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lunedì 14 dicembre 2020

ANNA VINCITORIO LEGGE: "DAGLI SCAFFALI DELLA BIBLIOTECA" DI NAZARIO PARDINI

 

NAZARIO PARDINI

Dagli scaffali della biblioteca

Poesia

Guido Miano Editore

Anna Vincitorio,
collaboratrice di Lèucade

 

Ho davanti agli occhi una fuga di endecasillabi sciolti e le memorie familiari di Nazario che si ripetono, rinnovandosi ogni volta come acqua sorgiva. La vita è un continuo ricordo. Ricordi che pungono sono il passato del poeta. Non può separarsene. Per lui, essenza presente nell’assenza. “Oh finestra/ che aprivi ad orizzonti larghi e vasti,/ o familiari stanchi/ di

povertà nascoste dentro il cuore/ di chi conobbe stelle,/ e luna riposare dentro un pozzo/ di una madre sfinita;/ o padre o fratello, e focolare…”. Infanzia permeata di dure fatiche, di povertà, ma così ricca d’amore tra i componenti della famiglia da suscitare rimpianto. I suoi cari da lui inscindibili. Immagini visive, forti nel ricordo di un bambino. Nel sogno visioni: “Ho rivisto mio padre, un uomo stanco/ che scaldava la fatica ad una stufa/ povera di legna in un cantone”. Una miseria costruttiva che ha portato Nazario e i suoi fratelli ad una condizione sociale di sano benessere perché nato dal disagio ma con tanta presenza di amore.

Amore che non si spegne con la morte dei suoi cari. Il fratello Sauro

rivive nella figura del figlio Sandro. Dolci parole per i nipoti, gemelli, per Saverio e Graziella e tutti gli altri. Nella casa, appese le pitture del fratello che più non è ma di queste, fa da copertina a un libro: rivive una strada e, in quella strada, una comunione di anime che il tempo non intacca. È stanca la sua penna: “non ho più l’inchiostro sufficiente per descrivere/ il triste stato di una solitudine/ stordita dalle voci andate via”. E allora? “la campagna è fiorita. Sopra il prato/ sono seduto accanto/ a Catullo, Manzoni e Leopardi,/ il tempo si è fermato, si è stancato”.

Il poeta è circondato dai suoi libri. Una vasta biblioteca e lì riuniti, i poeti.

La sua è una solitudine ammantata di parole. Sono con lui maestri, nella prima giovinezza, poi, amici con presenza di parole. Tutti lì; uno accanto all’altro. Ho immaginato Nazario che socchiude gli occhi e il silenzio si fa voce e musica. Prima con vibrazioni, poi, con fuga di note. Pieno romanticismo; nel buio di un teatro, musica esaltante in un crescendo in movimento. Balocchi che prendono vita. Lui riconosce quella musica: è di Cajkovskij. È travolto dal movimento. Nel suo petto una sensibilità esasperata. È rapito come in un sogno ma presente, sia pur a occhi chiusi.

La musica piano si dissolve; le pupille roteano nella stanza e cercano…

Ad uno ad uno, dalle pagine dei libri sfuggono parole, appassionate, crude, ironiche, corrucciate. I poeti prendono forma e vita: Leopardi che declama A Silvia; D’Annunzio canta Ermione. Si addensano forti, i versi di Allegria di Ungaretti; Montale corrucciato e poi, struggente, una lettera di Sibilla Aleramo a Dino Campana. Lui, prigioniero della sua follia e la vita e la sua morte in quel di Castelpulci. E poi, Catullo, compagno di pene e gioie d’amore per Nazario. “dein mille altera, dei secunda centum,/ deinde usque altera mille, deinde centum/…”.

Lesbia per Catullo, Delia per Nazario. Erotiche fantasie retaggio di una

lontana giovinezza! Nazario prende il libro di Platone che inveisce: “Erano vent’anni/ che non mi sfilavi;/ via, vai altrove, quello che io penso della poesia/ lo leggerai più tardi. Vattene via!”.

E così, come al terminare della musica i balocchi dello Schiaccianoci

perdono la loro animazione, egualmente i libri, di nuovo riposti in bell’ordine, tacciono. Ma i loro contenuti sono nella mente e nel cuore di Nazario. Suoi compagni di vita. Sempre presenti in lui la figura materna nel suo lungo, faticoso vivere. “non portava i tacchi a spillo” ci ha raccontato. In lui i versi di Ungaretti dedicati alla madre: “E il cuore quando di un ultimo battito/ avrà fatto cadere il muro d’ombra/ per condurmi, Madre, sino al Signore,/ come una volta mi darai la mano./ In ginocchio, decisa,/ sarai una statua davanti all’eterno, come già ti vedevo/ quando eri ancora in vita./… I versi dei poeti incidono sulla vita di ognuno e il leggerli e il riascoltarli lascia una traccia profonda. Non muoiono i poeti; resta la parola che è vita e insegnamento per chiunque abbia sensibilità di ascolto. Nell’ultima parte della silloge, dieci poesie d’amore. Nazario, dal cuore rimasto giovane, ricorda e canta l’amore. La sua Delia dal sorriso di sole che irradiava luce nella stanza. Immagini che fluttuano; il mistero  avvolge eteree figure che appaiono per poi scorrere via come l’acqua nel suo fluire. Abbiamo un Nazario giovane, ingenuo e folle di amore e di innocenza. Possono essere versi che appartengono a momenti magici anche se, forse non vissuti ma solo vagheggiati. Presenza lontana di una fiorita giovinezza. Sempre il mare e i suoi colori negli occhi della donna amata. Può esserci silenzio intorno a lui ma sempre viva la luce del ricordo. Poeta tra i poeti. Vita e pensiero come un fiore che anche se si sfoglia, rinascerà ad ogni primavera.

Firenze, 28 novembre 2020

Anna Vincitorio

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