PREFAZIONE
Nuove poesie e Altre poesie, questo il tracciato su cui
si distende la ricerca epistemologica e ontologica di Alessio Alfredo Conti. Un
travaglio interiore causato da interrogativi esistenziali che non hanno nette
soluzioni, da dilemmi che fagocitano risposte: solitudine, melanconia, radici, inquietudine, saudade…
Già nella poesia testuale che segue si possono leggere tutte le fragranze
poetiche che fanno da prodromico innesto al prosieguo: “È tempo di non
ritorno/quando la vita si spezza/il dolore avanza/ l’amore svanisce,/ ma io riappaio/
con la mia voce/ le mie parole/ e come eco tra i monti/ rinasco/ rivivo/
ritorno da te/ alla mia casa/alla mia terra” (E ritorno). Non ritorno, la vita
si spezza, il dolore avanza, l’amore svanisce, riappaio, rinasco, ritorno alla
mia casa. Tante impennate reificate in
momenti di vita. Una ascensione spirituale, un viaggio, una tregua, il tempo
del dolore e quello del riposo, della meditazione. E cosa è la vita? Forse un tempo prestato
dalla morte? Cosa il mondo che ci circonda? Cosa l’amore, la casa, il monte, la
terra che ci hanno ospitati e che custodiscono gelosamente i richiami dei giorni del ritorno? Tanti interrogativi
che il poeta vive sulla propria pelle e su cui intreccia un discorso poetico
semplice e scorrevole, fatto di sobbalzi e di stacchi, che tanto ci dicono del
diagramma musicale dello spartito. In fin dei conti è umano, fortemente umano
sentire il bisogno del viaggio, ma anche la nostalgia di un luogo che ci vide
nativi. Ed è in questo motivo, espresso in versi di elasticità formale, che il
poeta trova il terreno adatto per un lirismo di epigrammatico coinvolgimento;
di movimento formale, perché l’Autore alterna versi di effetto contrattivo a
versi di effetto estensivo, tenendo dietro ad un sentire che detta e chiede;
che abbonda o ripiega a seconda della intensità del messaggio. I versi
dall’andatura di più ampio respiro (quinari, settenari o massimo ottonari) si
concedono ad apodittiche riflessioni, dove è d’uso incidere su una sola parola
uno splenetico abbrivo. Un viaggio completo, plurale, totale, polisemico questo
del poeta. Una traversata fatta di trabucchi e scogli aguzzi, contro cui non è
difficile cozzare o infrangere l’imbarcazione: ed è nel cuore della tempesta,
in mezzo ai devastanti cavalloni, che tornano al cuore e alla mente, con la
loro intensità figurativa e rievocativa, persone e luoghi che abbiamo amati e
che ora amiamo di più. E’ qui che si fa avanti lo stimolo del ritorno, la
poesia dell’home, che il poeta vive con
estrema generosità umana. Non è di certo inutile tirare in ballo le motivazioni
della poesia ermetica. A parte la forma che il nostro sa contenere in rivoli
meno complessi, mentre gli ermetici li simboleggiano in una fiasca rovesciata
che, svuotandosi, singhiozza: parole strette
e convulse, apodittiche e misteriche, come nell’opera di 1)Ermete
Trismegisto, da cui gli ermetici stessi traggono il nome. Molteplici le
motivazioni occasionali che ci fanno pensare ad una vicinanza tra il Nostro e i
poeti della corrente suddetta: solitudine, disimpegno politico, musicalità, intimismo. L’essenzialità del
discorso ermetico fu anche conquista di una musica nuova. La sentenza con cui Verlaine (Paul
Verlaine Metz 1844 – Parigi 1896) aveva suggellato quel piccolo breviario di
estetica che è la lirica Art poétique
(Il verso è musica, e tutto il resto è letteratura). E per ciò che concerne
l’intimismo, identificata la poesia con la lirica, non è azzardato dire che
negli ermetici su tutti gli altri motivi domina quello esistenziale.
Ispirazioni, quindi, che ritroviamo nella poetica del Nostro, e che ne
costituiscono il bagaglio portante: Eros, Thanatos, solitudine, futilità del
tempo e dello spazio, angoscia per riflessioni di carattere contemplativo,
annullamento di fronte al tutto: “Quante volte ti sei chiesto/in quale parte
dell’universo/ ti poni oh uomo, e/ nel tuo silenzioso silenzio/rimani retto nei
tuoi pensieri/osservando il nulla del creato/nel cielo buio dell’esistenza…”
(Logos). Difficile dare risposte. Il sentimento del mistero ci assedia ed è
tanto vicino, in Conti, a quello che gli ermetici sentirono proprio: “Perché siamo qui e non là, perché in questo
tempo e non in un altro” scomodando Pascal (Blaise Pascal Clermont Ferrand
1623- Parigi 1662); che poi è lo stesso che prova l’Autore misurandosi con la vita:
“Ho bisogno di rintracciare/nella memoria dei tempi/chi sono e da dove vengo./
Quali domande avranno risposte/prima che la mia vita finisca, ma/rimarranno
sepolte con me” (Sepolte). E tante le visioni sul fatto di esistere che
riguardano il poeta:
dal Saluto
ultimo
“Suonano
le campane ma non a festa/il sorriso si rattrista, la mente/va col pensiero a
chi sarà mai andato/a prendere un altro posto là/tra le tombe amiche./Poi ci si
ritrova a camminar vicini/per un saluto/ultimo”;
alla riflessione sul visionario passo estremo:
“(…)
Passo
dopo passo/ho calpestato/l’esistere/ed ora/sto aspettando/ solo l’ultimo”
(Aspettando);
dal
pianto di pietre, dolore d’amore di Gocce
amare:
“Sembrano
pietre/quelle che/cadono dai tuoi occhi,/gocce amare/del tuo/cuore./Lasciamo/al
pianto/asciugare/il dolore”;
a Memoria, momento di grande coralità, di
rievocazione storica e personale:
“Ogni
giorno che passa/si vuol cancellare/la memoria del passato,/
ricostruire/immaginando/il decorso della vita/altro/dalla realtà/…/ Voglio
ricordare/per non dimenticare/perché Lei ci soccorra/negli errori commessi/e
nulla/potrà essere/come prima/…/”;
fino alla composizione finale
tratta da
Avvolto dal tuo tenero amore, 1998, dove il poeta si lascia trasportare da un
afflato di amore familiare, motivo che caratterizza la seconda sezione: ALTRE POESIE:
Una silloge corposa plurale, proteiforme, che tocca ogni àmbito
dell’umano vivere: da poesie sulla vita a quelle dedicate ai familiari, alla
fede, al pensiero, alla morte, all’amore. Un‘opera che sembra nascondere al di
dentro una certa inquietudine, una certa
visione melanconica sui risvolti dell’esistere, anche se la fede nell’Aldilà
tende a sfumare la coscienza di precarietà che il poeta nutre sulla vita. D’altronde anche in questo
caso Conti si avvicina molto ad un poeta contemporaneo quale Ungaretti che
muove quasi sempre da una visione dolorosa e in più tratti leopardiana.
Esistere è patire; tutti siamo “vòlti al travaglio/come una qualsiasi/ fibra
creata” e non ha senso il nostro lamento; bene supremo è la morte.
Ungaretti, la guerra, la trincea, le sofferenze, Fratelli, i
compagni che gli si spengevano accanto. L’Allegria è un libro che oltre a
rimarcare la inutilità della guerra mette in evidenza gli aspetti più segreti dell’uomo: le
sottrazioni, le passioni, il bisogno di
vita, di amore, di fratellanza, di rinascita. E soprattutto significa anche
incoraggiamento a vivere, e a superare i momenti difficili. Pessimismo, dunque,
leopardiano se non inclinasse alle suggestioni decadenti del mistero e non
tentasse sbocchi metafisici in una zona
intermedia fra l’Assoluto dei cattolici e quello di Mallarmé (Stéphane
Mallarmé, Parigi 1842 – Valvins 1898). La “pena” ungarettiana ha nel suo fondo
una pietas verso la vita e gli uomini che non deriva dal poeta francese ma dal
recanatese, ed è per essa che nessuna delle sue raccolte ci dà la sensazione di
un naufragio dell’esistenza nel buio deserto del nulla, e che tutte affermano
quei valori perenni della civiltà: l’amicizia, l’amore, la ricerca del Divino,
il sentimento della natura, l’amore: 2)“Di che
reggimento fratelli?/Parola/nella notte/ foglia appena nata./ Nell’aria/
involontaria/dell’uomo presente alla/fragilità/fratelli” (Fratelli).
<<Poesie scelte: Giuseppe Ungaretti, Tutte le poesie (Milano Mondadori
2009)>>. Giuseppe Ungaretti (1888 – 1970), dopo aver aderito in gioventù
al futurismo, partì come soldato semplice e combatté sul Carso nella prima
guerra mondiale. Quest’esperienza fu decisiva per la sua poesia. La solitudine,
la morte, l’istintivo riunirsi degli uomini in quelle ore di terribile verità,
gli ispirarono versi brevissimi, di
straordinaria forza emotiva, in cui la parola diventava la testimonianza di un
dolore “chiuso da un silenzio di pietra”. Altra occasione per parlare di un
accomunamento stilistico fra i due poeti in questione. Ungaretti fu un
rivoluzionario a tal proposito, sovvertì quelli che erano i canoni della poesia
nostrana, tradizionale, fatta di sinestesie e endecasillabi sciolti di narrativa memoria leopardiana che tanto
seguito ebbe nel XIX secolo. Una poesia verticale, la sua, in cui una semplice
preposizione o un sostantivo o un aggettivo o una unità sintagmatica erano
sufficienti a formare il verso per rimarcare il valore significante della
parola. Lo stesso stile che ritroviamo in Conti, che fa della verticalità
espositiva il cavallo di battaglia del
suo versificare. Un elemento, questo, non di secondaria importanza, che
segna un altro punto di unione fra i due poeti. Sarà, semmai, Quasimodo a
riprendere la forma orizzontale di positura endecasillaba sciolta, legata alla
tradizione; basti pensare alla lirica Alle
fronde dei salici dove la struttura
formale di endecasillabi e sinestesie tanto richiama la tradizione. Alle
fronde dei salici è una lirica
pubblicata nel 1945 su una rivista,
successivamente inserita nella raccolta Giorno dopo giorno (1947): 3)«E come potevamo noi cantare/con
il piede straniero sopra il cuore,/
fra i morti abbandonati nelle piazze/
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento/
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero/
della madre che andava incontro al figlio/
crocifisso sul palo del telegrafo?/
Alle fronde dei salici, per voto,/
anche le nostre cetre erano appese,/
oscillavano lievi al triste vento». Allegria, vivere la vita, sprone a trovare quel sentimento che ci dia la forza indispensabile a proseguire; a procedere, a sopperire alle aporie. E forse è proprio sotto questo aspetto che la poesia di Conti più si avvicina a quella del poeta di Alessandria d’Egitto: una poesia fresca, la sua, strettamente umana, che scopre i valori essenziali, ne fa incetta, per offrirli ad un dire sempre pronto alla spiritualità, alla sofferenza ma anche alla rinascita; a trovare uno sbocco a quelli che sono i dubbi dell’umano vivere: “Lascia/ che giacciano/in un angolo/le tue parole/tristi e di dolore,/nascondile/nella sera/e/nel giorno/dimenticale./…/ Taci ed odi/il sussurrare del tempo,/ guarda/tra il cielo e la terra/e/ perdona./…/ Ora si che puoi Amare” (Ora sì). In Ungaretti non manca, di certo, la visione dolorosa, molto vicina a quella leopardiana, ma cova, anche, in lui, il senso di fratellanza che lo stesso Leopardi, nelle Operetti morali, chiede agli uomini a ché con la loro unione superino gli “imbrogli” della Natura, della sorte.
fra i morti abbandonati nelle piazze/
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento/
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero/
della madre che andava incontro al figlio/
crocifisso sul palo del telegrafo?/
Alle fronde dei salici, per voto,/
anche le nostre cetre erano appese,/
oscillavano lievi al triste vento». Allegria, vivere la vita, sprone a trovare quel sentimento che ci dia la forza indispensabile a proseguire; a procedere, a sopperire alle aporie. E forse è proprio sotto questo aspetto che la poesia di Conti più si avvicina a quella del poeta di Alessandria d’Egitto: una poesia fresca, la sua, strettamente umana, che scopre i valori essenziali, ne fa incetta, per offrirli ad un dire sempre pronto alla spiritualità, alla sofferenza ma anche alla rinascita; a trovare uno sbocco a quelli che sono i dubbi dell’umano vivere: “Lascia/ che giacciano/in un angolo/le tue parole/tristi e di dolore,/nascondile/nella sera/e/nel giorno/dimenticale./…/ Taci ed odi/il sussurrare del tempo,/ guarda/tra il cielo e la terra/e/ perdona./…/ Ora si che puoi Amare” (Ora sì). In Ungaretti non manca, di certo, la visione dolorosa, molto vicina a quella leopardiana, ma cova, anche, in lui, il senso di fratellanza che lo stesso Leopardi, nelle Operetti morali, chiede agli uomini a ché con la loro unione superino gli “imbrogli” della Natura, della sorte.
Naturalmente con
tutte le dovute riserve del caso, visto che a differenziare la poetica dei due
c’è la concezione divina di Alessio Alfredo Conti che rimpiazza quella dolorosa
di Ungaretti:
“(…)
scenderò
negli
inferi
nel
bene e nel male
e
aprirò
gli occhi
alla
vita.”. E aggiungerei alla risurrezione, alla rinascita come poesia vuole,
dacché significa “creazione, rinnovamento”, da poièo, fare, creare; e a
conferma di uno stile, come appare da questa pericope di una poesia della
silloge, frammentato, sabiano, i cui versi risultano formati da pochi elementi
verbali, molto vicini alla maniera del poeta lucchese.
Nazario
Pardini
1)Ermete
Trismegisto, Corpus Hermeticum da cui la corrente filosofica nota come
Ermetismo. Opera famosa per il suo intricato e complicato contenuto, da cui la
forma ermetica.
2)Poesie
scelte: Giuseppe Ungaretti, Tutte le poesie (Milano Mondadori 2009)
3)Mondadori
quinta edizione 1959
Nazario mio, questa recensione permette di vivere il Poeta Alessio Alfredo Conti, la sua capacità di variazione nella cifra stilistica, dalla scelta di versi brevi a quella di un'estensione funzionale alle tematiche da esprimere. Ed è bellissimo il passo sull'ermetismo e l'accostamento dell'Autore al grande Ungaretti. Le poesie sono schegge di luci e ombre, di saudade e di volontà di rinascita e la tua lettura le rende vibranti e vicine al nostro sentire. Grazie a te, e al Poeta... Un forte abbraccio, che estendo all'Autore nella speranza di conoscerlo.
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