EYES
WIDE SHUT
Dopo
un lungo tramonto l’incendio si era placato, rarefacendosi in ombre lunghe che affondavano
nel blu cobalto sempre più chiuso e avvincente coi suoi sussurri accentuati
sulla riva dal frangersi chiaro dell’onda.
Aspettavamo
in silenzio. Sulla rena calpestata un cerchio distanziato dai fuochi, piccoli e
animati dal vento. In quella atmosfera, si defilano dei corpi che iniziano
evoluzioni. Ognuno ha in mano una torcia. Figure vibranti e un roteare di
fuochi. Al centro un corpo più scuro del buio che incombe. Sottile, vibrante
come le corde di un violino. Si notano le agili giunture; si flette, rotea il
busto, balza sulla rena calpestata. Giovane kuros dall’andatura felina,
i lunghi capelli raccolti sulla nuca. Non può notarsi il volto se non quando è
sfiorato dal bagliore delle torce. Si leva una musica forte, misterica,
sensuale. Aspettativa di eventi che potranno evolversi secondo il desiderio di
ognuno. Sesso, violenza, dipendenza da un ritmo che trasmette inquietudine e
non porta a nessun compimento. Conosco quella musica e gli eventi ad essa
collegati. Scatenano una tensione fisica, un desiderio di trasgressione e
ripulsa al tempo stesso: Eyes wide shut di Kubrick[1].
Le
danze continuano tra i voli dei fuochi abilmente manovrati da quelle ombre
profane danzanti.
Atmosfera
dionisiaca. Poi, tutto all’improvviso si ferma. Si spengono i fuochi e all’accendersi
delle luci si allontana sinuoso e dondolante il giovane etiope. L’incanto è
interrotto e il d.j. intona canzoni d’epoca e va indietro per trent’anni. Mi
allontano per i vialetti del villaggio tra i rossi ibiscus sonnolenti e i pigri
e fronzuti oleandri. La piscina è silenziosa; si riflettono nella immobile
acqua i lampioncini e le gestroemie. Mi concedo un lungo sonno popolato di maschere.
Al mattino lo scenario è diverso: movimento convulso, bambini di ogni età,
strilli e adulti dal ventre prominente che si affollano al buffet addentando
giganteschi cornetti. È un villaggio vacanze. File di ombrelloni azzurri e un
sole impietoso che ti insegue nell’acqua turchese. Lucidi ciottoli e scivoloni
sul greto. Si aggirano gli animatori: ragazzi del luogo. Hanno entusiasmo e
necessità di stupire. Giochi ingenui. Sorridono i bambini. Alcuni di loro sono
impreparati, ma è necessario lavorare anche se per un periodo limitato. Quella
terra selvaggia di più non può offrire. In lontananza colline verdeggianti e un
susseguirsi in basso di villaggi. Oasi di sabbia ambrata lambita da un mare
inquieto, un po’ infido, traversato da correnti. Mi incammino verso l’interno:
il nulla più completo. Case mai finite ti osservano con le loro orbite vuote.
Nei centri qualche negozio scalcinato. L’apparente paradiso è circoscritto dai
grandi cancelli dei villaggi chiusi di notte. Parlo con studenti del posto sul treno
che mi porta a Reggio.
“La
volontà di migliorare le cose c’è (mi dicono) ma manca iniziativa e
collaborazione. I migliori vanno al nord a studiare ma poi non ritornano. Noi
guardiamo e soffriamo e ci aspettiamo un aiuto…”.
Sulla
civetta la foto di un uomo ammazzato in un centro vicino. Oscuro il movente.
Sgarri,
tra
bande per il commercio di cocaina. Mi ricordo di questa terra di poeti e
briganti quasi cinquant’anni fa. Le donne chiuse negli scialli neri su carri
nell’Aspromonte. Non si potevano fotografare. Terra affascinante: grotte
profonde trasudanti storia; colline di memorie e dei miti di Omero. Vorrei
avere meno anni e inerpicarmi per quei sentieri e udire i sussurri di quei
tempi lontani. Quelle memorie sono amorevolmente custodite nel Museo Archeologico
di Reggio. Reperti che si susseguono da 24.000 anni A.C. fino a 300. immagino
l’emozione alla scoperta dei mirabili oggetti di lontani artisti. Nel Museo
sono illustrate zone impervie e tombe di uomini-guerrieri, donne, adorne di
monili, bambini. Tracce sui muri, mascheroni con la bocca spalancata da cui
scorreva l’acqua. Un mondo intero testimone della sua grandezza e dell’impegno
di molti. Alla fine della visita in una grande sala asettica troneggiano in
solitudine i bronzi di Riace posti su piattaforme antisismiche. Un video
illustra il loro sonno millenario. Corpi imponenti protesi verso… I loro occhi
sembrano fissarti: “Siamo qui e tu non sai… ma osservi.” Ho gli occhi colmi di
lacrime; mi avvolge una cortina di ricordi. Quaranta anni prima, portai i miei
alunni ad ammirarli subito dopo il restauro all’Archeologico di Firenze.
La
loro prestanza mi coinvolge allora come adesso. Non c’è età di fronte alla
bellezza.
Un
peschereccio sbertucciato mi porta lungo la Costa degli Dei. Il mare è
suadente, le acque traslucide levigano il mio corpo. L’incanto è interrotto
dalla Guarda di Finanza, vigile in quel tratto. Multa salata per il
peschereccio. Evidentemente aveva eluso alcuni obblighi. Gli dei, celati dalle
onde sorridono. Si allontanano le arcate di Tropea e la suggestiva grotta che
affonda nel mare.
Sono
una mattina nella chiesa rupestre di Pizzo Calabro. Sculture all’interno nella
roccia porosa. Mistico silenzio e penombra. L’immagine di una Vergine più volte
dispersa in mare è riapparsa sempre nel medesimo luogo e lì, tra le rocce a
strapiombo, è sorta la chiesa. Il dipinto originario è custodito nella vicina
chiesa di San Francesco. Il sole indora le stoppie che ondeggiano lievi
nell’oro e accrescono il mistico fascino del luogo. Intorno, silenzio. Sono
nuovamente al villaggio e mi viene incontro una figura sottile, alta, elegante
nella sua fragilità. I capelli sono ancora raccolti sul lato destro del capo
con i segni di una bruciatura. Capisco: i fuochi della scorsa notte lo hanno
sfiorato ma lui non ha interrotto la danza. Prince è chiamato. Piccolo, grande
personaggio del villaggio. Si guadagna l’estate danzando. È altero e timido,
sfrontato e tenero; negli occhi scurissimi una storia di esodi, miseria e
volontà di sopravvivenza. Gli sorrido e lui mi risponde allargando la giovane
bocca dai candidi denti.
Ti
saluto forse per sempre terra di contrasti, di bellezza e di tanto dolore.
Anna Vincitorio
Firenze, 20 agosto 2019
[1] Tratto dal doppio sogno di Schwitzler.
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