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lunedì 4 novembre 2019

ANNA VINCITORIO: "EYES WIDE SHUT", RACCONTO

EYES WIDE SHUT

 
Anna Vincitorio,
collaboratrice di Lèucade
Dopo un lungo tramonto l’incendio si era placato, rarefacendosi in ombre lunghe che affondavano nel blu cobalto sempre più chiuso e avvincente coi suoi sussurri accentuati sulla riva dal frangersi chiaro dell’onda.
Aspettavamo in silenzio. Sulla rena calpestata un cerchio distanziato dai fuochi, piccoli e animati dal vento. In quella atmosfera, si defilano dei corpi che iniziano evoluzioni. Ognuno ha in mano una torcia. Figure vibranti e un roteare di fuochi. Al centro un corpo più scuro del buio che incombe. Sottile, vibrante come le corde di un violino. Si notano le agili giunture; si flette, rotea il busto, balza sulla rena calpestata. Giovane kuros dall’andatura felina, i lunghi capelli raccolti sulla nuca. Non può notarsi il volto se non quando è sfiorato dal bagliore delle torce. Si leva una musica forte, misterica, sensuale. Aspettativa di eventi che potranno evolversi secondo il desiderio di ognuno. Sesso, violenza, dipendenza da un ritmo che trasmette inquietudine e non porta a nessun compimento. Conosco quella musica e gli eventi ad essa collegati. Scatenano una tensione fisica, un desiderio di trasgressione e ripulsa al tempo stesso: Eyes wide shut di Kubrick[1].
Le danze continuano tra i voli dei fuochi abilmente manovrati da quelle ombre profane danzanti.
Atmosfera dionisiaca. Poi, tutto all’improvviso si ferma. Si spengono i fuochi e all’accendersi delle luci si allontana sinuoso e dondolante il giovane etiope. L’incanto è interrotto e il d.j. intona canzoni d’epoca e va indietro per trent’anni. Mi allontano per i vialetti del villaggio tra i rossi ibiscus sonnolenti e i pigri e fronzuti oleandri. La piscina è silenziosa; si riflettono nella immobile acqua i lampioncini e le gestroemie. Mi concedo un lungo sonno popolato di maschere. Al mattino lo scenario è diverso: movimento convulso, bambini di ogni età, strilli e adulti dal ventre prominente che si affollano al buffet addentando giganteschi cornetti. È un villaggio vacanze. File di ombrelloni azzurri e un sole impietoso che ti insegue nell’acqua turchese. Lucidi ciottoli e scivoloni sul greto. Si aggirano gli animatori: ragazzi del luogo. Hanno entusiasmo e necessità di stupire. Giochi ingenui. Sorridono i bambini. Alcuni di loro sono impreparati, ma è necessario lavorare anche se per un periodo limitato. Quella terra selvaggia di più non può offrire. In lontananza colline verdeggianti e un susseguirsi in basso di villaggi. Oasi di sabbia ambrata lambita da un mare inquieto, un po’ infido, traversato da correnti. Mi incammino verso l’interno: il nulla più completo. Case mai finite ti osservano con le loro orbite vuote. Nei centri qualche negozio scalcinato. L’apparente paradiso è circoscritto dai grandi cancelli dei villaggi chiusi di notte. Parlo con studenti del posto sul treno che mi porta a Reggio.
“La volontà di migliorare le cose c’è (mi dicono) ma manca iniziativa e collaborazione. I migliori vanno al nord a studiare ma poi non ritornano. Noi guardiamo e soffriamo e ci aspettiamo un aiuto…”.
Sulla civetta la foto di un uomo ammazzato in un centro vicino. Oscuro il movente. Sgarri,
tra bande per il commercio di cocaina. Mi ricordo di questa terra di poeti e briganti quasi cinquant’anni fa. Le donne chiuse negli scialli neri su carri nell’Aspromonte. Non si potevano fotografare. Terra affascinante: grotte profonde trasudanti storia; colline di memorie e dei miti di Omero. Vorrei avere meno anni e inerpicarmi per quei sentieri e udire i sussurri di quei tempi lontani. Quelle memorie sono amorevolmente custodite nel Museo Archeologico di Reggio. Reperti che si susseguono da 24.000 anni A.C. fino a 300. immagino l’emozione alla scoperta dei mirabili oggetti di lontani artisti. Nel Museo sono illustrate zone impervie e tombe di uomini-guerrieri, donne, adorne di monili, bambini. Tracce sui muri, mascheroni con la bocca spalancata da cui scorreva l’acqua. Un mondo intero testimone della sua grandezza e dell’impegno di molti. Alla fine della visita in una grande sala asettica troneggiano in solitudine i bronzi di Riace posti su piattaforme antisismiche. Un video illustra il loro sonno millenario. Corpi imponenti protesi verso… I loro occhi sembrano fissarti: “Siamo qui e tu non sai… ma osservi.” Ho gli occhi colmi di lacrime; mi avvolge una cortina di ricordi. Quaranta anni prima, portai i miei alunni ad ammirarli subito dopo il restauro all’Archeologico di Firenze.
La loro prestanza mi coinvolge allora come adesso. Non c’è età di fronte alla bellezza.
Un peschereccio sbertucciato mi porta lungo la Costa degli Dei. Il mare è suadente, le acque traslucide levigano il mio corpo. L’incanto è interrotto dalla Guarda di Finanza, vigile in quel tratto. Multa salata per il peschereccio. Evidentemente aveva eluso alcuni obblighi. Gli dei, celati dalle onde sorridono. Si allontanano le arcate di Tropea e la suggestiva grotta che affonda nel mare.
Sono una mattina nella chiesa rupestre di Pizzo Calabro. Sculture all’interno nella roccia porosa. Mistico silenzio e penombra. L’immagine di una Vergine più volte dispersa in mare è riapparsa sempre nel medesimo luogo e lì, tra le rocce a strapiombo, è sorta la chiesa. Il dipinto originario è custodito nella vicina chiesa di San Francesco. Il sole indora le stoppie che ondeggiano lievi nell’oro e accrescono il mistico fascino del luogo. Intorno, silenzio. Sono nuovamente al villaggio e mi viene incontro una figura sottile, alta, elegante nella sua fragilità. I capelli sono ancora raccolti sul lato destro del capo con i segni di una bruciatura. Capisco: i fuochi della scorsa notte lo hanno sfiorato ma lui non ha interrotto la danza. Prince è chiamato. Piccolo, grande personaggio del villaggio. Si guadagna l’estate danzando. È altero e timido, sfrontato e tenero; negli occhi scurissimi una storia di esodi, miseria e volontà di sopravvivenza. Gli sorrido e lui mi risponde allargando la giovane bocca dai candidi denti.
Ti saluto forse per sempre terra di contrasti, di bellezza e di tanto dolore.
                                         Anna Vincitorio

Firenze, 20 agosto 2019
                                                                                                              



[1]     Tratto dal doppio sogno di Schwitzler.                                                  
                                                     


[1]     Tratto dal doppio sogno di Schwitzler.

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