Claudio Fiorentini, collaboratore di Lèucade |
Preludio
Sono qui, con voi
intanto Dio, o chi per lui
rimane in panchina seguendo
distrattamente il nostro gioco.
Fosse per me, gliene direi quattro
a quell’allenatore inutile
però sono in campo a compiere il mio
destino
insieme a voi, giocando fino a sfinimento.
Ho anche pensato, di traverso, di
chiedere la sostituzione
per sedermi in panchina e guardarvi
senza correre
ma sarebbe da vigliacchi lasciare agli
altri il gioco
e poi ci sono gli avversari…
E’ così che inizia lo spartito ontologico di Claudio
Fiorentini. Un irriverente messaggio; una presa di posizione tranchant nei
confronti di un ente supremo visto come un distratto allenatore che segue
passivamente il gioco: così l’autore mette subito i puntini sulle i per quanto
riguarda il suo pensiero filosofico ed escatologico. Questo è il poeta. La sua
poesia va dritta al segno, non si perde in scorciatoie o in parafrastiche
evoluzioni formali; va per remate solide e consistenti per raggiungere al più
presto la spiaggia illuminata dal faro dei suoi principi. I sette colori dell’iride in mezzo al nero e al
bianco, il titolo del nuovo lavoro editato per i caratteri della casa editrice
ensemble, 2019.
Il nero:
Vorrei aggiungermi a quella smania di
colore
che dal suo pulpito mi guida
per sgocciolare con le sette meraviglie
ma non posso.
Dicono che io fagociti la luce
ma è vero il contrario: io sono il
pianto della luce
il suo sostituto.
Quando lei non c’è, eccomi qua,
provvidenziale
un tappabuchi triste e buio.
Questa è la mia sorte…
Un tappabuchi triste e buio. Un navigatore sperso in un mare
largo e potente, lui umile mortale, di fronte alla tracotanza della sorte.
Il
rosso:
(…)
Ma vai, vai,
altri attimi ti aspettano...
dimenticami»
e si dissolse come una fiamma
mentr’io, spezzato il mio tempo
volsi lo sguardo all’orizzonte
dove il tramonto uccideva ogni
orrore.
Una solitudine epigrammatica di
fronte ad un orizzonte che si prepara alla notte dei pensieri.
Immagini forti,
sorrette da un linguismo altrettanto forte, dove un’anima ribelle offre tutti
suoi palpiti emotivi per una reificazione visiva ed esplosiva. I monemi, i
fonemi, i sintagmi si accavallano impetuosi nel seguire la corsa di un animo
impegnato a dire di sé, della sua vita, del suo pensiero; del suo esistere:
(…)
Sarà così, per me, per sempre:
vivere cercandoti, vita, e mai trovarti
ma sempre felice, spudoratamente felice
perché io so che sei, vita
unica, così.
Un sentimento che fa della vita l’approdo all’isola sognata,
ma che, al contempo, lo rifiuta cosciente della sua ingenerosità. Vivere nella
speranza, nella gioia di vivere, ma anche nell’accettazione di ciò che non è; di ciò che non può essere.
(…)
canterò un’ode straziante
ma felice
profondamente, insanamente felice
perché saprò che se anche un solo
istante
mi sono saziato di vita
anche solo per quello
il percorso non è stato vano
e sorriderò al sole che tramonta
nell’abbraccio che tutto prende con sé.
La coscienza di averla vissuta questa storia in tutta la sua
pluralità dà al poeta la forza di sorridere, anche se sa che breve è il corso
della navigazione e che il mare prima o poi fagociterà quella barca che l’ha fatto
scorrazzare in su e in giù a gioire della bellezza iridea del tramonto. Tutto
contiene questa silloge; i meandri umani di una vicissitudine che tanto sanno
di esistere e di essere: memoria, passato, tempus fugit, naturalismo, visionario,
psicologismo… Una complessità di giochi
che nel suo insieme disegna il travaglio ingarbugliato di un’esistenza.
(…)
Ma poi, quando si risale la china
Dio, consumato e dimenticato
rimane in disparte
come in attesa della ricarica.
Si sa, dolore e gioia
hanno un dio diverso:
il primo è spietato
il secondo è ignorato.
E noi, sentendoci in colpa
rivolgiamo pensieri
a un dio di convenienza
consumando Dio.
Salite, sconfitte, inquietudini, solitudini, ogni sfumatura del
fatto di esistere compreso l’approccio al Dio verso cui ci rivolgiamo a
convenienza, consumando tutte le cartucce della carica. Non ci sono cedimenti in questa filosofia, il
poeta analizza la storia senza pudore, senza alcuna reticenza; va a fondo e
tutto è pensato e rielaborato secondo l’esperienza di un uomo cresciuto tra i
meandri di una vicenda; prende i fatti, li assorbe, li spennella del suo patema
esistenziale, dell’essenza del suo credo, e li dà alla poesia che fedele e obbediente si contorce, si allunga, si scorcia
a seconda delle emozioni e degli intendimenti che fuoriescono. Folto ed energico il
verbalismo ci dice di un autore aduso alla letteratura; di uno scrittore che in
possesso di tutti i mezzi scritturali spiattella ora con veemenza, ora con sottigliezza, ora con garbo quello
che dentro urge.
Arancione;
(…)
mi chiedevo: perché la natura mi ha
usato così poco?
Perché la gioia è così deperibile?
Fossi un sorriso, varrei di più.
Questioni umane, interrogativi
insolubili, domande che fagocitano risposte: natura, gioia, sorriso: tutto è
giocato in versi apodittici, allusivi, in braccio a metaforici congegni
espressivi. Maturità? Esperienza? Vita? La gioia di sentirsi tristi, direbbe
Hugo. Il fatto sta che l’autore ama la sua storia, e l’ama a tal punto di
sentirla nemica per non avergli concesso tutto quello che ha promesso:
Verde:
(…)
La vita è nella mora nera che colgo a
settembre
nel giallo della ginestra
nel rosso delle bacche di agrifoglio
nello schiaffo del vento
nel silenzio dell’uomo...
Desidero quello che non ho
ma amo quello che trovo
Blu:
(…)
Lì, qualunque stella tu osservi
pensa a quanto ci ha messo la sua luce
per arrivare a te
e chiediti perché lo ha fatto.
Allora, stringendo le tue membra in un
abbraccio
piangi, urla, ridi
perché sei vivo
e altra missione a te non rimane
che portare a termine questa tua vita.
Con le sconcezze, sì, con le debolezze,
sì...
ma anche con le virtù che di te hanno
fatto
quello che sei.
Portare a fine una missione; tutto quello che hai è degno di
essere: luce, perché, abbraccio, vivo, virtù. Sì, la vita è fatta di buono e di
cattivo; ma forse non è proprio per questo, per la sua varietà, per la sua
pluralità, che la si ama? Anche nei suoi colori simili a campi macchiati di
papaveri?
Colori
Cos’è mai
la luce
se non
una smania di colore
che si
allontana dalla noia
che luce
non è?
Si trova,
la luce
in ogni
ruga della vita
in ogni
attimo ribelle
in
ciascuno di quei momenti
che non
si piegano al passo del tempo
ma che si
dilatano
che
rimangono per sempre fissi nell’anima
che tutti
insieme fanno il perché della vita.
Questo
però va chiarito:
non è la
memoria
ma
l’anima che alberga quegli attimi
nostri o
non nostri
non
importa.
Quando il
dolore stana la tristezza
e si
predispone a farne un idolo
l’attimo
non teme la sfida
e si
impone nella sua lucentezza
perché
solo lui, ora e sempre
la fa da
padrone.
Non è la
tristezza
ma la
gioia che piega la vita alla sua volontà.
Non è il
buio
ma la
luce che guida le nostre volontà.
Non è la
morte
ma la
vita che, pietra su pietra
diventa
un muro a secco
che
divide due campi
uno di
grano, l’altro di girasoli...
entrambi
macchiati di papaveri.
Nazario
Pardini
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