Umberto Cerio, collaboratore di Lèucade |
Pasquale Balestriere su IL POETA NON MUORE di UMBERTO CERIO
Pasquale Balestriere, collaboratore di Lèucade |
RICORDO DI UMBERTO CERIO
di Pasquale Balestriere
Prefazione
Cominciare la lettura di un
libro significa dare inizio ad
un’avventura che coinvolge mente e
spirito, intelligenza e fantasia. Se poi si tratta di un’opera di poesia, l’avventura
diventa totale per la stessa natura dell’arte poetica e dello strumento
comunicativo che la incarna e la sostiene, e cioè del linguaggio, che ha
capacità e facoltà di rompere steccati, moltiplicare significati, superare
limiti e regole che ingabbiano
altri tipi di scrittura. E tutto questo
per dar vita a passioni ed emozioni, per ridurre in versi quel mondo
interiore di fervente fluidità che è la
vera sostanza della poesia e dei suoi interpreti. Ecco, chi legge i poemetti di Umberto Cerio,
contenuti nella presente silloge, si trova come per incanto ad esplorare la
vita, a stupirsi della sua varietà e molteplicità,ma anche a prender nota di
costanti o invarianti, di analogie e di ricorsi; e soprattutto a infrangerne le
barriere, spaziali e temporali, perché
qui i voli sono veramente pindarici se è vero che le ricorrenti
oscillazioni tra
la contemporaneità e l’ambito
mitologico sono una delle
caratteristiche più significative della tecnica poetica dello scrittore molisano.
Induce alla meditazione la
poesia di Umberto Cerio accampata in questo volume e ben distribuita nei vari
poemetti. Tesse giochi di rimbalzi
tra vita e mito, tra realtà e
fantasia, verità e finzione poetica,
stabilendo connessioni e agganci, venati di suggestioni analogiche e
allusive. Qui la vita si fa mito e il
mito si effonde nella vita ( “Non è leggenda antica, /ma è mito, è vita vera,
non favola / che si dissolve in gioia ...” Medea,3,3-5), sicché non è chiara la
linea di demarcazione tra l’una e l’altro -se pure c’è-; che anzi
i personaggi mitici e mitologici vivono una sofferta temporaneità,
patiscono la loro condizione di viventi stretti nella gabbia dell’esistenza
che, per i suoi stessi limiti, genera conflittualità e situazioni di dolore.
Se il Nostro ama il mito al punto da portarselo
nel cuore, ove felicemente dimora, ciò accade perché egli lo sa elemento
fondante della vita, a questa necessario
come elemento di crescita e di realizzazione di quegli ideali ai quali ogni
essere intelligente e pensante non può
fare a meno di ispirarsi. Così nei suoi versi il termine greco mythos esprime i significati e le sfumature che, nell’ottica
che ci interessa, lo connotano, e
segnatamente quelli di mito, storia, narrazione, favola, leggenda, racconto fantastico;
sicché, per questo riguardo, potrebbe sembrare
che il mito antico abbia nella poesia di Cerio un ruolo paradigmatico,
esemplare. Non è proprio così. Il mito
antico assume talvolta la funzione di provocare il momento creativo
o di essere cassa di risonanza di sofferti traumi moderni, rivelando al poeta
l’immutabilità della condizione umana, e soprattutto quelle costanti che
accomunano sorte, atteggiamento e comportamento dell’uomo di oggi a quella di
individui vissuti millenni prima. Tuttavia non è scontato che l’impulso a
scrivere venga dal mondo antico, mitico
e mitologico; che anzi, i miti s’inverano nel vorticoso pulsare della vita di
ogni tempo; e spesso è la durezza della vita di oggi a dettare al nostro poeta
un canto ora ribelle ora rassegnato; sono i drammi esistenziali dell’uomo
contemporaneo che lo spingono a cercare relazioni e confronti con l’antichità mitica ed eroica.
Per lui il mito abita, indifferentemente, nel
passato e nel presente, vive -in situazione di latenza- in tutti
gli uomini. Potenzialmente tutti possono incarnare un mito. In realtà solo chi
ha consapevolezza di sé ne può attivare la vita, in un processo di affinamento
culturale e morale, in un perseverato tentativo di migliorare se stesso e la
società di cui fa parte. Così il mito, dipartendosi dalla quotidianità, diventa
archetipo della condizione umana non di ieri o di oggi, ma di sempre.
Certo è che la poesia di
Cerio, così densa di humanitas, cerca
risposte per giungere alla radice delle cose, risalendo a ritroso lungo i canali
della vita per attingerne la non sempre chiara verità, o forse addirittura il
mistero; sicché per questo i personaggi specialmente femminili si colorano di
una complessa psicologia, svelano al lettore i meandri dell’anima, gli impulsi
e i sussulti di un cuore angosciato, perché quasi sempre dilaniato da opposti
affetti, o che pulsa ingabbiato tra
sentimento e dovere, tra scelta e necessità; e si dispiegano nella loro tragica
bellezza, nella loro polivalente sensibilità. Prendiamo Alcesti, per esempio:
paradigma di amore totale che supera i confini della vita, si offre alla morte
in luogo del marito, dandosi all’immortalità della poesia e relegando, pur senza
volerlo, il personaggio del consorte a una figurina gretta, egoista, ambigua; o
Arianna, protagonista di una vicenda d’amore
disilluso, cioè sperato, desiderato,
promesso, mai veramente realizzato per essere stata abbandonata da Teseo; o di
Euridice, di Antigone, di Medea.
Va detto però che il ricorso
al mito classico, utile anche sotto il profilo allusivo, è
giustificato dal fatto che Cerio individua in quello i precedenti di ogni
singola azione umana: come capita nel caso delle Medee attuali che sacrificano
gli affetti sull’altare di una vendetta, di un’opinione o di un convincimento ;
o di una Arianna d’oggi che,
“abbandonata” involontariamente dal suo uomo perito in un incidente
automobilistico, tiene in una condizione di sospensione e di dubbio doloroso
-con un autentico ribaltamento di ruoli rispetto al mito antico- uno “spirito
amante” di sesso maschile che attende da lei la risposta decisiva; o di una
Antigone dei nostri tempi così involontariamente simile a quella mitologica fin
quasi alla specularità ( “Anche tu, anche tu, Antigone d’oggi / che non credi
nell’Ade / che triste andrai nella terra dei morti /...). È il caso di notare
come il poeta, in linea con il suo ruolo,
segua anche interpretazioni diverse da quelle ufficiali o introduca
elementi di novità. Così capita in “Euridice” dove egli, seguendo
l’interpretazione di Robert Browning, prende le distanze dalla vulgata e sostiene
che fu la ninfa a volere che Orfeo si voltasse, chiamandolo e consegnandosi
così definitivamente al regno dei morti. Non meno evidente è la carica emotiva
che i personaggi maschili sprigionano nel lettore rendendosi così assolutamente
singolari, anzi irripetibili e tuttavia restando incredibilmente umani e
sofferti. E tra i suoi personaggi fa capolino anche lui, il poeta, attraverso
spunti autobiografici diffusi qua e là, ma soprattutto in “Io Orfeo, nel labirinto”: qui si tratta
di un viaggio, particolare però, anche per l’assenza
di notazioni spazio-temporali, che dice -letteralmente- una descensio ad
inferos, un cupo precipitare nell’ignoto, un perdersi irrefrenabile e
irrevocabile; gelido, doloroso.
Ma è il caso di fermarsi per
lasciare al lettore il gusto della scoperta. Solo un’ultima, breve, notazione
che riguarda il linguaggio sotto il profilo tonale:
pacato, serio, intriso di pietas, segnato da echi e risonanze. Scolpito, di
tanto in tanto, da settenari che frenano e quasi dominano l’onda dei
sentimenti, riducendola entro i binari di una consapevolezza epico-tragica,
perfusa di un pathos assolutamente corale: perché spesso questi testi
riportano, in fitto ideale dialogo, alla
solennità dei cori delle tragedie greche. Con, in più, tensioni allusive e
suggestive che tramano ogni storia,
narrata con cuore da poeta. Dove storia significa -semplicemente- vita.
Di ieri, di oggi, di sempre.
Umberto Cerio, cantore
pensoso della vita.
Pasquale Balestriere
*********
Il Poeta
Ecco la
testimonianza di Nazario Pardini, il “padrone di casa”, che si esprime su “Il gabbiano Bianco”.
Per Umberto Cerio e il suo “gabbiano bianco”
Poesie di una tale intensità umana che si fanno tue; che vorresti averle scritte tu perché c’è il gabbiano bianco, c’è il mare, la lontananza, il brivido che ti lascia addosso il verso pulito, armonioso, fluente, denso, zeppo di simbologie che tornano a dirti della precarietà dell’uomo, della fugacità del tempo, di quella temperata e mai eccessiva nota di saudade che ingentilisce il tutto. Insomma perché ci sei tu, ci siamo tutti. Sì, qui si vola; si vola come i gabbiani baudelairiani, perché non siamo fatti per stare a terra; a terra si brancola, si dimena ridicolamente: il poeta vuole il cielo, la luce, l’amore, la vita; vuole la libertà; l’attuazione del sogno di una storia: “… Ora tace deserta la marina./ L’ombra si allunga e vibra/ piena di una dolcezza atroce,/ acre adduce le tracce di silenzi/che avevano parole/ di remote memorie e di futuro.”. Tace la marina ora che il gabbiano bianco ha spiegato le ali vero orizzonti nebbiosi. Ma Cerio non vive di semplice nostalgia; può seguire con la fantasia il suo gabbiano, anche se l’immagine si confonde con la bruma: “…Nel vento continuo ad inseguire/il mio gabbiano bianco/ che vola nella luce della vita.”. Una poesia farcita di metaforici allunghi allusivi, di scaglie lucenti di mare, di ombre vaganti di sera, come lo è il percorso di un’intera esistenza; e si sa che quanto più una storia prolunga la sua traccia, tanto più cospicue sono le memorie che si lascia dietro; forse sono proprio quelle ad allungarne il tragitto. Basta ricuperarle, fattesi nuove, vestite di soffice gentilezza, di amorosi sensi, di brividi memoriali. Basta che il gabbiano bianco non ci abbandoni e che ci permetta di seguirlo nei suoi volteggi, anche se la vita ci vuole a terra senza ali: “… E’ il mio gabbiano bianco/ che prende il mio posto/ e scambia il mio cuore col suo./ E la notte non è più buia./ / Mi sei entrato nell’anima/ e mi hai placato inquietudini,/ oscuri abissi scavati nel cuore.”, basta che scambi il suo cuore col nostro, che ci entri nell’anima, perché la notte non sia più buia. Basta che la voglia di vivere sia lucente come il dorso di quel gabbiano trafitto dai raggi del sole: amore, memoria, maturazione, riflessioni, cotidie morimur, sogni, volo, e quesiti che si mangiano risposte. E spero che Umberto voli alto come il suo gabbiano. Nazario Pardini
PER UMBERTO CERIO E IL SUO GABBIANO
IL GABBIANO BIANCO
Non ho mai sognato la Sfinge
ed
il deserto delle Piramidi;
il
mio cuore le indovina ardenti,
nella
sabbia segnata dai cammelli.
Altro
è il mio sogno lungo:
Forse
è quel gabbiano bianco che fugge
e
assapora la salsedine
dell’aria
in volo e in tuffi folli l’acqua
che
cela la sua preda disperata.
Certo è quel gabbiano bianco,
che
seguivi con uno sguardo d’ansia
con
dolore indecifrabile.
Certo,
certo era quel gabbiano bianco
che
tornava stanco di vento
-come
il mio cuore- al tuo balcone.
Ora tace deserta la marina.
L’ombra
si allunga e vibra
piena
di una dolcezza atroce,
acre
adduce le tracce di silenzi
che
avevano parole
di
remote memorie e di futuro.
E
perde il senso il tempo dell’attesa.
Edita -2006- settembre
IL RITORNO DEL GABBIANO BIANCO
I silenzi di questi vecchi templi
diroccati
dal tempo
hanno
parole di antichi Dei
che
si muovono –ombra tra le ombre-
e
lasciano profumo di ambrosia.
Di
poco lontano il mare
altre
ombre disegna.
Sono
quelle dei gabbiani in volo.
E ancora
ancora
il mio gabbiano bianco
con
ali di salsedine odorosa
e
d’improvviso appare il volo
dall’ombra
silenziosa
grave
di sogni e di anni lunghi,
ancora
stanco di cielo ventoso
che
cerca, come il mio cuore in ansia,
la
tua casa e il tuo balcone.
Ahimè le storie sono lunghe
a
raccontare e rapide a finire
ed
io, segreto e silenzioso,
dentro
mi porto lente le ferite.
E
tu scandisci, nell’attesa,
-
terribili stille del tempo-
sacro
il tuo dolore d’anima
all’andare
di quelle ombre
che
lasciano fascinosi i silenzi
scarni
ed ebbri i vuoti
tra
colonne ed are in frantumi.
Nel vento continuo ad inseguire
il
mio gabbiano bianco
che
vola nella luce della vita.
ANCORA IL MIO GABBIANO
Ed ecco di nuovo il mio gabbiano
stanco
di volo e di mare in tempesta
che
torna sul suo scoglio
grave
di terra scagliosa e di pietre
inospitale
arida e selvaggia.
E’
la nostra terra che chiama
nelle
sere degli ultimi colpi
d’ali
che non sanno parole,
che
non hanno illusioni né sogni.
Ed
il cuore sbalza nell’altalena
della
giostra furiosa
sui
sentieri dei cavalli del Sole.
Tutto
in un pugno sacro e folle
e
la vita che sorge
prepotente
come schiocco di frusta.
E
intanto che gli urli delle onde
del
mare si trasformano in canto
di
coro greco sullo scoglio “vedo”
il
mio bianco gabbiano diventare
Perdice
fatto immortale dal “volo”.
O
vaneggia la mia mente stanca?
Ma
io so che è il mio gabbiano bianco
che
prende forma di pensiero
e
diventa il sacro corifeo
che
buie sventure canta al mondo
e
grida la sua folle ira
per
l’esilio della notte immensa.
E’
il mio gabbiano bianco
che
prende il mio posto
e
scambia il mio cuore col suo.
E
la notte non è più buia.
Mi sei entrato nell’anima
e
mi hai placato inquietudini,
oscuri
abissi scavati nel cuore.
UMBERTO CERIO
IO,
ORFEO - NEL LABIRINTO –
E inseguivo Euridice,
che
ombra tra le ombre, si perdeva
fino a
sparire in una nebbia ostile.
I miei
passi, -e la flebile certezza-
sempre
più arresi a vana speranza,
seppero
vicino il precipizio
e
l’angoscia della caduta
nell’improvviso
spazio
del
vuoto ignoto della coscienza.
Non
c’era più la luna
e il
manto delle stelle
e i noti
sentieri
né il
sole i fiumi e le montagne
né la
cetra del canto mio di luce.
Conobbi
altre certezze
-atroce
cateratta di straniero
fiume
turbinoso in piena-
senza
speranza di catarsi,
ormai
smarrito nel labirinto
oscuro
del corpo e dell’anima.
Questo
gelido vento
che
l’anima in vortice divora
e il
corpo fiacca e frantuma,
le
ombre dei morti inchioda alle rocce
-e
tremano degli Inferi gli abissi-
dove
vuole portare anima e corpo
che
sprofondano in buio atroce?
E’
questo dell’impassibile Ade
del Tartaro
il regno
dove
si addensano ombre famose
e di
anonimi morti?
E sono
io Orfeo che cerca
Euridice
ritrovata e perduta?
E
perché Caronte mi nega
il
secondo passaggio?
E
dov’è la mia Euridice
e
dov’è tutta la mia vita.
I
ricordi scavalcano il fiato
del
lamento dei morti e volano
con la
mia caduta lunga, feroce,
e
perdono la luce della vita.
Quali
sorrisi lievi mi donavi,
mia
dolce Euridice,
quale
bellezza del tuo corpo
donavi
ai miei nervi tesi
e la
fragranza dolce
dell’abbraccio
al tuo respiro.
E i tuoi
occhi profondi come il mare
che
già altro gorgo preannunziavano
se a
sera le braccia mi tendevi.
Maledetto
del serpe il morso
e
Aristeo che ti ha inseguita
nell’erba
alta della morte.
Ma io
precipito, cado nel vuoto
nero,
sbattendo sulle dure rocce.
Sanguina
il mio corpo, sanguina
il mio
cuore e lascia lunghe le tracce
del
suo dolore oscuro
e il
petto mi si squarcia, dilaniato
dalle
lame feroci delle rocce.
Questo
vento gelido, furibondo
straniero
e malvagio
continua
a trascinarmi tra scogli aguzzi
che
ancora, ancora mi tagliano il petto
e il
cuore senza più sangue
nel
buio sempre più tetro e amaro.
Oh la
vita con la mia Euridice!
vissuta
nei giorni del Sole
nelle
notti delle tede e la luce
sui
nostri occhi e sui volti
dall’amore
fatti divini.
Quale
fiamma scaldava i nostri corpi
o mia
fragile, mia dolce Euridice!
-la
tua chioma ed il corpo fragrante-.
Cado,
cado! E precipito nel buio
profondo,
maledetto
tra
spuntoni delle rocce sporgenti
-acre
lacerarsi di nervi e carne-
-dolore
al cuore trasmesso e alla mente-
che
son divenuti memoria
appena
svegliato dal nulla
di una
notte solitaria
ove
ricomincia vita precaria
che
incompiuta speranza si aspetta
dai
detriti della vita passata.
Ma
dove sono le stelle impazzite?
Le
notti passate col fremito
della
mia dolce Euridice?
Dove
sono i Mani che si pieghino
al mio
desiderio di riavere
Euridice
alla vita del Sole?
Era
vero ciò che il mio canto
otteneva,
oppure era inganno
di
Persefone il turbamento
e lo
sguardo incredulo di Ade
per
noi che tornavamo alla luce
e alla
vita del mondo superno?
Poi il
tuono e lo schianto,
un
baleno più forte dell’Averno
ogni
cosa travolse
e
scomparve Euridice e la strada.
Il
buio lungo fu il tutto,
e nero
precipizio fu lo sbalzo
che
stavamo salendo,
precipizio
che ancora mi percuote
mentre
cerco la mia Euridice.
Dove
sono le stelle
e gli
occhi della mia donna in amore
dopo
il fragore del crollo
che
improvviso portò buio e silenzio?
Il mio
canto più non ha senso,
più
non commuove le fiere selvagge,
non fa
più tremare le rocce
e gli
alberi delle foreste.
Restano
lame di pietre taglienti
che
strappano la mia carne
e
tagliano le mie ossa.
Sono
questi gli Inferi
dove
cercavo la mia donna,
dove
si consuma l’involontario
martirio
e la vita di Orfeo?
Le
ombre che vedo nel buio
sono
davvero le ombre dei morti,
o
vaneggia la mia mente?
Ma
ecco, la tempesta si arresta,
si
arresta infine la caduta,
ma più
non c’è cielo sole o stelle.
Resta
la memoria di ogni frammento
del
tempo e dello spazio
e
torna il gioco della memoria,
l’altalena
dell’attesa insonne,
la
ricerca di ombre conosciute.
Si
placa lo scempio delle mie membra
e
l’inconscio dolore.
Ricomincia
il respiro: quanto tempo
è
passato, che cosa è accaduto
al mio
corpo, quali ferite?
E quel
che noi cercammo
il
primo barlume ci diede,
un po’
cieco un po’ luce su abissi
discesi
atrocemente in precipizio:
la
difficile strada del ritorno
senza
la dolce mia Euridice.
Ed io,
martoriato Orfeo,
comincio
a risalire i dirupi
e le
stanze orrende ed informi
delle
ombre stupite,
incredule
della mia risalita,
così,
così i supplicati Mani,
così
Persefone addolorata
mentre
stranita il volto nasconde,
così
l’incredulo Ade, in guisa
di
mortale, si pone ad ascoltare.
Pietra
dopo pietra e ombra dopo
ombra
cerco la luce.
So che
il mio canto tonerà
a
smuovere macigni
a
scuotere gli alberi dei boschi
a
rendere mansueti gli animali
a
placare gli uomini selvaggi.
Il
canto mi renderà Euridice
e ci
riporterà al Sole
e
questa cava testuggine
che
sempre offre suoni così dolci
renderà
più bello il mio canto
quando
risplenderà a me vicina.
Canterò
la mia donna
lungo
le rive del freddo Strimone,
tra
l’erba alta dei serpenti,
i
templi sconosciuti degli Dei
minori
per uccidere Aristeo.
E
pregherò i Mani e Persefone
dal
tenero cuore pietoso
-e
l’acre, ostile, oscuro Caronte-
perché
viva a me la diano ancora.
E la
cercherò tra costellazioni
segrete,
più lontane dalla terra,
dagli
spazi bui e sconfinati.
Tra
l’una e l’altra riva del freddo
Strimone
chiamerò la mia dolce
Euridice.
Griderò “Euridice!....
Euridice”!
e forse risponderanno
per
lei le due sponde del fiume
e mi
diranno il non luogo
dove
ancora cercarla.
Ma era
stata un’esplosione
primordiale
con un rombo infinito,
con la
sua luce informe e violenta
e il
tuono irrefrenabile del buio
che
sprofonda nel nostro universo.
Non
c’è la distesa del cielo
di
quando in volo inseguivo i gabbiani
e gli
aironi leggeri
sul
canto azzurro del mare,
quel
mare dall’arenile selvaggio
silenzioso
e solitario
che
ogni volta mi affascinava
e mi
stregava con l’onda leggera
di una
danza sconosciuta e segreta,
mare
che aveva profumo d’estate
e
della nostra giovinezza,
che
infrangeva tempo di clessidra
e
spazio di aria di terra e di luce,
quando
i sogni avevano colori
di
speranze e di sicuro futuro.
Nelle
notti serene
noi
leggevamo nelle nubi bianche
e nei
bagliori della luna
il
fremito della tua tenerezza.
Ed ora
tutti i crolli
-crollata
anche l’illusione-
hanno
distrutto la via del ritorno.
Da qui
non si torna indietro nel tempo
e non
si torna alla luce del Sole,
agli
spazi gioiosi della terra.
Si
deve cercare uscita certa
nella
bigia incertezza dell’oltre
-tra
le siepi di pietre aguzze
e
taglienti- dall’esito incerto-.
Devo
ancora vedere altre ombre
nelle
nicchie oscure e nascoste
delle
rocce fredde e nodose.
Ombre
di grandi eroi
e di
anonimi grigi guerrieri.
Sono
negli Inferi strani e dubbiosi:
le
ombre dal colore della morte
dal
dolore delle ferite
ma
senza il sentore del sangue.
Dove
sei mia dolce Euridice?
Tu mi
hai portato il vento,
le
tempeste del buio della notte.
Tu mi
hai portato il Sole
e la
luce del meriggio infuocato
e i
lenti canti dell’aia
al
sapore dei frutti succosi
al
crepitio del grano
che
fragile cedeva alla falce
impietosa
tagliente e dolorosa.
Tu mi
hai portato le primavere
e i
pomiferi autunni
tra le
stoppie chinate alla terra
delle
timide allodole al canto.
Eri alla luce alle soglie del Sole,
al di là del sogno e della morte
e
lenta rinveniva la coscienza:
con me
già respirava Euridice,
-la
tenera cercata Euridice-
tra la
mestizia di ombre senza vita.
D’improvviso
dal buio della notte
fu il
giorno. Si svegliarono
e
tremarono gli alberi e le rocce
e
piansero di gioia le Driadi.
Euridice
era lì. Io tornavo.
Alla
forza del fremito di vita
che
impazzito tempestava la linfa
che
aspettava il tumulto vitale,
l’esplosione
improvvisa della luce.
E il
sangue di nuovo
premeva
nelle vene e nel cuore.
Scomparvero
le nottole urlando.
Tornarono i frutti della terra
Umberto Cerio
Caro Pasquale, Complimenti a Te per il ricordo del caro amico Umberto nel primo anniversario della della Sua dipartita e per quello che hai postato su questo Blog insieme al caro Prof. Pardini. Ciò che si semina si raccoglie dice un vecchio saggio e Umberto aveva seminato bene la Sua umanità, la sua umiltà e la Sua bravura di poeta con la P maiuscola. Tale doti si evincono palesemente nel leggere i suoi versi. Calza opportunamente dire qui che, ieri mi è stato recapitato un plico inaspettato. Apertolo ho avuto la gratitissima sorpresa di toccare con mano un volumetto dal titolo: IL POETA NON MUORE MAI con sopra il nome dell'autore: UMBERTO CERIO. E' stata veramente una gratitissima sorprese inaspettatta che la Gent.ma Sig,ra Clementina ha voluto farmi per quel rapporto di amicizia e di stima reciproca che man mano si era venuta ad instaurare tra Umberto e me. Diverse volte mi aveva promesso di inviarmi suoi libri e ora che ne ho in mano uno certamente lo divorerò da subito. Pertanto, ringrazio pubblicamente e di cuore la Sig.ra Clementina e consentitemi di salutare ancora,come sempre facevo tramite Leucade, il mio cara amico UMBERTO. Pasqualino Cinnirella
RispondiEliminaCaro Nazario, con questo commento voglio ringraziare te, per lo spazio,e i familiari di Umberto Cerio, e cioè la Signora Clementina e i figli, per aver dato ancora voce al nostro Amico attraverso questa pubblicazione.
RispondiEliminaEgli, fiducioso, me ne aveva affidato la prefazione, aveva preparato con amore il volume, inviato poi alla casa editrice per la stampa. Certo,non ha fatto in tempo a vederlo pubblicato: ma sono certo che, se avesse potuto ( e forse può, chi lo sa?), sarebbe stato contento, perché il libro è bellissimo sotto tutti gli aspetti.
Il Poeta non muore, carissimo Umberto. Concordo con te su questo che è stato il tuo ultimo e profetico messaggio di poesia. Perciò oggi sei su Leucade. Per questo tu rimani con noi.
Pasquale Balestriere
L’ultima volta che ho letto qualcosa di lui il caro Umberto, è stato nel settembre del ‘19, quando su Leucade pubblicava Il gabbiano:
RispondiElimina“Altro è il mio sogno lungo:
Forse è quel gabbiano bianco che fugge
e assapora la salsedine
dell’aria in volo e in tuffi folli l’acqua
che cela la sua preda disperata.”
L’ho commentato con emozione seguendo l’impulso: “ Il gabbiano che vola libero , giovane ed impetuoso, fuggendo la banalità del quotidiano …gli idola animi, della mente e del cuore diventano l’immagine guida che interpreta il vivere del poeta; gabbiani che vanno e …tornano carichi di esperienze, ma anche di “lente ferite”, persi i sogni e i desideri, in “anni lunghi”, ma desiderosi di ancore, di punti di riferimento “ancora stanco di cielo ventoso/ che cerca, come il mio cuore in ansia,/la tua casa e il tuo balcone. Ombre e attese, silenzi fascinosi accompagnano il viaggio in più tempi, a loro modo eloquenti, dolci, ma inquietanti: “ la nostra terra che chiama/nelle sere degli ultimi colpi/d’ali che non sanno parole..”. Una potente simbologia un raffinatissimo canto di U. Cerio.
Mi rispondeva a ruota: “ Maria Grazia, puoi essere "in consonanza col volo del mio gabbiano".
Le poesie sul mio gabbiano possono essere considerate un dono a tutti gli amici. Ti è possibile andare su una spiaggia solitaria, con piccoli scogli? Potrai osservare il volo e il riposo dei gabbiani e "sentire" il loro piccolo cuore che palpita. Troverai anche un gabbiano bianco e seguire il suo volo. Il resto darà un senso alla vita. Umberto Cerio.”
Andrò su una spiaggia solitaria, caro Umberto, raccoglierò questo tuo ultimo dono per tutti gli amici: vola leggero col tuo gabbiano bianco!
RICEVO E PUBBLICO
RispondiEliminaMi piace questo titolo “Il poeta non muore” che potrebbe avere diverse interpretazioni. Considerando però quella più immediata - ossia che il poeta sopravvive alla sua dipartita con le sue opere, con i suoi scritti - essa è molto consolatoria ma utopistica. Sto pubblicando tutto quello da me composto e il leitmotiv ricorrente nei miei testi è la lamentazione continua di non essere nessuno, la consapevolezza che i miei versi - ragione quasi della mia esistenza - non sono e non verranno mai letti da un pubblico più vasto che non siano gli amici. Forse io mi sopravvaluto come scrittrice e questo è senz'altro il motivo principale della mia insoddisfazione. Ma poi mi scorrono davanti agli occhi i poeti famosi, i poeti che hanno fatto la storia e che ora sono misconosciuti anche fra coloro che coltivano le lettere. Pessimista? No realista. La poesia è diventata, o forse lo è sempre stata, una merce come un'altra e ci vuole un bel battage pubblicitario perché prenda il volo. Non parlo a vanvera: ho insegnato per lunghi anni matematica nelle scuole medie inferiori e molti dei miei colleghi di italiano non conoscevano un Luzi mentre di Montale si limitavano a “Meriggiare pallido e assorto” che è anche la lirica che compare in tutte le antologie di quell'ordine di scuola.
Questo mio sfogo non è certo per sminuire Umberto Cerio che apprezzo moltissimo con quelle sue rivisitazioni di tutti i miti antichi a cui spesso mi rivolgo anch'io perché ricchi di pathos e sempre con in fondo quel pizzico di verità che li rende immortali.
E anche quel gabbiano bianco - che io identifico con l'anima del poeta - trovo sia un artificio molto ingegnoso, un by pass verso l'altro da sé libero di volare verso più ampi spazi.
Auguro, quindi, a Umberto, con tutto il cuore, malgrado io sia così disincantata, di sopravvivere veramente con i propri scritti. A me, invece, quando verrò a mancare, un Pasquale e un Nazario che mi ricordino con altrettanto affetto.
Carla Baroni
Ho avuto l'onore e la gioia di conoscere Umberto Cerio in occasione di varie cerimonie di premiazioni e ringrazio Pasquale Balestriere per questo commosso, superbo tributo. Di lui ricordo con strana immediatezza l'atteggiamento umile e pudico, a fronte di versi che forzavano la diga dell'anima e straripavano. Non era consapevole del proprio valore, come i veri grandi Artisti. Era un interlocutore tanto avvincente quanto discreto. Io sono convinta che il titolo "Il Poeta non muore" sia quanto mai adatto a un uomo come Umberto. I suoi scritti, dei quali abbiamo una breve, poderosa testimonianza, lo terranno in vita e il suo canto sarà presente nelle antologie e nella letteratura. Sono certa che verrà studiato e ammirato per tutti gli anni a venire. Peraltro mi sento di aggiungere con Sant'Agostino, per i familiari e per tutti coloro che lo hanno amato, 'che la gioia di averlo avuto è più grande del dolore di averlo perduto'. Plaudo Pasquale per quest'iniziativa, do l'arrivederci a un grande esempio di Poeta e di Uomo e colgo l'occasione per salutare gli amici dell'Isola.
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