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lunedì 23 settembre 2019

NAZARIO P. LEGGE: "I COLORI DELL'IRIDE" DI C. FIORENTINI














Claudio Fiorentini,
collaboratore di Lèucade

Preludio

Sono qui, con voi
intanto Dio, o chi per lui
rimane in panchina seguendo distrattamente il nostro gioco.
Fosse per me, gliene direi quattro
a quell’allenatore inutile
però sono in campo a compiere il mio destino
insieme a voi, giocando fino a sfinimento.
Ho anche pensato, di traverso, di chiedere la sostituzione
per sedermi in panchina e guardarvi senza correre
ma sarebbe da vigliacchi lasciare agli altri il gioco
e poi ci sono gli avversari…

E’ così che inizia lo spartito ontologico di Claudio Fiorentini. Un irriverente messaggio; una presa di posizione tranchant nei confronti di un ente supremo visto come un distratto allenatore che segue passivamente il gioco: così l’autore mette subito i puntini sulle i per quanto riguarda il suo pensiero filosofico ed escatologico. Questo è il poeta. La sua poesia va dritta al segno, non si perde in scorciatoie o in parafrastiche evoluzioni formali; va per remate solide e consistenti per raggiungere al più presto la spiaggia illuminata dal faro dei suoi principi.    I sette colori dell’iride in mezzo al nero e al bianco, il titolo del nuovo lavoro editato per i caratteri della casa editrice ensemble, 2019.

Il nero:

Vorrei aggiungermi a quella smania di colore
che dal suo pulpito mi guida
per sgocciolare con le sette meraviglie
ma non posso.
Dicono che io fagociti la luce
ma è vero il contrario: io sono il pianto della luce
il suo sostituto.
Quando lei non c’è, eccomi qua, provvidenziale
un tappabuchi triste e buio.
Questa è la mia sorte…

Un tappabuchi triste e buio. Un navigatore sperso in un mare largo e potente, lui umile mortale, di fronte alla tracotanza della sorte.

Il rosso:

(…)
Ma vai, vai,
altri attimi ti aspettano... dimenticami»
e si dissolse come una fiamma
mentr’io, spezzato il mio tempo
volsi lo sguardo all’orizzonte
dove il tramonto uccideva ogni orrore.

Una solitudine epigrammatica di fronte ad un orizzonte che si prepara alla notte dei pensieri.
 Immagini forti, sorrette da un linguismo altrettanto forte, dove un’anima ribelle offre tutti suoi palpiti emotivi per una reificazione visiva ed esplosiva. I monemi, i fonemi, i sintagmi si accavallano impetuosi nel seguire la corsa di un animo impegnato a dire di sé, della sua vita, del suo pensiero; del suo esistere:

(…)
Sarà così, per me, per sempre:
vivere cercandoti, vita, e mai trovarti
ma sempre felice, spudoratamente felice
perché io so che sei, vita
unica, così.

Un sentimento che fa della vita l’approdo all’isola sognata, ma che, al contempo, lo rifiuta cosciente della sua ingenerosità. Vivere nella speranza, nella gioia di vivere, ma anche nell’accettazione di  ciò che non è; di ciò che non può essere.

(…)
canterò un’ode straziante
ma felice
profondamente, insanamente felice
perché saprò che se anche un solo istante
mi sono saziato di vita
anche solo per quello
il percorso non è stato vano
e sorriderò al sole che tramonta
nell’abbraccio che tutto prende con sé.

La coscienza di averla vissuta questa storia in tutta la sua pluralità dà al poeta la forza di sorridere, anche se sa che breve è il corso della navigazione e che il mare prima o poi fagociterà quella barca che l’ha fatto scorrazzare in su e in giù a gioire della bellezza iridea del tramonto. Tutto contiene questa silloge; i meandri umani di una vicissitudine che tanto sanno di esistere e di essere: memoria, passato, tempus fugit, naturalismo, visionario, psicologismo…  Una complessità di giochi che nel suo insieme disegna il travaglio ingarbugliato di un’esistenza.

(…)
Ma poi, quando si risale la china
Dio, consumato e dimenticato
rimane in disparte
come in attesa della ricarica.
Si sa, dolore e gioia
hanno un dio diverso:
il primo è spietato
il secondo è ignorato.
E noi, sentendoci in colpa
rivolgiamo pensieri
a un dio di convenienza
consumando Dio.

Salite, sconfitte, inquietudini, solitudini, ogni sfumatura del fatto di esistere compreso l’approccio al Dio verso cui ci rivolgiamo a convenienza, consumando tutte le cartucce della carica.  Non ci sono cedimenti in questa filosofia, il poeta analizza la storia senza pudore, senza alcuna reticenza; va a fondo e tutto è pensato e rielaborato secondo l’esperienza di un uomo cresciuto tra i meandri di una vicenda; prende i fatti, li assorbe, li spennella del suo patema esistenziale, dell’essenza del suo credo, e li dà alla poesia che fedele  e obbediente si contorce, si allunga, si scorcia a seconda delle emozioni e degli intendimenti  che fuoriescono. Folto ed energico il verbalismo ci dice di un autore aduso alla letteratura; di uno scrittore che in possesso di tutti i mezzi scritturali spiattella ora con veemenza,   ora con sottigliezza, ora con garbo quello che dentro urge.

Arancione;

(…)
mi chiedevo: perché la natura mi ha usato così poco?
Perché la gioia è così deperibile?
Fossi un sorriso, varrei di più.

Questioni umane, interrogativi insolubili, domande che fagocitano risposte: natura, gioia, sorriso: tutto è giocato in versi apodittici, allusivi, in braccio a metaforici congegni espressivi. Maturità? Esperienza? Vita? La gioia di sentirsi tristi, direbbe Hugo. Il fatto sta che l’autore ama la sua storia, e l’ama a tal punto di sentirla nemica per non avergli concesso tutto quello che ha promesso:

Verde:

(…)
La vita è nella mora nera che colgo a settembre
nel giallo della ginestra
nel rosso delle bacche di agrifoglio
nello schiaffo del vento
nel silenzio dell’uomo...
Desidero quello che non ho
ma amo quello che trovo     

Blu:

(…)
Lì, qualunque stella tu osservi
pensa a quanto ci ha messo la sua luce per arrivare a te
e chiediti perché lo ha fatto.
Allora, stringendo le tue membra in un abbraccio
piangi, urla, ridi
perché sei vivo
e altra missione a te non rimane
che portare a termine questa tua vita.
Con le sconcezze, sì, con le debolezze, sì...
ma anche con le virtù che di te hanno fatto
quello che sei.

Portare a fine una missione; tutto quello che hai è degno di essere: luce, perché, abbraccio, vivo, virtù. Sì, la vita è fatta di buono e di cattivo; ma forse non è proprio per questo, per la sua varietà, per la sua pluralità, che la si ama? Anche nei suoi colori simili a campi macchiati di papaveri?

Colori

Cos’è mai la luce
se non una smania di colore
che si allontana dalla noia
che luce non è?
Si trova, la luce
in ogni ruga della vita
in ogni attimo ribelle
in ciascuno di quei momenti
che non si piegano al passo del tempo
ma che si dilatano
che rimangono per sempre fissi nell’anima
che tutti insieme fanno il perché della vita.
Questo però va chiarito:
non è la memoria
ma l’anima che alberga quegli attimi
nostri o non nostri
non importa.
Quando il dolore stana la tristezza
e si predispone a farne un idolo
l’attimo non teme la sfida
e si impone nella sua lucentezza
perché solo lui, ora e sempre
la fa da padrone.
Non è la tristezza
ma la gioia che piega la vita alla sua volontà.
Non è il buio
ma la luce che guida le nostre volontà.
Non è la morte
ma la vita che, pietra su pietra
diventa un muro a secco
che divide due campi
uno di grano, l’altro di girasoli...
entrambi macchiati di papaveri.

Nazario Pardini


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