OPERA OMNIA
Recensione di Marco Zelioli
È
uscita per la collana di volumi monografici Il Pendolo d’Oro di Guido Miano
Editore l’Opera omnia di Pasquale D’Alterio, professore napoletano i cui
versi, pubblicati prevalentemente dal 2014 in qua, ci riportano alla
classicità. Non per nulla, delle cinque raccolte che compongono l’opera,
l’ultima è dedicata alla traduzione in versi di alcuni lirici greci (da Alceo e
Alcmane a Saffo e Simonide) e del latino Orazio, tanto da giustificare in pieno
l’estrema sintesi del giudizio estetico del prefatore, Enzo Concardi: “stile
classicheggiante ed asciutto” (p.10). Ancora nella Prefazione si accenna
allo struggimento dell’Autore, quasi “in balia di sé stesso in un mondo ostile
e sconosciuto, da evitare e non da costruire” (p.8), e che in ciò “richiama le
suggestioni del pessimismo antropologico e filosofico del Leopardi” e, ancor
più, “lo scacco esistenziale dell’individuo, che non riesce – nonostante i
tentativi della volontà – a superare le barriere dell’esperienza, soprattutto
nel bel mezzo della crisi di civiltà e di ideali della società d’oggi” (p.9). Tale
visione piuttosto pessimistica del mondo, che nei toni dell’Autore torna come
“tristezza e fatalismo, poiché sia la terra che il cielo gareggiano ad infonderci
uggia e noia” (p.11), sta un po’ in tutte le poesie della raccolta.
Il
più profondo anelito dello scrittore è forse racchiuso nei versi della sua ultima
produzione, Le pagine della nostra vita (2020) che apre l’opera con Avrei
voluto cantare, che finisce così: “avrei voluto cantare/ quell’amore che va
oltre ogni limite/ della vita e del tempo infinito,/ il suo sorriso che
luminoso rendeva il suo volto:/ ho cantato invece la malinconia/ che sempre mi
pervade,/ la solitudine e il rimpianto/ perché di me, con la tua morte,/ perì
grande parte” (p.14). La perdita dell’amata segna fortemente la poesia del
D’Alterio, e se gli par di riveder tra le nuvole “il suo volto sereno e sorridente” (Sovente
m’illudo, p.15), ciò è solo parvenza evanescente “quale straccio di nubi” (Felicità,
p.16). In ciò è di conforto “solo la voce del cuore/ che, sempre,/ di te mi
parla” (Non ascolterò, p.17); e se “Rimpianto
non v’è/ per ciò che la vita non ci ha dato/ ma solo per quello/ che, con
generosità, natura concesse/ ma che, con pari crudeltà,/ all’improvviso ci
tolse”
(Il rimpianto, p.19), “sempre
il tuo nome risuonerà / nel mio cuore (Ti ricorderò, p.23), “fino a che
un soffio di vita/ aleggerà in me” (Le pagine della vita, p.25).
Anche nella seconda parte dell’opera (Ancora
nel cuore, 2019) torna sovente il tema della malinconica perdita
dell’amata, come, ad esempio, in Lascerò sfiorire le rose: “Mi manca,
seppur sovente muta,/ la tua consolante presenza./ Mio soltanto è il dolore,/
mio di te il rimpianto,/ mia, infine, la triste solitudine” (p.29). Mestizia
che affiora anche in Sulla tomba del fratello Nicola (p.34) e In ricordo
della sorella Rinuccia (p.79), ma di tanto in tanto è rischiarata da riflessioni
pacate, come in Solo quando ti accorgi, che così conclude: “Ogni alba e
tramonto/ apporterà in noi diverse visioni/ di meraviglia e stupore” (p.36), e
in L’amore vero, non “caduco come le umane illusioni” (p.39), pur se
“Terra e cielo, riflesso del nostro animo,/ gareggiano nell’infondere tristezza”
(Alba di un giorno d’inverno, p.38). Anche la natura pare partecipare a
tale universale struggimento per la fragilità umana, come ne La quercia
caduta: “…e sol resterà un legno/ ormai per sempre senza vita” (p.40).
Solo il sogno sembra poter riportare
alla serenità perduta (“così della dolcezza del sogno/ un lieve sentore/ di
piacere persiste”, Ancora nel cuore, p.44).
Al sogno paiono ricongiungersi le traduzioni
poetiche del D’Alterio, nell’ultima parte del volume: Versioni da poeti
della classicità greca e latina. In esse l’Autore, incontrando
l’anima degli antichi lirici, sembra ritrovare in sé quella pace interiore che
la visione del mondo contemporaneo, col suo continuo brusìo confusivo e i suoi
dolori latenti, quasi vuol cancellare. Torna la quiete, la pace soffusa de La
notte di Alcmane, penultimo componimento di quest’Opera Omnia:
“Dormono le cime dei monti/ e le convalli e le balze e i burrati/ e le stirpi
degli animali striscianti,/ quanti ne nutre la nera terra,/ e le fiere montane
e la stirpe delle api/ e nei fondali del cupo mare i mostri;/ dormono le stirpi
degli uccelli/ dal rapido volo” (p.156).
In
mezzo troviamo altre due nutrite raccolte. Ne Il canto dell’anima (2016),
dalla sensazione di oscurità dell’orizzonte, nota tipica dell’autore (“Si vive aspettando/ un sonno che sarà
eterno”,
recitano gli ultimi due versi di Mai di te…, p.49; “E giunge alfine il sole,/ ma
dall’animo/ non scompaiono le tenebre”, L’alba 1, p.54),
scaturiscono immagini taglienti, come quando ci ricorda che l’amore è “Ferita mortale che/ alla coscienza fa
balenare/ or la gioia dell’eternità,/ or la miseria della sua fragilità” (L’amore,
p.52); o quando medita: “Ma il
tempo che viviamo/ già non è più/ ed il futuro ancor non esiste” (Frammenti,
p.55), e pensa ai suoi dolori ripiegati tra Le pagine della memoria (p.57).
Davvero lo si può riconoscere come Il poeta “che sa scendere nel profondo/
dell’animo suo e di altri,/ ascoltare suoni e voci/ che altri non odono”
(p.60), spingendoci a riflessioni profonde su ciò che più vale nella nostra
vita, anche quando essa sta Tra sogno e realtà (p.67), e ponendoci domande
ineludibili, come in Mortali nascemmo: “Può alcun forse dire/ se un bene o un male/ sia il vivere
più a lungo?” (p.72).
Nella
raccolta La Vita, il Tempo, l’Amore, la Morte (2014), formata per lo più
di componimenti brevissimi, affiora qua e là una sobria vivezza di immagini
naturalistiche ed una serie di ricordi più leggeri, quasi come Divagazioni (“Col pensiero percorro/ interminati
spazi/ e tempi remoti;/ ma per quanto io proceda/ sempre ritorno/ là onde son
mosso”
- p.118), che svelano la dolcezza de L’amore sognato (“L’amore sognato, sperato,/ che spacca
il cuore/ e strappa i capelli,// l’amore cantato dai poeti,/ che ti fa fremere
e gioire/ e ti fa procedere lieve, come danzando,// l’amore che vince il tempo
e gli eventi,/ che colora e rende dolce la vita/ è, sì come giovinezza, sogno
breve”
- p.119). Perdura, tuttavia, una certa cupezza. Per questo mi paiono appropriati
a concludere questi versi tratti da Thanatos, ispirata ai foscoliani Sepolcri:
“Misero invero colui al quale/ di gioia
e d’amore/ avara fu la vita” (p.94); o questi altri, senza titolo, di
p.96: “L’uomo, nei suoi vani sogni/ di ricchezza
perso,/ del suo lento morir/ non s’avvede”; ma soprattutto l’immagine
ungarettiana della poesia A mio figlio: “Verrà il giorno, tra noi,/ dell’estremo saluto./ E porterai
nella mente/ scolpito il ricordo/ della mano levata/ a porgere/ l’inconsapevole
ultimo addio” (p.106).
Il
D’Alterio non offre mai versi traboccanti di vivacità, ma la loro lettura è
salutare per chiunque non ricerchi nella poesia una sterile evasione. La sua è
poesia profonda, meditativa, piena di reminiscenze degli autori classici antichi
e moderni (tanto nelle tematiche che nel procedere fluente dello scrivere), ma
sempre personalissima; e si fa apprezzare soprattutto perché non è mai banale.
L’attività letteraria di Pasquale D’Alterio è trattata nel IV volume dell’opera Contributi per la Storia della Letteratura Italiana. Dal secondo Novecento ai giorni nostri, terza edizione 2020, pubblicata da Guido Miano Editore.
Marco Zelioli
Pasquale D’Alterio. OPERA OMNIA, pref. di Enzo Concardi,
pp.180, Guido Miano Editore, Milano 2020, isbn 978-88-31497-28-2; mianoposta@gmail.com.
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