|
NATURA MEDICATRIX
PREFAZIONE.
(LA NATURA MEDICATRIX
DAL
MONDO LATINO AI GIORNI D’OGGI)
“Guardo le querce, possenti giganti/ ergersi al
sole e sopra un cielo/propizio./ Sono felice./ Fantasmi sono scesi da remote
profondità/ per visitare i miei sogni e in lontananza/ scorgo misteriose figure
sul mare./ La primavera è nell’aria, la morte è lontana./ Danzano i raggi di
sole ed indorano l’acque/ di fiumi, di laghi e cascate./ Si scorge un prato e
poi fitti cespugli/ e in lontananza un richiamo d’uccello./ Compare una giovane
donna e mi fissa,/ dolcissima./ Grande, divina natura./ A sera m’attendono a
cena gli amici.” Iniziare da questa poesia eponima significa entrare fin da subito
nella profondità panica del realismo lirico del poeta: querce, giganti, sole,
cielo, felice, sogni, mare, primavera, morte, vita, prati, canti di uccelli, gioventù,
amore. Tanti motivi che tornano con frequenza nel “poema” dell’Autore. Tutti
àmbiti che tendono a raffigurare la sua substantia emotiva, e il suo élan verso
la Bellezza, la fioritura del mondo. Il suo animo vaga, si distacca dal corpo,
e viaggia tra fiori e canti, si impolpa di effluvi, si insaporisce di albe e salmastri, di
tinniti domenicali, di venti purificatori, per rincasare e dettare alla voce poesie da declamare. Natura medicatrix.
Natura che assorbe e dona, che dona e pulisce, che pulisce e semina; questa
Natura evocata e coccolata da poeti che, nel corso delle tante letterature, più
volte hanno trattato a double face: come concretizzazione simbolica dei loro
stadi spirituali, o spersonalizzazione
del loro essere, del loro sperdimento ontologico nelle grinfie di Pan per
sopperire alla deficienze esistenziali. D’altronde non è raro incontrare
anche tra gli scrittori contemporanei
questo viaggio destinato a lenire il malum vitae, lo spleen, la coscienza di esistere
nel raffronto con la morte. E’ la Natura con tutto il suo potere iconico a
venirci in soccorso, offrendoci panorami e visioni estranianti disposta ad
ospitarci a ché il nostro essere si diluisca nella vastità del mare, o nella
profondità arancione di un tramonto. Credo che l’esempio più visivo e
avvolgente sia lo stato d’animo leopardiano di fronte alla siepe dell’Infinito.
E’ nel dolce naufragio esistenziale che il pota si sottrae alla influenza
assillante della melanconia per trovare
quella quietudine che solo il “naufragar” gli può concedere. Altrettanto visivo
e aderente è lo stato emotivo di Montale, il suo disperdersi nei muriccioli
bianchi della sua Liguria o negli ossi di seppia che concretizzano con
efficacia simbolica la misera solitudine dell’umanità: una trasfusione dello
spirito poetico nel mondo che lo circonda. Ma procediamo con ordine: partire
dagli scrittori classici per dare consistenza a questa nostra affermazione non
è assolutamente improprio. E’ Virgilio che
con le sue Georgiche da subito ci offre l’occasione di approfondire la
tematica: la vita agreste, la contemplazione della natura, il piacere di essere assorbiti dal respiro
dei campi, direbbe Tibullo in Elegie – Liber – I - 1: "Non ego divitias patrum fructusque requiro/ quos tulit antiquo condìta
messis avo:/ parva seges satis est, satis est requiscere lecto/ si licet et solìto membra levare toro./ Quam iuvat immites ventos audire cubantem/ aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit
Auster,/ securum
sommos imbre iuvante sequi! Hoc mihi contingat!”. Ma per
tornare a Virgilio, il poeta si sperde
nella larghezza del cielo, nella
vastità luminosa delle stelle, nella pluralità dei corpi celesti, per
dare una giustificazione alla problematica dicotomia del vivere e morire: “Nec morti esse locum, sed viva volare sideris in
numerum atque alto succedere caelo” (“Per la morte non c’è spazio, ma le vite
volano e si aggiungono alle stelle nell’alto cielo” (Georgiche, IV, 226-7). Come
non si può fare a meno di ricorrere alla poetica pascoliana, al vivere una
natura antropomorfa, in cui poter tradurre con semplicità e fanciullesca
intrusione il dolore dell’esistere, la malinconia del ricordo: Il gelsomino notturno, L’assiuolo,
Temporale, Sera d’ottobre, X agosto, Lavandare, La mia sera: “… Don… Don… E mi dicono, Dormi!/ mi cantano, Dormi!/ sussurrano, Dormi!/bisbigliano,
Dormi!/là, voci di tenebra azzurra…/Mi sembrano canti di culla,/che fanno ch’io
torni com’era…/sentivo mia madre… poi nulla…/ sul far della sera.”, o al dannunziano
metamorfismo di Ermione:”…e il tuo volto
ebro/è molle di pioggia/come una foglia,/e le tue chiome auliscono/ come le
chiare ginestre, /o creatura terrestre/che hai nome Ermione”, o al paesaggio carducciano dello splendore del
sole, della distesa aperta della pianura, del silenzio delle Alpi; o a Emily Dickson, poetessa
statunitense, (Amherst, 10 dicembre 1830 – Amherst, 15 maggio 1886), in La natura
è ciò che vediamo:
Natura” è ciò
che vediamo –
La Collina – il Pomeriggio –
Lo Scoiattolo – l’Eclissi – il Bombo –
Di più – la Natura è Cielo –
“Natura” è ciò che udiamo –
Il Bobolink – il Mare –
Il Tuono – il Grillo –
Di più – la Natura è Armonia –
La Collina – il Pomeriggio –
Lo Scoiattolo – l’Eclissi – il Bombo –
Di più – la Natura è Cielo –
“Natura” è ciò che udiamo –
Il Bobolink – il Mare –
Il Tuono – il Grillo –
Di più – la Natura è Armonia –
(…)
o a Lord
Byron, (Londra, 22 gennaio 1788 – Missolungi, 19 aprile 1824), in Vi è
un incanto nel bosco:
Vi è un incanto nei boschi senza sentiero.
Vi è un'estasi sulla spiaggia solitaria.
Vi è un asilo dove nessun importuno penetra
in riva alle acque del mare profondo,
e vi è un armonia nel frangersi delle onde.
(…)
Insomma natura come medicatrix, come fusione,
simbiotica amalgama fra homo e spettacolo, fra tripudio di cromie e vastità
epigrammatica. Non è di sicuro improprio leggere in Giovanni Scribano gli
stessi input ispirativi, le stesse motivazioni
poetiche; da subito, la prima poesia Alba
domenicale ci introduce nel vasto e
fluente respiro di un‘anima che si
dona con il suo afflato alla serenità delle campane a festa. E’ in quel suono,
in quel richiamo che il poeta travasa il suo esistere per renderlo pulito, nuovo, immacolato: “… Fra le case riverberano/ echi di voci smarrite./ Le campane, al
rintocco,/ sciolgono i nostri peccati./ Di nuova felicità/ s’illumina la
domenica” (Alba domenicale). Il linguaggio si adorna di una semplicità
comunicativa aderente; un melologo, una fusione contenutistico-verbale, una
serenità contagiante in cui il poeta trova tutta la sua verità purificatrice.
La stessa che ci offre il successivo componimento dal titolo Forme e lune: “… La
luna nebbiosa accoglie/ombre avviluppate di grigi/ e nuvole dai toni molli./
Piccola nera luna, macchiata di luce,/ temprata da freddi venti e folate,/ la
nebbia ricopre le tue stanze d’argento,/ e roteando, fiammelle cangianti/
suggeriscono un nuovo risveglio (Forme e lune). Un susseguirsi di
ontologici richiami, di affreschi realistici di sapore onirico, di voluttà
estemporanee dettate da un sentire morbido e liscio. Idilli che con sistematico
procedere ci riportano a quelli del poeta recanatese che vedeva nella tempesta,
nel sabato, nel passero o nella torre i suoi stati d’animo prima dell’apologo
terminale. Qui è la poesia di Scribano, in questi effluvi di sentimenti, in
questi ritratti luminosi, in questi giochi di combinazioni; nei quadri di
bucolica intrusione partecipativa, dove la terra e gli usi sacrosanti dei campi
si fanno vere romanze di sapore pucciniano: “… E quando il suo orologio/ s’arresta e sulla sua terra/ si ridestano i
suoi antichi/ guardiani/ lui, ingobbito/ nell’anima/ ma dal cuore ancor caldo/
come il pane di fresco sfornato,/semina dal suo granaio di sapienza/nei campi
ancor vergini dell’anime/ mentre il suo io,/novella del diluvio colomba/
lambisce nuovi prati di luce.” (Il contadino racconta). Sinestesie,
metaforicità, iperboli… figure simboliche di grande elasticità collaborativa
rendono l’architettura metrica vicina e significante,
dove non è cosa difficile ritrovare
l’espressione più limpida e classica dell’arte virgiliana. A illuminare il tracciato si succedono poesie
che concorrono con la loro visività al potenziamento naturistico della silloge:
Emozioni:
Per la graziosa allodola
dolce rifugio è il giardino.
Una rosa muschiata
aperta cresceva
regina dei prati;
(…)
Gioia:
(…)
La vita ti si mostra
non più schiava ma dominatrice
nell’attimo della
contemplazione.
S’obbedisce alla magneticità,
s’esulta nell’essere noi
stessi
una piccola barca lanciata
verso
il porto gioioso
Capriccio di primavera,
(…)
Il botton d’oro, umile fra i
fiori, s’inchina nel vuoto.
Sboccia dalle nebbie l’aurora,
s’alza al cielo fra le viole di campo.
Idillio,
Il sole s’impossessa del mare
come la rugiada del prato
e scioglie i suoi cavalli
come scozzesi colombe,
s’impossessa del duomo.
(…)
La voce del mare….
La voce del mare lasciatela al
vento
portatela alla terra e alle
bianche stelle
fatela àncora del mio cuore
e vela argentata nelle dolci
notti
recatela alle lagune salate
fra
le reti e ai pesci smemorati,
umile tesoro di marinaio.
(…)
Fino a Persi
in viaggio fra mare e terra, dove l’esplosione emotiva dell’Autore raggiunge
vertici poematici di rara e urgente liricità:
(…)
Vestiti
di sogni
m’aspettano,
ci
aspettano
le
vele corsare.
Da
luminose trasparenze
ci
sorridono le stelle
fra
sabbia e mare,
qualcosa
di sottile
ci
sfiora.
Chiudere con il mare è come dare un senso di infinita profondità alle aspettative che coronano
la vita.
Nazario Pardini
Nessun commento:
Posta un commento