Franco Donatini legge I DINTORNI DELLA VITA, di Nazario Pardini
Franco Donatini,
collaboratore di Lèucade
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Una
profonda riflessione sulla vita e sulla morte caratterizza questa raccolta di
Nazario Pardini, I dintorni della vita.
Una riflessione che si estende al tema epocale, alla base dell’esistenza umana,
come è quello del rapporto tra la vita e la morte.
Accanto
alle liriche tradizionali, Nazario Pardini introduce forme poetiche basate sullo
schema del dialogo che risulta particolarmente efficace nell’approfondimento di
questo tema, in cui gioca un ruolo fondamentale il rapporto dialettico tra
l’uomo e la morte. Da sottolineare come la morte assuma i connotati di una
persona, Thanatos, figlio della notte, in un confronto in cui compaiono allo
stesso tempo toni drammatici di scontro e toni pacati e ragionativi di
reciproca comprensione. Il rapporto dialettico tra la vita e la morte si
esprime nel mito e poi a livello letterario come il rapporto tra Eros e
Thanatos. L’amore infatti, sinonimo di energia e vitalità riproduttiva, si
oppone alla morte come assenza di vita, di luce, come sonno eterno. La
contrapposizione di queste due figure mitologiche conduce ad una sorta di
umanizzazione di queste due categorie, che è propria del mito nella cultura
classica, materializzando le due pulsioni interiori della natura che muovono
l’intera esistenza, come ci insegna la psicologia freudiana.
Il
panorama letterario ci offre esempi di dialogo in questo ambito. Mi viene in
mente il testo di Pavese, Dialoghi con Leucò, in cui l’autore si trova a fare
il punto sulla profonda diversificazione tra l’immortalità della vita degli dei
e la precarietà di quella degli uomini. Ma su ambedue domina incontrastabile il
ruolo del destino a cui soggiace la stessa morte, presenza costante nella
sensibilità e della vita dell’uomo, come nel caso della poesia di Pardini.
Già ne
abbiamo conferma nelle prime liriche della raccolta, di quanto il senso della
morte accompagni l’esistenza umana:
“Doloroso
il viaggio che facemmo: / attraversammo mari, piane e monti, / attraversammo
fiumi con daccanto / la sagoma di Thanatos protesa / come l’ombra di sera;
assieme a noi, / nelle vie che facemmo, / diceva della vita, / della fragilità,
/ della futilità di tutto quello / che vivevamo.”
E poi,
per dare un senso alla vita, il ritrovarsi dopo con le persone care:
“Spero
che la fortuna mi sia amica / e mi faccia avere il tuo sorriso / quando verrò a
trovarti, ad abbracciarti, / caro fratello mio.”
Nelle
liriche successive si supera il pessimismo attraverso la ricerca degli elementi
in grado di sfidare e contrapporsi alla morte.
Tra
questi la poesia, che vola oltre la fine terrena del poeta, poiché “la vera
poesia è sentimento, / memoriale, euritmica scansione; / è unicità del verbo
dentro il verso / è storia di una storia, di un mistero, / è narrazione intima
che torna / a farsi viva dopo gestazioni / per mutarsi così in connessioni /
d’immagini feconde.” Guai “infangare
Calliope”, privare l’anima dell’uomo di “quel succo / nato per trasformarsi in
poesia…”
E poi è
la natura ad opporsi, con il suo continuo e ciclico rinascere, alla condizione
temporanea che è tipica dell’essere umano. La vitalità della natura, anche se
talvolta distruttiva, esprime la volontà di vivere e la trasferisce all’uomo
che, proprio attraverso essa, assapora il senso di una, seppur momentanea,
immortalità.
“Questa
è la danza / al ritmo di natura; / danziamo la ballata delle gialle gramaglie;
/ invidiosa sarai, morte, / dinnanzi ai nostri salti.”.
E le
stagioni evocano la voglia di rinascere di vivere ancora nuove emozioni.
“Racconteranno con le loro storie/ i luoghi dove io conobbi amore, / per
contraddire con la loro forza / il nero vuoto della tua esistenza. Riemerge il
conflitto dialettico tra Eros e Thanatos, dove Eros rappresenta non solo
l’amore sessuale, ma l’amore esteso al complesso della natura, che eternamente
ciclica e si riproduce, che rappresenta la vita in sé, la luce contrapposta
all’oscurità dell’aldilà. Preferisco parlare di aldilà, percepito come regno
delle tenebre e non la fine di tutto dal poeta che possiede un forte senso
religioso che lo protegge dalla sensazione del nulla eterno.
Tuttavia
questo senso religioso non lo preserva dal senso di precarietà, strutturale
alla condizione umana. Emerge, in queste ultime liriche, la consapevolezza che non
la morte ma il tempo sia il vero responsabile di questa precarietà. Una
consapevolezza che è il tema dominante dei successivi dialoghi.
Nei
dialoghi l’uomo non è supino rispetto alla morte anzi stabilisce un contatto
paritetico, ci convive, quasi la sconfigge seppur momentaneamente, attraverso
l’amore, il ricordo dei giorni felici, le passioni, la cultura, le immagini
quotidiane che ne evocano la presenza, ma ne leniscono il dolore. Emerge un
ossimoro profondo alla base dell’esistenza umana, la vita e la morte sono due
facce opposte che danno un senso l’una all’altra, un ossimoro senza il quale
non sarebbe possibile la vita.
E allora
il colloquio non è più sdegnoso e diviene pacato. La morte sembra scusarsi per
questa intromissione nell’esistenza dell’uomo, di cui ne diviene una sorta di
permanente compagna e l’uomo accetta questa condizione.
“Vieni
un po’ qua da me. Restami accanto. / Non essermi nemica” a cui la morte
risponde, scusandosi “Chi volle la mia falce è la Natura / ed io non faccio
altro che obbedire. / Forse tu pensi che io non mi tormenti / di questo mio
esistere”
Il tono
di questi colloqui richiama quello delle Operette morali leopardiane Infatti il
tono lirico delle poesie iniziali della raccolta, assurge nei dialoghi a una
dimensione filosofica, mentre il linguaggio poetico da evocativo diviene più
analitico e argomentativo. Una dimensione che rasenta un pessimismo cosmico
quando la morte confessa la sua debolezza e servitù ad una entità superiore
incontrollabile e imprevedibile rappresentata dal destino, nel senso del Fato,
la legge ineluttabile degli antichi che domina l’universo.
Potrebbe
sembrare che non ci siano vie di uscita a questo stato, se non quella proposta
dal grande poeta recanatese, cioè di un rapporto solidale per sopportare
benignamente l’amaro destino. Ma qui interviene il forte senso religioso del
uomo Pardini, in cui la luce divina scaccia l’oscurità della morte, come nella
lirica che conclude la raccolta.
“Si
aprirono i cieli, / la luce incoronò valli ed abissi, / e tutto fu chiarore”.
E infine
l’intervento divino a ristabilire su tutto il valore e il ruolo vivificatore
dell’amore universale.
“Vinse
l’amore, e nella notte / si accese la lampada divina, / grande, enormemente
forte, / più che d’agosto la calura estiva. / Più che di giorno la gloria del
Signore”
Franco
Donatini
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