Maria
Luisa Daniele Toffanin, La stanza alta
dell’attesa tra mito e storia, Padova, Valentina Editrice, 2019, pp. 142.
Se
per Jorge Luis Borges l’Aleph, ovvero
il numero più piccolo che si può concepire, una sorta di atomo, è da
considerarsi come punto di inizio verso cui tutte le cose fanno ritorno e verso
cui tutte le cose tendono, per Maria Luisa Daniele Toffanin l’inizio, il tutto,
la fine è la famiglia, ad iniziare da quella d’origine. Non a caso il volume La stanza alta dell’attesa tra mito e storia
è dedicato a “Mia madre Lia a mio padre Gino in Padova la mia città natale”.
Una famiglia collocata, dunque, all’interno di uno spazio urbano che si
restringe, con l’evolversi della “narrazione” nei limiti di una strada, di una “casa-cuna”,
di “una casa-gomitolo” (28), di una stanza, per poi estendersi a considerazioni
sul mistero della vita e della morte “strette insieme anche per chi cavalca
ogni giorno destrieri d’invenzioni, non per sentirsi vivi ma per sfuggire la
morte stessa” (23).
La
città osservata da una duplice prospettiva, ovvero dall’interno e dall’esterno,
prende consistenza attraverso il filtro della memoria tra territori fisici che
appaiono nella loro concretezza e la zona dei ricordi. Ricuperare l’urbe del
passato, le sue strade e le sue attività, significa rivivere il tempo mitico
dell’infanzia, ritornare a un luogo / tempo felice, dorato dove affondano le
radici “profonde diramate in trame davvero inattese nel dopo, quasi un dono
immortale degli dei (48) e dove nasce il senso di appartenenza ad una famiglia,
ad una comunità, ad una città. Padova, “Mia città dell’utopia / mondo limpido
di gente fida” (23), con i suoi riferimenti concreti situati nello spazio
lirico animato da presenze e da assenze di un altro periodo, diviene mezzo per
presentare l’unione di due elementi fondamentali della silloge: il ruolo del
tempo, collettivo e individuale, e la contrapposizione di dentro e fuori, che
si afferma nella dimensione reale delle piazze cittadine dove “alitano echi di
voci autentiche riverberi / di questo ardore riacceso dal ritrovarsi vivi /
nella vita rinata ad un’aria frizzante d’attese” (53), dei quartieri presentati nei minimi particolari.
Dalle descrizioni topografiche emerge lo “spirito” di una Padova del dopoguerra
in cui “era già festa l’andare insieme uniti / sostare in sincere parole e
saluti” (53) e dei suoi abitanti, soprattutto quelli conosciuti quando la
famiglia viveva in via Aristide Gabelli, appartenenti ad un passato ormai
scomparso, ma comunque “miracolose presenze”, “accese sempre nel nostro cammino
/ nella sua dolente assenza” (49).
Una
via che assurge a simbolo della rinascita, vissuta dopo gli orrori e le
sofferenze della guerra e descritta “nella sua poliedrica geometria / nella sua
variegata bellezza” (33), dove si respira un clima di fratellanza e di
comunione. Lo zio Leone “umile e nobile nel canto come i suoi canarini”,
Giannina la scrittrice e sua sorella Maria, Ada, la maestra di pianoforte amica
per tutta la vita, Jolanda e Orazio con i loro gemelli, Monsignore Pierobon e
il nipote Luigi, fucilato in seguito con altri partigiani divenuto “mito
ancestrale del dolore / che abbraccia gli uomini per sempre” (52) e di tante
altre presenze per formare tutte insieme “un albero-frondoso-riparo” (48),
“indelebili memorie di una stagione in cui si formò un’anima” (42). Saranno
soprattutto i genitori a fornire il significato dell’origine, dove si
concentrano le forze vitali, necessarie per affrontare le necessità del domani:
il padre Gino di ritorno dal campo di prigionia con lo sguardo sospeso “nel
vuoto a un filo viola-mestizia / anche nell’ora dell’oro squillante” (30) e
soprattutto mamma Lia, “Madre miracolosa madre /col padre assente / universo di
luce riflesso / nella mia vita Sempre” (24). L’avvicinamento alla madre per trovare
solidarietà ed affetto, ma anche un modello comportamentale di continuità, non
a caso costituisce l’asse portante degli attuali studi, iniziati in Italia ad
opera del gruppo filosofico Diotima, che con il “pensiero della differenza”,
evidenzia la necessita di riallacciare quel legame materno, a lungo reciso, se
si vuole far luce per davvero sul valore della donna. Di questo è ben conscia
MLDT.
Il
lungo carteggio che ha rinsaldato l’amore tra i genitori nel periodo bellico,
diviene fonte di informazioni preziose per ricostruire un passato incerto, per
trarre suggestioni ed emozioni, per innalzare voli poetici sul luogo natale,
oasi di pace e di serenità, di “infinite attese che ci saziavano con il loro
successo” (57), custode di valori positivi, resi palpabili dalla profonda
coscienza collettiva, da stretti vincoli d’amicizia, conforto e aiuto nei
momenti di disperazione, ma anche foriera di allegria di gioia e di cultura.
Tale
lettura dell’ambiente e della conoscenza di sé, racchiude l’obiettivo di una
riappropriazione, di una metaforizzazione e di una creazione di paesaggi nuovi
e originali, non necessariamente esistenti sia pure partendo da un contesto
reale e concreto, trasfigurato nell’atto della scrittura. D’altra parte la poesia, e in senso lato la letteratura, vive
e si nutre proprio della verità menzoniera e della menzogna veritiera, in un’ambiguità
difficilmente risolvibile. L’arte della finzione consiste nel tessere
il mondo dell’azione e quello dell’introspezione, affiancando l’interiorità
alla quotidianità.
Si
definiscono, in tal senso mondi paralleli spesso sovrapposti o intersecati alla
fisicità del luogo le cui immagini, osservate in
successione, danno l’impressione
del loro trascorrere, tra passato, presente e viceversa, in un continuo ed
incessante ricorso temporale. In detta successione è sufficiente invertire l’ordine
consequenziale, assolutamente logico, perché la poetessa viva nel
presente e, un attimo dopo, nel passato. “Persone e luoghi, svela M.L.D.T., non
perduti, ma riproposti nelle ore dei giorni futuri in altri luoghi” (78),
costituiscono il filo d’unione dell’intera produzione poetica, ad iniziare da Dell’azzurro e altro (1998) sino a Pionieri a San Domenico (2019). Non è un
caso se alcune poesie sono già apparse in precedenti volumi, spiega in una nota
puntuale la poetessa “talora con piccole varianti” (129) in quanto è importante
ricuperare “calchi da calcare / cifra di un vivere altro / per quelle presenze,
oggi conforto al dopo / cum-divisione di gioia e di dolore / per una nuova
umana dimensione” (53-54). Ricuperare,
cioè il concetto di tradizione nel suo significato più ampio di trasmissione
(tradere) della conoscenza, dei miti, delle letture, delle strategie narrative,
della memoria.
Mondo di personaggi che popolano il periodo
dell’infanzia, quando linguaggio e pensiero si incrociano nella creazione di un’unica
forma di espressione, di una rinnovata mitologia, uniti a un dominio tecnico si
compenetrano in una complessa e sapiente unità estetica, costruita su di una
contiguità di elementi tematici incentrati sulla dialettica permanente tra
cultura, società ed individuo, a lungo ricercata ed affinata da MLDT attraverso
processi analogici fluttuanti tra realtà esterna e tempo interiore. Instancabile
la sua proposizione di ambienti, di situazioni, di figure che traggono vigore
proprio da quell’infanzia, “alveare di cuore-mente / tutto il nettare aspira di
ogni fiore per stagioni altre” (36) così appassionatamente descritta per disegnare
l’immagine di un luogo familiare che deve essere difeso, fortemente vincolato
al concetto di appartenenza e di continuità.
Vera e
propria incursione nel labirinto dell’io e delle sue infinite possibilità immaginative,
la poesia produce emozioni, e che connota poeticamente il racconto
esistenziale, sempre più orientato alla riappropriazione del presente, che si
alimenta di episodi lontani. Immagini, parole e suoni, nominati per la prima
volta, rendono mitico quel primo periodo di vita ed acquisiscono la dimensione
di esperienze senza precedenti, di premonizioni, di saggezza intuitiva. Una
fonte inesauribile per trarre energia vitale, un sentimento “religioso” dell’esistenza
che conduce alla verità personale ed intima della poetessa e per estensione a quella
della natura umana. “Però è vero, facevano bene loro, i Grandi, a credere nei
miracoli! (128) sono le parole che chiudono significativamente la silloge.
Se la funzione del mito come norma o come etica
esistenziale, deriva dal fatto che partendo da esso è possibile trovare la coscienza
di sé e degli altri, risulta fondamentale il ricorso alla memoria, efficace
strumento per poter giungere, in sede artistica, a conoscere sé stessi in
relazione al proprio mondo. Pertanto, ove non indugi in un’ansia d’introspezione
esclusivamente soggettiva e non divaghi per i sentieri di una narcisistica
meditazione interiore, tale conoscenza si risolve, per l’appunto, in una
restituzione della realtà, dotata sempre di una propria suggestività evocativa.
Quest’ultima, però, non è meno concreta della realtà oggettiva e la sua portata
in ogni senso, anche in quello etico sociale, lungi dall’essere determinata dal
processo della memoria, dipende da altri ragioni e in primo luogo dai contenuti
che è chiamata ad esprimere. Queste affermazioni chiariscono il rapporto tra
storia / memoria sia nel senso fenomenologico, sia in quello più semplice di
diaframma tra coscienza e realtà per fini cognitivi ed espressivi.
Una
memoria che, annullando la distanza temporale, tesse un filo lineare e
ininterrotto tra passato / presente / futuro, rendendo eterno il momento
attuale, pregno delle inquietudini trascorse, ma anche delle pulsioni del
momento. Il ricordo è rivissuto in comunione assoluta con la vita animata da
presenze antiche e da persone amate, ormai scomparse, ma sempre vive nella
memoria. Attraverso la peripezia metastorica, la poetessa crea il mito, ne
garantisce la permanenza nel tempo, rivivendo e spiegando, attraverso suoni,
colori, figurazioni, le avventure quotidiane accadute in un momento ormai
divenuto storico e perituro. Il suo canto, nell’annullare la temporalità
propria di ogni discorso narrativo, genera sensazioni positive e sollecita l’immaginazione
a vagare tra i sentieri dell’assoluto.
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