L’appuntamento
di Anna Foschi Ciampolini
Una breve nota, scritta alla pagina del 12 settembre di
una vecchia agenda di appuntamenti, saltata fuori da uno dei cassetti della
scrivania, zeppi di fogli, vecchi
documenti e altre cose inutili accumulatesi nel corso di anni, che Claudia
stava ora scaraventando in un sacco della spazzatura chiedendosi perché mai
avesse conservato per tanto tempo tutti quei rimasugli per pigrizia, inventandosi
la scusa che un giorno avrebbero potuto servirle. Come sempre quando si
dedicava a queste periodiche operazioni di ripulitura era irritata con se
stessa, per quella sua incapacità di disfarsi delle tracce della propria
quotidiana esistenza che includevano contratti scaduti, ricevute per l’acquisto di oggetti da tempo rotti
o gettati e anche vecchie lettere e agende di lavoro. Proprio su una di queste
agende, scampata a una precedente epurazione, si era soffermata un momento la
sua attenzione. Sulla copertina di plastica blu si leggeva ancora in lettere
color oro: “Appointment Book – 1983”.
Si mise a sfogliarla entrando, pagina dopo pagina, nel corridoio dei ricordi
che la riportavano indietro, indietro fino agli inizi della sua nuova vita come
immigrata arrivata proprio in quell’anno a Vancouver con una lacerante nostalgia
per la sua Firenze.
Gemma O., ore 10:30
am, Bute Street.
Quanta gente aveva conosciuto in tutti quegli anni,
quante facce, quante storie diverse eppure simili aveva ascoltato da gente venuta da tutti gli angoli del mondo:
chi si era lasciato alle spalle tragedie, guerre e insurrezioni, chi era stato
scacciato dal proprio paese dall’intolleranza politica o dalla miseria, chi
invece era arrivato sulle ali della speranza in cerca di un futuro migliore per
i figli. Tutte queste esistenze si erano ricomposte e alcune si erano poi incrociate in quel grande crocevia del destino
che per loro era la città di Vancouver, un porto di mare sul remoto orizzonte
del Pacifico, un grande agglomerato di strade e case dall’identità incerta e
fluida, un posto ideale per gente in cerca di una seconda opportunità nella
vita.
Gemma O.: fra tanta gente incontrata e mai più rivista, di
lei si ricordava benissimo anche se le aveva parlato una sola volta. Agli inizi
di quell’anno, il 1983, Claudia era arrivata a Vancouver da sola, senza amici
né famigliari, con solo un tenue contatto con una famiglia di toscani emigrati
dalla Garfagnana. Era stata da loro per
qualche settimana, prima di sistemarsi in un appartamentino da poco prezzo e
trovare un lavoro. Bussando a molte porte aveva ottenuto dei lavori saltuari e,
un po’ per conoscere gente che poteva essere utile un po’per autentica passione,
si era messa a fare la volontaria per il giornale comunitario italiano. Proprio
al giornale aveva saputo che al Centro
Culturale Italiano cercavano una persona per un lavoro a contratto. Le avevano
detto di parlare con Joe Scalzone, che al Centro conosceva tutti e poteva
mettere una buona parola. Ansiosa com’era di trovare una sistemazione meno
precaria dei lavoretti che faceva, era andata una domenica fino a casa di Joe,
il quale abitava come bordante in un
appartamento di un vecchio condominio pieno di scale e porte . Si era affacciata
la vicina, una donna anziana scarmigliata e scura che gridò dall’alto del
quarto piano:
“Cca vuo’’? Joe
non ci sta! Sta a lavorare!”
“Ma oggi è domenica…”
“E mò? In questo paese simmo affortunati,
ti fanno lavorare anche la domenica, si fa moneta assai qui. Vattinne,
vattinne a lavorare pure tu che farai buona moneta!”
Alla fine era riuscita a farsi assumere per quel
contratto di sei mesi finanziato dal Ministero del Multiculturalismo, un
progetto di cui era coordinatore proprio Joe Scalzone. Si trattava, Joe le spiegò
sommariamente, di raccogliere degli elementi della storia della comunità
italiana di Vancouver, ma fino ad allora per varie ragioni non era stato
preparato molto materiale, il tempo stringeva,
e così vedesse un po’ lei come darsi da fare. Claudia, che si era
inventata un’ esperienza in materia che
non aveva pur di prendere quella giobba,
a furia di chiedere in giro iniziò a mettere insieme una lista di nomi per fare
delle interviste e ricostruire frammenti di storia ed esperienze personali
vissute attraverso i decenni dagli italiani immigrati a Vancouver. Girava con
un piccolo registratore portatile e con un taccuino di appunti, andava in
visita nelle case dopo aver chiesto per telefono di poter essere ricevuta;
scoprì presto che la gente, che all’inizio le rispondeva un po’ sconcertata e
diffidente, era felice di parlare e di raccontare. Molti degli intervistati
erano immigrati da molti anni, avevano tirato su famiglia ed erano ormai
anziani. A furia di sacrifici si erano costruiti un modesto benessere, qualcuno
anche una discreta fortuna che ora si
godevano in pace. Erano paterni e gentili, la facevano accomodare nel salotto
buono delle loro case linde e tenute a specchio, con le tendine fiorite e la
tovaglia ricamata sulla tavola da pranzo, le offrivano caffè e i dolcetti.
Dopo un paio di mesi l’archivio di Claudia cominciò ad
essere abbastanza folto di nomi. Si era sparsa la voce e la gente collaborava
volentieri sia dandole nuove indicazioni sia accettando di raccontare la
propria vita. Al Centro Italiano era diventata di casa, ormai. Continuavano a
chiamarla “quella nuova” o anche “la signora del culturismo, quella che scrive”
ma l’aiutavano nelle sue ricerche. Luisa Musso, la Presidentessa del Centro,
detta “La Padrina”, donna formidabile e temibile di cui si diceva in giro: “non
si muove foglia che Musso non voglia”, le aveva parlato di una anziana signora sua
amica che lei accompagnava qualche volta ai concerti e alle serate culturali.
“Vai a trovare Gemma O. Deve avere 80 anni o anche di più.
Vive qui da tanto tempo, ne ha di cose da raccontare!”
“Ma se è russa…non è un nome italiano il suo.”
“Ma no, ma no, hai capito male, ha un cognome russo ma
lei è italiana. Vai a trovarla, poveretta è sola come un cane, le farai
piacere. Dille che ti mando io!”
Così, quell’appunto alla pagina di un giorno chiaro di
sole settembrino, tanto tempo prima: Gemma
O., 10:30 am, Bute Street.
Gemma O. abitava in una residenza per anziani in pieno
centro città, in una traversa della vivace e affollata Robson Street. Era un
posto dignitoso ma senza fronzoli, gestito da un ente benefico e destinato a
persone di modesto reddito. Occupava un appartamentino composto da un’unica
stanza, un piccolo bagno, e con una grande finestra che lo inondava di sole. Le
sue poche cose erano tenute con molta cura. Quando venne ad aprirle la porta, Claudia
si ricordò di averla vista parecchie volte agli spettacoli offerti dal Centro
Italiano, vestita semplicemente ma con cura, come adesso mentre le faceva cenno
di accomodarsi.
“È un posto molto carino questo, molto luminoso” disse Claudia.
“Oh, no, qui dentro i mesi dell’estate sono terribili, questa
è una stanza così piccola e il sole non mi lascia nemmeno un angolino d’ombra,
ci batte – si dice così? - Ci batte il sole tutto il giorno. Vede, l’italiano
l’ho un poco dimenticato ormai, forse è meglio se parliamo in inglese! C’è questo caldo terribile tutto il giorno, è
come essere in un forno, mi sento soffocare! E d’inverno se non posso uscire
per via del brutto tempo, qui dentro la giornata non passa mai, mi creda.”
Claudia si guardò intorno. Sul tavolo notò subito una grossa
cornice d’argento riccamente elaborata, con uno disegno e uno stile tipico
degli orafi fiorentini. Alla parete, una donna giovane e molto bella, fasciata
in un abito da sera scollato adorno di una grande spilla lucente, sorrideva da
una foto in bianco e nero. Un’altra fotografia la mostrava tutta avvolta in una
pelliccia bianca dal collo alto,con un cappellino con la veletta che le dava un’aria
misteriosa da diva del cinema. Poco distante era appeso il ritratto di un uomo
con folti baffi e portamento fiero, che indossava una divisa militare carica di
alamari.
“Quello è il mio secondo marito, il colonnello O. e
quella, mi ha riconosciuta? Sono io.” disse Gemma.
“Lei era davvero bellissima! E così elegante! Mi scusi,
questa cornice sul tavolo mi sembra proprio artigianato fiorentino. Lei c’è mai
stata a Firenze?”
“Ci sono nata."
La scoperta di appartenere alla stessa città fu per Claudia
una piacevole sorpresa che la mise subito a proprio agio, e dopo qualche altro
scambio di convenevoli, poté iniziare l’intervista.
Non aveva più nessuno, Gemma, né figli né parenti.
L’unica sua amica era proprio Luisa
Musso che la veniva a prendere di tanto in tanto per portarla a qualche avvenimento.
Ma la sua vita era iniziata ben diversamente. Veniva da una agiata famiglia
fiorentina, era la più giovane di cinque figli, quattro sorelle e un fratello. Nel
1920, quando lei aveva sedici anni, suo padre, un ingegnere, si era trasferito
con la famiglia in Egitto per lavorare con la Compagnia del Canale di Suez. Nella
comunità di diplomatici, professionisti e imprenditori italiani e europei interessati
al Canale che formavano un circolo sociale e mondano attivo ed esclusivo, le
quattro belle sorelle fiorentine divennero presto stelle di prima grandezza.
“ Quasi ogni sera un ballo, una festa, un invito, e
poi fra noi giovani si organizzavano
gare di tennis, gite, pic-nic, non stavamo mai ferme e con mio fratello come
chaperon non perdevamo mai un avvenimento! Le sarte e le modiste lavoravano per
noi a tempo pieno, io avrò avuto in quei tempi almeno dieci vestiti da gran
sera…”
In quell’isola irreale di vita spensierata e
privilegiata, le nubi che già si addensavano sul futuro dell’Europa sembravano
lontanissime e improbabili. Gemma fra i suoi tanti corteggiatori scelse e sposò
un giovane diplomatico italiano e con lui girò il mondo accompagnandolo nel suo
lavoro con i consolati e ambasciate, muovendosi fra ambienti ed eventi molto
simili a quelli che aveva conosciuto in Egitto. Alla vigilia della seconda
Guerra mondiale si trovavano a Parigi. La tragedia colpì improvvisa. Il marito
di Gemma rimase ucciso in un incidente d’auto. Con il rapido precipitare della
situazione politica europea, anche la sua famiglia di origine non fu in grado
di darle molto aiuto: suo padre era morto e quasi tutto il patrimonio di
famiglia, male amministrato, era andato perduto. Fu allora che Gemma, che nel
frattempo aveva trovato un impiego all’ambasciata italiana di Parigi, incontrò
il colonnello Evgeny O., un aristocratico ufficiale zarista fuggito dalla
Russia all’epoca della Rivoluzione, un bell’uomo più anziano di lei di quasi vent’anni,
che era stato ricchissimo e negli anni dell’esilio parigino come molti altri
esuli russi si era trovato anche a fare l’autista di taxi. Era un uomo esuberante
con un temperamento vulcanico, coinvolto nei circoli dei Russi Bianchi che
continuavano a sperare in una restaurazione della monarchia. Il loro fu un
matrimonio passionale e tempestoso un po’ perché il colonnello era gelosissimo,
un po’ per i rovesci di fortuna causati dalle varie imprese commerciali che lui
avviava e concludeva per lo più rovinosamente.
“Che vuole, era un aristocratico, era stato ufficiale di
carriera, di affari se ne intendeva poco. Così se ne andò quasi tutto quel che
restava della sua ricchezza di famiglia e fu anche per questo che decidemmo di
venire in Canada. In Europa dopo la guerra i tempi erano molto difficili ed
Evgeny pensava che qui sarebbe stato più facile mettersi in affari. Dopo aver
vissuto a Montreal e Toronto, finalmente ci fermammo a Vancouver. Avevamo
viaggiato tanto nella nostra vita e cominciavamo ad essere stanchi di fare i
nomadi. A tutti e due piaceva la vita di società e anche in questa città ci
eravamo fatti un buon giro di conoscenze e di inviti. Evgeny era un uomo
eccezionale, non perfetto si capisce, ma gli anni che ho vissuto con lui anche
fra alti e bassi sono stati i più belli della mia vita.”
Tacque assorta nel ricordo, poi versò a Claudia un’altra
tazza di tè.
“Evgeny morì quasi quindici anni fa e lasciò solo pochi
risparmi. Io ero sola, avevo più di sessant’anni, troppo tardi per
ricominciare. Per un po’ ho fatto traduzioni, sa io parlo cinque lingue, poi
sono venuta a vivere qui, nella casa di riposo.”
Si spostò in un angolo per sfuggire al sole che invadeva
la camera, poi chiese:
“Vuole vedere giù di sotto? Abbiamo una sala ristorante,
la stanza della televisione…O vuole fare due passi fuori? Io esco così di rado,
mi farebbe tanto piacere uscire, se lei mi accompagna…proprio due passi qui
intorno sa, non voglio approfittare di lei, ma da sola non me la sento. Qui
dentro fa tanto caldo…”
“Ma certo, usciamo un poco, vedrà che fuori si sentirà
bene, c’è un bel venticello fresco.”
Si appoggiava a Claudia, leggera e fragile come un
uccellino, camminando a passetti lenti. Camminarono in silenzio per un tratto
della Bute Street, una strada di poco traffico fiancheggiata da alberi. D’un
tratto le afferrò il braccio:
“Vorrei tanto tornare a Firenze! Non voglio morire qui!
Ma da sola, così, non posso, mi sentirei sperduta, ho troppa paura. Lei,
signora, conosce per caso qualcuno che possa portarmi a Firenze?”
Claudia provò una fitta di pena, e non sapendo cosa
rispondere le chiese:
“Ha ancora la sua famiglia a Firenze?”
“No, no, non c’è più nessuno. Mio fratello morì in guerra
e l’ultima delle mie sorelle se n’ è andata quattro anni fa. Ma voglio tornare,
voglio tornare un’ultima volta! Son passati trent’ anni... non sono più
tornata. Lei, signora, proprio non crede che qualcuno possa accompagnarmi? Lei,
signora, non potrebbe venire con me? Non potrebbe aiutarmi?”
La sua mano scarna, segnata dalle macchie brune dell’età,
le premeva il braccio, supplichevole. Claudia non voleva mentire, ma esitava a spegnere
quella speranza, sentendo crescere in sé la stessa pena dell’esilio.
“Forse potrei chiedere in giro, signora Gemma. È
difficile, ma non impossibile. Io purtroppo non posso, ma vedrò di chiedere.”
“Sì, sì, domandi, chieda, chissà. Lei tornerà a trovarmi,
non è vero? Verrà ancora? Ho tanto da raccontarle…sono sempre sola, mi
raccomando, l’aspetto. Ora mi riaccompagni a casa per favore, comincio a sentirmi
un po’ stanca.”
****
Non la rivide più. Forse Gemma questo lo aveva capito subito.
Chi ha vissuto così a lungo non ha più tante illusioni, vuole solo far finta di
credere in qualcosa che aiuti a sperare, che rappresenti uno scopo anche minimo
o impossibile, perché altrimenti il vuoto e la rassegnazione uccidono.
Sono passati trenta anni da quell’incontro e Claudia non
è più giovane. Ora capisce appieno la vulnerabilità della vecchiaia, l’aggrapparsi
a speranze e desideri che non si realizzeranno più. Si sente vagamente
colpevole di non aver mantenuto – allora - la promessa fatta a Gemma.
Non era stato certo per indifferenza, quanto per il corso
senza respiro che la sua vita aveva preso, affrettata e divisa fra due o tre
lavori che faceva per guadagnare da vivere e per tutte le altre cose che aveva
voluto fare per passione, e forse più ancora, adesso lo ammette con se stessa,
per paura, la paura inespressa di anticipare la visione del proprio futuro come
in uno specchio e di vedervi il volto terribile della solitudine.
Prese la vecchia agenda e la gettò nella spazzatura. Ogni
storia è diversa e ogni storia è uguale, pensò. L’importante è viverla fino in fondo.
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