Marco
Onofrio. Anatomia del vuoto. La vita
felice Edizioni. 2019
Ogni tramonto
è solo la metà della sua alba.
Per questo siamo a pezzi ma
non è mai finita.
La
vita è in questo lacerto della poesia testuale: tramonto, alba, pezzi, finita.
Tanti elementi che la caratterizzano; che la definiscono nel suo
tragitto essenziale. Il fatto di non essere mai finita è una
affermazione che lo scrittore inserisce nell’esemplificativo titolo della
plaquette: Anatomia del vuoto.
Un
vuoto che fa rumore; una dualità perenne fra luce e ombra: “C’è il soffio di
una vita superiore/ nell’alleanza mistica
e profonda/ che unisce le sorgenti della vita”.
Il
vuoto, il nulla, l’assenza; il tutto, il pieno, l’amore, il senso; si riportano
in esergo alcune massime tra cui quella di Pascal: Che cosa è un uomo
nell’infinito? Un milieu entre rien e
tout. Fra niente e tutto. Il niente in cui l’uomo stesso si perde e il tutto in quanto l’uomo è nella sua monadicità
di essere. Il niente dell’uomo di fronte al tutto e il tutto eterno e
irraggiungibile dalla miseria umana. D’altronde questa è la dicotomia più
invadente che perseguita il fatto di esistere creando quella splenetica
emozione che alimenta il canto. È questo
protendersi en haut che fa dell’uomo un essere insoddisfatto ed inquieto. In questo testo trovi ogni input vitale, ogni
dilemma del vivere, dell’esistere: l’inquietudine, l’antitesi vita-morte,
morte-vita, il senso della precarietà, il non senso dell’inconoscibile, del
fatto che la vita appaia come un frammento prestato dalla morte. Come riempire
questo vuoto che attorno ci perseguita? Si può solo riempire con quelli che
sono i motivi focali dell’esserci: la poesia, l’amore, il memoriale; un viaggio
il nostro tramite cui siamo diretti verso un’isola che forse non c’è. Il fatto
sta che viaggiamo remando con virulenza attraverso scogli e trabucchi, tempeste
e bonacce, rischiando di sfasciate la nostra imbarcazione. Onofrio ha remi
solidi, legni forti, che possono superare le difficoltà della navigazione.
Metaforicamente è il suo linguismo, la sua significanza metrica asciutta e
apodittica che si identificano coi legni ed i remi. La bussola e la ricerca di
un faro, invece, col nostro ambire a soluzioni improbabili. Noi esseri umani,
imperfetti e caduchi, destinati al naufragio, abbiamo come meta questa luce che
illumina il porto, il fatto sta che attorno vi è un grande buio: quale rappresentazione migliore della
nostra esistenza? Una piccola luce nel mezzo ad una notte che ci sommerge. Navigare
è importante, non piegare la testa di fronte alla nebbia o al mistero, sta
tutta qui la grandezza della poesia; pur sapendo della impossibilità di
raggiungere quel porto continuiamo imperterriti a viaggiare. Questo è il
sistema migliore per riempire quel vuoto in cui siamo destinati a essere risucchiati.
Riportare a galla memorie di antiche primavere, avere accanto paesaggi pieni di
luce, mari estesi quanto i nostri desideri, visioni di volti che ci vollero bene,
e che hanno giocato ruoli importanti nel nostro viaggio: tutto ciò che riempirà
le rien pascaliano, il giorno vuoto della luce che brilla. La nostalgia
dell’assoluto ci spinge ad azzardare voli oltre le soglie: “E’ deciso, parto
per il cielo: ho la nostalgia dell’assoluto”. Nostalgia dell’assoluto, il
dilemma fortemente umano: quello di guardare in alto con piedi ben piantati per
terra; la spinta a sorpassare gli orizzonti che limitano il nostro stare; a
scavalcare il vuoto che ci assedia. Ma c’è l’amore a salvaci dal baratro, dalle
verità nascoste di questa spaventosa immensità. “ Ma dipende dall’amore con cui
la guardiamo,/ la bellezza pura della
vita”. D’altronde è di fronte al buio della
notte, o all’immensità imperscrutabile del cielo che l’uomo si sente a
disagio, data la sua pochezza misurata
col tutto. Cotidie morimur, afferma
Seneca, questa visione di una morte che ci sta addosso quotidianamente senza
mollare, rende l’idea del nostro
galleggiare in una marea ondivaga.
Questo è il nulla, il vuoto che ci circuisce; ma la poesia
psicologicamente attiva e riflessiva di Onofrio, basata su sinestetici
richiami, su simbolismi di panico sostegno, guarda
avanti, con la sua andatura asciutta, apodittica, zeppa di interrogativi
esistenziali, e di un’attiva presenza personale. La sua è presenza, non
assenza. Un poema che gioca su una personalità incisiva e partecipativa; con
tutte le magagne del quotidiano vivere; un percorso che trae linfa dal passato
e che allunga gli occhi verso l’imponderabile peso del visionario. Qui si sente
e si vive l’arco meditativo di un uomo: presenza e non assenza: poesia nuova,
sì, per un verbo nuovo e concretizzante un animo in bilico tra verbalismo
sabiano e conflittualità sereniana. Ma di sicuro non di sperimentalismo di
positura prosastica, spersonalizzata, amorfa, dove l’io non trova posto, e dove
non trovano posto gli abbrivi emotivi di una storia che ci vede in campo giorno
dopo giorno:
Ho il terrore calmo dello
spazio
internamente vuoto
senza fondo.
L’occhio fulvo degli astri.
Il caos oltre le parole.
L’errore sterminato senza
senso
il nulla immenso.
Perdo la mia vita
per abbracciare il mondo
e dico addio.
Nazario
Pardini
Ringrazio di cuore il Prof. Nazario Pardini per la profonda e sensibile analisi critica del mio libro. Marco Onofrio
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