Luciano Postogna
ANTOLOGIA
Guido Miano Editore, 2020
Recensione di Rossella
Cerniglia
Solo a partire dall’anno 2000, il poeta Luciano Postogna,
ha cominciato a pubblicare i versi che teneva in serbo da circa una trentina d’anni.
Alle prime due sillogi, Pensieri nudi, e Ali d’Arcangelo, pubblicate nell’anno 2000,
si sono succedute poi Raggi rossi al tramonto del 2001, Anatomia
del vento, del 2002, Oltre ogni orizzonte, del 2003, e infine L’ombra
dell’anima del 2006. Da esse sono state scelte le poesie che vengono a
comporre la presente Antologia.
Straordinari ed esemplari ci appaiono,
innanzitutto, i versi posti in apertura dell’intera raccolta, come un esergo annunciatore
di quel sentire intimo e profondo che interamente la pervade, travalicando l’elemento
denotativo delle molte descrizioni verso risonanze e connotazioni ampie e profonde, che trascendono, in suggestioni
rare ed ineffabili, gli orizzonti del tempo e della storia.
Verso l’infinito ci si
mostra, perciò come un testo di epigrafica e paradigmatica valenza: al suo
centro è l’uomo, con le sue ferite e precarietà e debolezze; colmo di angoscia
nella notte, foriera del triste presagio della morte, e ancora avvinto, agli
albori del giorno, alla speranza e ad una nuova illusione, che sembrano valere
come i cardini su cui, imperiosa, ruota la vita.
La forma afferisce, per molti aspetti,
alla tradizione, al patrimonio classico, non tanto dal punto di vista metrico
quanto piuttosto sul versante linguistico e lessicale. I versi, infatti, non
seguono alcuno schema fisso: solo talvolta mantengono la rima - qualche volta
alternata, o anche interna al verso - con un dettato morbido e sciolto, ma sempre
vigile e misurato, dove le scelte
lessicali attingono decisamente, al registro alto della nostra migliore
tradizione letteraria. Talora, inversioni ed anastrofe o l’uso di alcuni
termini un poco desueti, conferiscono ai fraseggi e alla compagine
versificatoria, una lievissima patina antiquaria.
Man mano che si procede nella lettura dei
testi, risulta sempre più evidente che la poesia più genuina ed autentica del
nostro autore è intimamente connessa alla realtà della sua terra, alle sue
radici triestine e carsiche, e all’elemento naturale che ne evidenzia le
spiccate peculiarità.
La regione carsica, è concepita e vissuta
dal poeta come vera Patria e come Madre, ed egli respira,
perciò, lo stesso alito e la stessa vita che da essa gli deriva. Un amore filiale,
pervasivo, anima perciò queste pagine, e una venerazione della natura che trova
corpo in quella terra. La poesia che ne
fa le lodi è evocatrice, colma di echi e risonanze e suggestioni rare,
sconfinanti nell’indicibile.
Nelle descrizioni del paesaggio, che
intesse i suoi anni dall’infanzia, si mescola il sentire, ora assorto, ora vigoroso
del poeta, si avverte l’amorevole afflato - materno e filiale - confluire in
uno, come avviene tra creature intime e intrinsecamente necessarie. Così si
leva il Cantico incipitario del figlio alla sua Terra: “...La mia anima
è a Trieste/ pallore della luna,/ la bora e voci calde;/ la mia anima è sul
Colle/ prezioso ancor pei ruderi/ che diede Roma antica;/ la mia anima è tra i
boschi/ e lande torturate/ del Carso novembrino (...)”
Nei versi si mostra l’anima di questo
paesaggio che sembra scorrere nello sguardo del poeta man mano che si addentra
nei luoghi amati, perlustrandone le bellezze, e godendone, con uno stupore
antico che ognora si rinnova: “Risalire
il mio fiume/ dalla foce imminente/ alle fresche sorgenti/ rivedendo acque
chete/ gorghi e rapide irruenti,/ ascose anse che portano/ in stagnanti acquitrini/
e allegre cascatelle:/ è la mia unica vita!” (Il mio fiume.
I vari testi trascorrono dentro lo sguardo
del lettore come visioni che annotano, quasi diaristicamente, l’eterno peregrinare
del poeta sul corpo amato, e financo dentro il ventre della sua amata
terra. In Sotto il Carso scorre... rivive
l’ardore di ogni rinnovata scoperta, nella simbiosi animica di uomo e
paesaggio. Già nei versi iniziali, il poeta disegna, con un breve tratteggio
di immagini vivide, lo scenario naturale
e quello interiore, dove i verbi, tutti al presente, ci immettono d’emblée
dentro un preciso istante di quel cammino
che viene a costituire la sua storia:
”Sotto il Carso scorre,/ negli ascosi alvei, il Timavo/ e la mia vita.// Il
fresco mattino di collina/ mi trova inebriato/ dai profumi d’un Carso settembrino/
ed attento m’inoltro nel bosco, (...)
...tra muti biancospini/ e aromatici ginepri,/ scendo il ripido pendio/
della dolina ombrosa: (…) Mi partorisce il bosco/ sulla landa calda del primo
meriggio/ e tra l’erba “rossigna”,/ macchiata qua e là/ da stregonelle
ingiallite e centauree già vizze (…) Il fiume scorre/ e illuso m’appoggio all’imbocco/
d’un abisso profondo,/ quasi a carpire quel palpito cupo/ del cuore che fa
vivere il Carso. (...)”. I versi annotano le delizie che abitano lo sguardo di
questo figlio devoto, l’amore di fronte a scorci e immagini di incontaminata purezza,
e il sentore della pace divina che da essa si effonde. Mai come in questo caso
si potrebbe parlare di vis medicatrix naturae come di fronte al sentimento di quiete e beatitudine
che pervade l’animo del poeta nel suo andare peregrino incontro al corpo della sua venerata Madre Terra.
Ma, a volte, - sull’onda, forse,
del sentimento o del ricordo, e di pensieri inquieti che si aggirano nell’animo
senza trovare strada e risposta agli incresciosi e drammatici interrogativi
della vita - il paesaggio intensamente si tinge di nero scontento, e
turbamento, e le immagini dei luoghi portano inscritte le passioni e i tormenti
e le cupe inquietudini che attraversano l’animo del poeta. Così in Fuga
carsica, Autunno, Ho lasciato il mio corpo, Sera, Impietoso Carso, L’ultimo
pastore - e ancora in molti altri testi - regna, a tratti, una stessa
atmosfera grigia e tormentata. Alcuni
passi, financo, richiamino alla mente le cupe atmosfere di un romanticismo
nordico incline alla poesia sepolcrale:“ La bora porta/ dei volti antichi/
strappati/ negli orti lapidari,/ alle statue attonite/ e spegne,/ nei
cimiteri;/ i lumi fatui: si destano così i fantasmi timidi/ dei paesi morti./
le folate portano/ quelle vesti bianche/ e le pietrose facce/ tra i cupi boschi
carsici...” (Carso). E così, il paesaggio si veste dei colori inquieti dell’anima, spesso in un sentore vago di ignote e oscure
presenze.
Ma, in ogni caso, ogni descrizione di
questo paesaggio è permeata del sentire del poeta. Sia che ne canti con stupore
infinito la bellezza, sia che colga in esso un riflesso della propria realtà
interiore, esso è la sua Madre Terra. E nelle loro vite scorre uno
stesso sangue e uno stesso respiro.
Rossella Cerniglia
Luciano Postogna, ANTOLOGIA
Guido Miano Editore, 2020
mianoposta@gmail.com
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