In
compagnia de
“I
dintorni della solitudine”
di Nazario Pardini
Recensione di Alfonso
Angrisani
Un libro è un compagno,
temporaneo per il mentre della lettura, eterno per quello che può lasciare nel
tuo profondo.
Ti accompagna mentre
sei in treno, in una sala d’attesa, nelle parentesi di una giornata lavorativa,
o semplicemente in un momento di sospensione nel dare e avere del vivere.
I
dintorni della solitudine di Pardini
sono stati il mio compagno (può sembrare un ossimoro, questo binomio compagnia-solitudine,
eppure è così) in tutti questi ambiti, per qualche mese. Un tempo che i più
riterrebbero lungo, per una raccolta di poesie di una ottantina di pagine: ma
sono un lettore lento, e i libri per me sono amici che devo frequentare a
lungo, prima di capirli, prima di stabilire con essi una comunanza o una
distanza.
E lo confesso subito:
non so se ho compreso “oggettivamente” questo libro, in tutte le sue valenze.
So però che la mia soggettività – inevitabile, perché con Borges
possiamo dire che chi legge una poesia la crea – è rimasta pervasa dalla
spiritualità di questo libro. E che, per tornare al concetto iniziale, forse lo
rimarrà per sempre.
I
dintorni della solitudine: e già questo titolo può dar da pensare a
lungo: perché i “dintorni”, perché non il “centro”? In realtà, come per le
altre opere della sua trilogia (“I dintorni dell’amore”;
“I dintorni della vita”), il viaggio poetico di Pardini
intende svolgere una vera e propria actio finium regundorum, una
delimitazione degli ambiti di queste dimensioni dell’esistere, ma non per
rimanervi ai margini: si descrive il perimetro, per poi entrarvi, e
scandagliarne ogni parte, vivisezionarla, addirittura.
È,
infatti, in questi confini che scopriamo la solitudine dell’autunno che porta a
rimembranze, la solitudine che fa di sé “un ramoscello in mezzo al mare”
(ne “La piena del Serchio”) , la solitudine evocata dagli oggetti, talmente
forte che viene vissuta attraverso la metamorfosi sensibile delle cose (l’aratro,
il falcione, persino lo stradone che “si sente abbandonato”... un pansensismo
che avvolge, senza risparmio).
Ed è la solitudine –
questa solitudine – mostrata ora nella dimensione solipsistica ora come
sentimento universale: perché, ci dice in questo erratico percorso l’Autore,
niente è più umano e al tempo stesso disumano della solitudine. Niente è
altrettanto personale ed intimo e nel contempo comune a livello spirituale: ed
è, tutto ciò, drammaticamente vero proprio in questo nostro tempo, dove l’isolamento è diventato regola tanto individuale quanto
politica, sul fondamento di una paura che ha radici apparentemente contingenti
(la salute, i flussi migratori, ecc.) ma che a ben vedere è l’epifenomeno di un
male di vivere più profondo, di una incapacità di entrare veramente in
comunione con l’ “altro”.
Eppure, nelle fessure di queste strettoie che fanno
dell’uomo una monade, si apre uno spiraglio di luce, inatteso, meraviglioso,
fino alla commozione: quello dell’arte, della poesia, e dell’amore anche se
confinato nell’attimo: “l’unico sistema per fregare / lo scettro imperituro
della sorte” (da “La poesia si scrive”).
Alfonso Angrisani
Roma, fine febbraio 2020
Nazario Pardini. I dintorni della solitudine
Pref. di Michele Miano. Guido Miano Editore,
2019, mianoposta@gmail.com
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