In compagnia de “I dintorni
della solitudine”
di Nazario Pardini
Un libro è un compagno, temporaneo per il mentre della
lettura, eterno per quello che può lasciare nel tuo profondo.
Ti accompagna mentre sei in treno, in una sala d'attesa,
nelle parentesi di una giornata lavorativa, o semplicemente in un momento di
sospensione nel dare e avere del vivere.
“I dintorni della solitudine” di Pardini sono stati il mio
compagno (può sembrare un ossimoro, questo binomio compagnia-solitudine, eppure
è così) in tutti questi ambiti, per qualche mese. Un tempo che i più
riterrebbero lungo, per una raccolta di poesie di una ottantina di pagine: ma
sono un lettore lento, e i libri per me sono amici che devo frequentare a
lungo, prima di capirli, prima di stabilire con essi una comunanza o una
distanza.
E lo confesso subito: non so ho compreso “oggettivamente”
questo libro, in tutte le sue valenze. So però che la mia soggettività –
inevitabile, perché con Borges possiamo dire che chi legge una poesia la crea –
è rimasta pervasa dalla spiritualità di questo libro. E che, per tornare al
concetto iniziale, forse lo rimarrà per sempre.
“I dintorni della solitudine”: e già questo titolo può dar
da pensare a lungo: perché i “dintorni”, perché non il “centro”? In realtà,
come per le altre opere della sua trilogia (“I dintorni dell'amore”; “I
dintorni della vita”), il viaggio poetico di Pardini intende svolgere una vera
e propria actio finium regundorum, una delimitazione degli ambiti di
queste dimensioni dell'esistere, ma non per rimanervi ai margini: si descrive
il perimetro, per poi entrarvi, e scandagliarne ogni parte, vivisezionarla,
addirittura.
E', infatti, in questi confini che scopriamo la solitudine
dell'autunno che porta a rimembranze, la solitudine che fa di sé “un
ramoscello in mezzo al mare” (ne “La piena del Serchio”) , la solitudine
evocata dagli oggetti, talmente forte che viene vissuta attraverso la
metamorfosi sensibile delle cose (l'aratro, il falcione, persino lo stradone
che “si sente abbandonato”...un pansensismo che avvolge, senza risparmio).
Ed è la solitudine – questa solitudine – mostrata ora nella
dimensione solipsistica ora come sentimento universale: perché, ci dice in
questo erratico percorso l'Autore, niente è più umano e al tempo stesso
disumano della solitudine. Niente è altrettanto personale ed intimo e nel
contempo comune a livello spirituale: ed è, tutto ciò, drammaticamente vero
proprio in questo nostro tempo, dove l'isolamento è diventato regola tanto individuale quanto
politica, sul fondamento di una paura che ha radici apparentemente contingenti
(la salute, i flussi migratori, ecc.) ma che a ben vedere è l'epifenomeno di un
male di vivere più profondo, di una incapacità di entrare veramente in
comunione con l' “altro”.
Eppure, nelle
fessure di queste strettoie che fanno dell'uomo una monade, si apre uno
spiraglio di luce, inatteso, meraviglioso, fino alla commozione: quello
dell'arte, della poesia, e dell'amore anche se confinato nell'attimo: “l'unico
sistema per fregare / lo scettro imperituro della sorte” (da “La poesia si
scrive”). “
Alfonso Angrisani – Roma, fine febbraio 2020
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