Adriana Pedicini, collaboratrice di Lèucade |
Nazario Pardini. IL CUORE DELLA VITA di Adriana Pedicini
“…Diverso è il destino delle foglie.
Non di uccelli migranti hanno virtù
a solcare terre e mari e montane cime
presto cadranno nell’umida pozzanghera.
Una sul davanzale sbatacchiata
la furtiva mano l’ha adagiata
supina come in grembo
tra le esangui pagine del libro.
La incollerò sul ramo a primavera
quando le foglie brilleranno di novello verde.
Perché ogni cosa abbia il suo nume
e nel nume certa la speranza" (Nume tutelare)
Iniziare
da questa composizione significa andare da subito nel mare magnum della poesia
di Adriana Pedicini. Un canto di armonie, di iuncturae reificanti palpiti
emotivi, abbrivi esistenziali, dove la natura si offre generosa alle
similitudini con l’esistere: il vento, la foglia, i simboli, i ricordi, e la
volontà di perpetrare gli abbrivi dell’esser-ci. Adriana Pedicini fa della sua
apertura emotiva uno spiraglio tramite cui inoltrarci nella grandezza della
poesia; di quella che ti chiama, perché sa dove ti trovi, conosce i tuoi
palpiti, i tuoi incantamenti; sa della tua navigazione in mezzo ad un mare che lascia
intravedere l’isola della possibilità, quella verso cui ogni poeta dirige la
sua ricerca, ma che difficilmente dà delle risposte ai quesiti che noi
cerchiamo affannosamente. Sì, quelli sulla vita, sul fatto di esistere,
sull’hic et nunc, su tutto ciò che riguarda la nostra permanenza su questa madre terra. Ed Ella gli va incontro, gli volge
l’animo e la penna, a ché le riveli i ricami verbali, i succhi significanti,
gli accostamenti, le similitudini, gli
accorgimenti stilistici per andare al di là della parola, che con la sua
totalità espressiva azzarda sguardi di quietudini metafisiche:
“Cadono d’un tratto
le paure
e le angosce del
limite estremo
e come pane di
lievito il cuore si slarga
l’animo empie le
gote di spirito sacro
e profumo di viole
conduce alla stalla
a rimirare il
miracolo antico che nuove
sparge speranze a
virtù e ognuno
a guisa di umile
servo accoglie
del regale Bambino
il segno del Tempo
nei fuggevoli tempi
dell’uomo
nei giorni precari
di vite consunte
in animi sordi alla
buona novella.
L’Infinito è in un
attimo
al santo vagito ci
guida la stella cometa
da lontano
nell’aria suoni di ciaramelle” (Dies natalis),
attraversando
terreni inesplorati in un viaggio epigrammatico tra vecchi tzigani:
“A te vengono da
ogni dove
le vie del passato
segreto della
memoria.
Così vivi il tuo
tempo recente
e quelli remoti.
Così nei volti
nuovi intravedi
fattezze lontane, i
miti e la storia…” (Il vecchio tzigano),
o
soffermandosi a contemplare sere di meditazione i cui colori tanto richiamano
il tempo che passa portandosi via la luce esplosiva della giovinezza:
A sera
si disfa l’aspetto
giovanile del
giorno
i colori che dentro
mi ridono
si velano come
sogni
notturni nel
placido sonno
nel lento scivolare
delle ore (Sera)
E
tutto si fa sinfonico, armonioso, visto che la Poesia non la molla, e quello
che le suggerisce è pulito, genuino, spontaneo, irrazionale, come essa vuole:
“Prendi la penna e scrivi dell’uomo, di questo essere tanto misterioso quanto
reale, dei suoi ingranaggi esistenziali,
delle sue inquietudini, dei suoi slanci verso l’inarrivabile, dacché, pur
incollato a terra, brama sempre respirare un po’ di quell’aria che spetta
all’eterno. Scrivi. E quando vedi che la parola non ti è sufficiente, chiedi
aiuto alla natura, è essa che ti darà tutte le configurazioni atte a
concretizzare e ad espandere i tuoi fremiti”. E questo fa Adriana. Ricorre ad
ogni motivo che riguarda l’uomo e la sua permanenza: l’onirico, il memoriale,
la coscienza del tempo che fugge, la morte:
“…Fermo è il tempo
di vita
nell’ora che
declina alla morte.
Nell’aria solo
profumo di mosto
e celate promesse nel cuore”(Autunno),
l’attrazione per chi ama; e tutti quei
requisiti che si pone in quanto umana, durante la sua navigazione. Quale
stagione più aderente alla vita dell’autunno con le sue foglie cadenti e i suoi
colori rubino disseminati a terra. Tutto è caduco, effimero, transitorio in
questo nostro soggiorno. Allora la poetessa ricorre alle memorie, perché sa che
con esse c’è la possibilità di allungare la vita, di lottare a tu per tu con
l’oblio, che la vorrebbe annullare con i suoi scabri interventi:
“…Lo sentii (il
dolore), mamma, e fu per te
che impressi da
allora passi doppi
dinanzi alle porte
strenue degli anni
nei giorni sempre
più esigui, sempre più,
piccolo intervallo
al fatidico traguardo
dove tu più stanca
di me per l’attesa
seduta sarai ad
aspettarmi.
Ti restituirò
all’incontro la calda carezza
come allora e il
tuo amore e il mio
insieme saranno
spirito di fuoco” (Memories).
Sì, si ricorre alle
radici, alla poesia dell’home, a figure e immagini che rievocano antiche
primavere, quando le persone care ci sfioravano con gli sguardi, e ci sembrava impossibile che potessero
uscire di scena lasciandoci a soffrire coi nostri ricordi:
A mia madre
Solo l'amore
ricompone sul ciglio
della memoria l'immagine
svanita come neve al sole
di fredda primavera.
Pure ti sento
nella carezza tiepida
del vento e nel profumo
dei petali che di quella primavera
mi restituiscono la tristezza
e la speranza dell'Eterno.
ricompone sul ciglio
della memoria l'immagine
svanita come neve al sole
di fredda primavera.
Pure ti sento
nella carezza tiepida
del vento e nel profumo
dei petali che di quella primavera
mi restituiscono la tristezza
e la speranza dell'Eterno.
Ed è così che ripescando fatti, volti, e
avvenimenti, Adriana Pedicini riesce a costruire immagini di persone che le
sono state a fianco per anni e che hanno giocato un ruolo determinante nello
svolgimento emotivo della sua vicenda. D’altronde siamo umani e in quanto tali
soggetti alle leggi del tempo e della natura. Ed è per questo che, sapendo,
Ella, che la vita è un breve tratto donatoci dalla morte, intende spolparla,
ricavarne quel succo essenziale atto a fecondare la sua poesia; quel dettato
polivalente che racconta con purezza lirica ogni
“…Silenzio che promette pace ardente
come tutte le paci quando la promessa
è falsa e la tregua breve.
Ognuno porta altrove la gerla delle pene
e intatto la riporta nell’usata terra.
La delusione si tinge di realtà e tutto
rimette a posto nella costrizione
del ritmo faticoso della vita” (Estate).
Forse riportando altrove la gerla delle pene
sarà meno duro il mestiere di vivere; il pensiero di lasciare per sempre le persone
che amiamo; d’altronde il mistero di thanatos ci attanaglia tutta la vita: la morte rappresenta la fine della vicenda
materiale, ma reca con sé il grande mistero di quello che verrà dopo, come
l’Amleto Shakespeariano che definisce la morte “il paese sconosciuto da cui non
ritorna nessun viaggiatore”.
Una poesia plurale, proteiforme, articolata che
dalle riflessioni esistenziali passa con agilità espressiva a quella engagée di
Mediterraneo, dove non è arduo leggerci quel filone classico vicino allo stile
della Nostra:
“…Resista
tranquillo l’animo
alle provocazioni
degli uomini
dinanzi al mercato
degli dei.
Salda la virtù
plachi le paure e l’egoismo
l’inganno e
l’odiosa attesa,
e siano le tue
acque, o Mare Nostrum,
non liquida urna di
ossa tra i marosi disperse
ma arca cullata
dallo sciabordio lento
delle onde dove il
sonno conciliò
la carezza di Danae
al piccolo Perseo (Mediterraneo).
Poesia vita, vita poesia. Due elementi che
viaggiano all’unisono nel corso del poema.
Quanto amore! Quanta saudade! Quanta nostalgia! Quanto rammarico per
cose non fatte e non dette:
“…Così il murmure
del tempo ninna
il gorgoglio dei
pensieri
le emozioni che
stridono ferite
blandisce la paura
di essere, di esserci
il timore di non
esserci.
Sogno prati e monti
e l’ultimo orizzonte
approdo in cui so
che morirò di nostalgia (Esserci e non esserci).
D’altronde si tratta pur sempre di una storia
che noi vorremmo diversa, magari più vicina ad una riva a cui potersi
aggrappare. Ed è con la poesia che possiamo dare vita alle persone e alle cose
che abbiamo amate e che ci sono sfuggite di mano; è il potere di questa magica
arte antica che ci chiama; quello di ricostruire figure e volti che noi pensavamo
immortali: forse l’unica possibilità che abbiamo in saccoccia per ridurre la distanza che ci separa dalla
sfera degli dèi. D’altronde l’idea della morte è quella che fa di noi degli
esseri viventi, unici, a soffrirne, in quanto di fronte al nulla e al sempre
la nostra mente si perde, si sente a
disagio, fino a patirne la splenetica meditazione. Gli antichi Greci riconobbero nel “pensiero
della morte” (μελέτη ϑανάτου)
l’origine stessa della filosofia; e un poeta moderno fornito di una robusta
cultura classica, Giovanni Pascoli, mise in risalto nell’epilogo di quello che
è il più noto e forse meglio riuscito dei Poemi
conviviali (1904), L’ultimo viaggio,
l’effetto psicologicamente angoscioso ed eticamente devastante dell’assillo
costante della morte: “- Non esser mai! Non esser mai! Più nulla/ ma meno morte
che non esser più ! – ( XXIV, Calypso,
vv.52-53, cioè: ‘è meglio non esser nati, che nascere e vivere una vita tormentata
dalla continua preoccupazione della morte’). La poetessa affronta vari temi:
thanatos, vita, amore, radici, memoriale, il tempus fugit, o il
senechiano cotidie morimur. Diverse quindi le chiavi di lettura di questa
sinfonia. Ma tutte riportano al nostro viaggio, a questo problematico fatto di
esistere. E in quanto umani, coscienti della futilità di questa navigazione in
un mare pieno di trabucchi, meditiamo sul quando e il dove, sull’ora e il poi, senza però avere risposte
adeguate. Tutto è misterioso, impenetrabile; la cosa migliore è restare aggrappati alle persone che amiamo,
alle cose che ci emozionano come la poesia, solo così diamo un senso alla vita,
dacché è l’amore l’unica realtà che si avvicina alle soglie dell’eccelso. E
Adriana lo sa, lo dice nei suoi versi, e lo grida al mondo, in quanto fa del
suo canto l’apologia dell’esistenza: ora benevola, ora malevola, ora fulgente
come l’aria di primavera, ora rubino come le foglie d’autunno, ma pur sempre
vita. Pur sempre amore: perché, come
scrive T. S. Eliot in East Coker, il secondo dei Quattro Quartetti: “C’è un
tempo per la sera sotto la luce stellare, un tempo per la sera sotto la lampada
accesa, (…). L’amore è ancora più di se stesso quando qui ed ora perde
d’importanza.”. E amore significa vita, attimi, presenze, emozioni, palpiti,
passione. Significa poesia, quel misterioso flusso emotivo che ti innalza al
cielo, come magistralmente dipinge Paul Verlaine nel suo “le ciel est
par-dessus le toit” e che la poetessa ricama in una delle più belle poesie
della raccolta:
“…Babele è la torre
di ogni città.
Confusi i colori,
confuse le lingue,
gli odi e gli
amori.
Il senso…il senso
di tutto dov’è?
La gioia che brilla
negli occhi morenti di un bimbo
l’abbraccio che
solo nel dolore riscalda
è la misura del
nostro soffrire o del nostro gioire?
La Tua Croce forse
giustifica il senso
e ogni croce che
spalanchi le braccia
dinanzi a un cielo senza catene (Catene).
Finché,
alla fin fine, la poetessa trova il suo ambiente preferito nella purezza della
natura, fra fiori e papaveri che più di ogni altra cosa danno il piacere di esser-ci,
di sentirsi a casa nostra dopo il rientro da un lungo viaggio:
Fiordalisi e
papaveri
Torneranno a
parlare i campi di grano,
a litigare
fiordalisi e papaveri per uno sbocco d’aria
tra le spighe arse dal sole di luglio
e i piedi a
spaccare le dita sulle zolle aride
nei campi distesi
sotto la bella Dormiente
La fiamma di rosso
al tramonto il campanile
avvolge da lungi e
le cime con esso gareggiano
già nascoste dalla
tenebra lenta.
Insonne la notte al
caldo trafitto da grilli e cicale,
gracida il rospo e
la rana nel rigagnolo verde
di acqua e di
bianche ninfee.
Un gufo gli occhi
spalanca, guardiano
del faro notturno,
alla luna
che in cielo
argentea più delle stelle.
Nazario Pardini
DAL
TESTO
Vita mia
Mi vivo di me e dei cari volti
di queste stille di tempo
di quello che giunge in dono
senza la mia attesa.
Possa ogni giorno regalarmi
degli affanni il dolce oblio
e dietro le nuvole il volo
di Jonathan il gabbiano
che il cielo preferì alla terra,
potessi inebriarmi del profumo
della viola che nulla è
sebbene aria e fuoco e vita
per ritrovare il me che langue
nel riposto angolo buio
della superba dimora dell’anima delusa.
Potessi infine spalancare le finestre
sui muri spaccati dall’impetuoso vento
della vita e ad un cielo infinito uscire
e luminoso come quello che quest’oggi
mi tesse la speranza che non è la tela
tutta, bensì di Cloto il lembo di filo
stretto nella mano.
Nume tutelare
Di fronte alla finestra il foliage rossastro di betulla,
oggi un po' di più nevica foglie il vento
grondando tramonti di fuoco
nell’aria
gelida e secca
di
questo mese che alla solitudine
spalanca
e ai mesti addii.
Diverso è il destino delle foglie.
Non di uccelli migranti hanno virtù
a solcare terre e mari e montane cime
presto cadranno nell’umida pozzanghera.
Una sul davanzale sbatacchiata
la furtiva mano l’ha adagiata
supina come in grembo
tra le esangui pagine del libro.
La incollerò sul ramo a primavera
quando le foglie brilleranno di novello verde.
Perché ogni cosa abbia il suo nume
e nel nume certa la speranza.
Autunno
Donde questo
silenzio
di note nell’aria
grigia stupita
in attesa che
crolli la volta di nubi
o si squarci in
rivoli d’ acqua
questo cielo mio
muto. Impauriti
i gatti e noi
sempre più soli.
Nudi gli alberi e
battito d’ali
spento da tempo.
Timidi avanzano al
nulla
i pensieri gabbiani
affamati
sulla spiaggia
intatta di orme.
Fermo è il tempo di
vita
nell’ora che
declina alla morte.
Nell’aria solo
profumo di mosto
e celate promesse nel cuore.
Memories
Non conobbi così
presto il dolore
se non quando te ne
andasti, mamma,
e fu la mano che si
affievolì nella mia
d’un tratto come
ultimo addio.
Non capivo il
fremito che dalle dita tue
s’inerpicò sul
braccio e mi trepidò nel cuore.
In me la tua
energia morente
divenne flusso
perenne di presenza
e vita aggiunta a
vita
quella che mi
donasti
allorché il primo
raggio di sole
mi corrugò le
palpebre.
Lo sentii, mamma, e
fu per te
che impressi da
allora passi doppi
dinanzi alle porte
strenue degli anni
nei giorni sempre
più esigui, sempre più,
piccolo intervallo
al fatidico traguardo
dove tu più stanca
di me per l’attesa
seduta sarai ad
aspettarmi.
Ti restituirò
all’incontro la calda carezza
come allora e il
tuo amore e il mio
insieme saranno
spirito di fuoco.
Carissimo Professore, benevolentissimo amico, il mio cuore trema dinanzi alle tue parole, che con somma lucidità e affetto rivelano paesaggi interiori sconosciuti a me stessa, o percepiti non con uguale nitore. Evidentemente mi sono connaturati, fanno parte del mio sentire, ma le tue accorte e alte parole con cui dialoghi con la mia "poesia", aggiungono quella forza che mi gratificano di sicuro, e mi dà un certo conforto e mi trattiene dal vergognarmene, come spesso mi capita. Un dono prezioso, una testimonianza che l'umano esiste , al di là della sciatteria e arroganza moderne, e tu, Nazario, ne sei un esempio di cui si compiace e si avvantaggia la mia umile persona. Grazie, Nazario. Ti abbraccio Adriana
RispondiEliminaUna presentazione della tua poesia Adriana competente e di rara capacità analita e critica, oltre che di linguaggio "alto" . Complimenti a te e al professore.
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