volo: “l’amore richiede coraggio”, per riprendersi “il tempo che occorre/per celebrare memoria/e seminare speranza”; il tempo per ritornare a volare, per vivere, come
“ avvoltoio (di un) cannibale/senza più rabbia”.
Ed è lì la conoscenza, è nella nota irriverente, nell’eco d’onda a pelo d’acqua, nello specchio e nell’abbraccio del riflesso, nell’anfora ferita della vita. La poesia è creazione, e non rinuncia alle cicatrici della materia, alle corde di una voce, ai manici di un deus figulus...

(Il solo antidoto)
Così raccolgo i cocci e faccio un vaso
lì custodisco la forza di proseguire
Il cammino
un carburante rinnovabile
fuoriesce dal vaso risanato
nessuna epigrafe ci svela il segreto
di quanto coraggio ci impone la vita.

 Emanuele  Aloisi

1 commento:

  1. Grazie mille a entrambi per la vostra preziosa lettura e grazie Nazario per la cortese ospitalità

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