Voci,
suoni, profumi e “Cromie”
nella
poesia di Vincenza Armino
La poesia è sempre un “oltre
più oltre”, un dentro più dentro, uno scavo interiore continuo, una pluralità
di significanti evidenti o allusi e, nel caso della poetessa Vincenza Armino, si impreziosisce di presenze
apparentemente invisibili che, via via, affiorano ed emergono dal nulla o
quasi, risultando come incorporee nei movimenti agili e leggeri, nelle cromie
continue e ricorrenti, come indica il titolo del volume, con tratti, all’improvviso,
luminosi, sfumature lievi o marcate, scialbamenti di colori, tinte
diversificate, nel disegno di trame, talora fitte, altre volte volutamente
lasche e di ragnatele bel costruite e perfette.
E così il mondo poetico dell’autrice
appare certamente vivo eppure, al tempo stesso, come impalpabile, fatto di
accenni, di spunti, di delicate indicazioni, di fughe indefinite, di colloqui
ridotti al minimo, di origliamenti senza cattive intenzioni, di bisbigli, di
pigolii, di suoni ovattati, di parole sospese, di lontananze remote se non
primigenie.
Emergono situazioni tutte da
scoprire, condite di varianti di colore in atmosfere particolari con accenni a
danze veloci e a morbide carole, nel ricorso alla voce che risulta forte, ma
dentro, e ancora di tutto e di niente, di sfioramenti e di tocchi leggeri: “Danzavano.
/ Erano carezze di luce, / scarabocchi di pensiero, / contatti, / abbracci, /
ragnatele invisibili. / Legami”. Non ci sono rumori, né suoni, ma
tutto ordinatamente sembra accadere nel silenzio che domina ogni cosa con
intorno il velo della malinconia che “si scioglie / in un bagno / di campiture /
vivaci”.
La poesia, nel richiamo alla
sinteticità, va ben oltre la brevitas e nella Armino si fa sovente frammento,
momento, attimo, quasi flash da cogliere a volo nella scelta ponderata del
risparmio delle parole e del ricorso a quelle estremamente significative, (col
rischio anche della difficoltà di decodificazione), o illuminanti e capaci di
consegnare al lettore situazioni fortemente aggrumanti. Vale per il “minuzzolo
di tempo / in soliloquio”, ma anche per “Un solitario origliare, per
Nenie e / bianche giunchiglie”, come per “Debordante altalena” e
per “dolci deliri”. Insomma i versi sembrano consegnarsi nudi al
lettore che, a suo piacimento potrà vestirli e coprirli di ornamenti possibili.
E del resto è l’autrice stessa,
a dichiarare, apertamente e con sicurezza, che in molte circostanze le parole risultano
superflue e non servono e che certi dettagli possono indicare, suggerire,
argomentare, più e meglio delle stesse. E così in “Manca
poco” si può leggere: “Danzano bolle di sapone. // Nebbia. //
Grilli. // Bianche finestre. // Giardini assiepati. // Ventole a tagliare / l’aria
ferma, // Non servono parole”.
Si tratta di
tante accennate situazioni che sottendono condizioni di attese, momenti di
incanti, discorsi ininterrotti, pensieri e ragionamenti diversi. Lo dice anche
il distanziamento voluto e marcato dallo spazio bianco che invita alla
meditazione, alla riflessione, al recupero di suggestioni, di sensazioni, di
emozioni, di tensioni, attraverso un filo sottilissimo e quasi invisibile che
prende l’avvio dal cuore “chiuso in un gemito / sommesso”.
Il gioco
intelligente e vigile di parole accoppiate con sottinteso il verbo, salvo in
qualche situazione, quasi a contrassegnare accadimenti isolati, vicini o
lontani nello spazio e nel tempo non importa, viene preferito in quasi tutte le
situazioni. E così sfilano elementi di ricerca spirituale, alchimie profonde,
incanti momentanei, quasi leggeri “aliti di vita”, lontananze che la
memoria riporta in vita faticosamente, desiderio di cose perdute, iterazioni
contrastive tra la concretezza di “solide gambe e / mani rugose” e
crepuscoli a sfumare con tanto di evanescenza, e “corvi neri e notti
stellate”, o “Linea d’ombra / tra il grano / e il cielo”.
Altrove la
poesia sembra tendere alla massima, alla sentenziosa direttività dell’affermazione,
senza essere necessariamente categorica: “Lì dove il sol / non filtra / e c’è
lo strame / polvere giunge e / impalpabile posa”. E non manca, certamente
intenzionale, qua e là il ricorso a figure stilistiche come l’allitterazione;
valga l’esempio nella poesia “La meraviglia
percorre”, con la triade bacche, bocche, baci.
E quindi l’autrice
mostra di tendere alla rievocazione del passato e del tempo trascorso con il
ricorso voluto all’ imperfetto: “Il tempo era / un passo di danza / a
piedi nudi” (“La sera”).
Lo stesso
accade in “Ritorno di fiamma”: “Risuonava
come / un aforisma / una massima, / una battuta, / un monosillabo / un colpo di
gong”.
E non sembra
esserci rimpianto in tutto questo, e se c’è resta celato, ma piuttosto
testimonia il senso dell’ineluttabilità dello scorrere del tempo: “Prendevo
tempo. / Quel tempo che / non c’era. // Un tempo che / pressava, / scottava”. Un
tempo che, senza fermarsi un solo attimo, “aspettava, / un altro tempo”. Poco
per volta la poesia tende a distendersi, a farsi meno chiusa e più discorsiva. Ci
sono rimandi stagionali con sottolineature di colori e con odori non
detti: “Bacche rosse / su rami spogli, / fusti di cornioli / e salici /
carminio, porpora...”. Staccano le tinte accese sul “paesaggio smorto /
creando sorprese / sotto la coltre bigia”. Anche il mare con il suo
speciale respiro è raccontato nel suo andirivieni delle onde contro la riva: “Carezzan
le sponde / quasi un singulto / un battito / un fremito”.
Altrove, con
il suo profumo penetrante, le sue onde, impazzite a sbattere contro gli scogli,
esprimono sensazioni e palpiti: “Una brezza fievole, / quasi invisibile” e
forse anche “il pensiero / di un amore”.
E torna ad
imporsi il silenzio carico di rievocazioni: “Il silenzio improvviso e, / un
brusio sommesso / poi, un berciare e / l’urgenza di / un altro tempo / dentro
il tempo / già quasi del tutto / consumato”. E ancora il silenzio nell’azzurro
profondo tra cielo e mare a dominare sulle spiagge deserte e senza vita, con il
volo dei gabbiani indisturbati: “L’azzurro, / il silenzio, / i ruttini delle
onde / sulla sabbia, / tutto torna. / Ritorna”. Ed è proprio il rimando al
passato che non torna e al tempo, con le azioni che consente, ad intrigare: “Non
so perché il tempo / m’intriga, mi avvolge. / Lo cerco, lo temo / lo guardo. /
Non vedo / eppure ritorna. / C’è tempo o / sei tempo che scalcia, / che fugge
lontano...”.
E ci piace
chiudere con “Il rumore del tempo”
che resta sempre il grande tessitore: “Si aggrappava a nomi / voci, ricordi.
/ li cuciva, / senza accorgersi / dei rattoppi, / come / un’unica tela. / Non c’erano
confini / né fini. / Tutto si articolava / per sovrapposizioni”.
Mario Santoro
Vincenza Armino è nata a Melicuccà (RC) nel 1950 e vive a Polistena
(RC). Insegnante di materie letterarie in pensione, ha pubblicato le raccolte
di poesie: Pentagramma (2007), A piedi nudi, nell’anima (2009), Percezioni-Ricordi
(2010), All’ombra di un respiro (2011), Messaggi sussurrati
(2013), Poca voce (2013), Quando (2014, in Alcyone2000.
Quaderni di poesia e di studi letterari), La strada (2015), Le
dimore informali (2016), Come faville
(2020), Spiragli (2020), Cromie (2020) e il libro in prosa: Massime,
pensieri, riflessioni (2017). L’attività letteraria di Vincenza Armino è
trattata nel quarto volume dell’opera Storia
della Letteratura Italiana. Dal secondo Novecento ai giorni nostri, Guido
Miano Editore, terza edizione, 2020.
Vincenza Armino, CROMIE, prefazioni di Enzo Concardi e
Nazario Pardini, Guido Miano Editore, Milano 2020, pp. 104, isbn
978-88-31497-36-7.
Mi congratulo di cuore per questa lettura critica svolta con i cinque sensi della sublime Silloge della Professoressa Armino, che ho avuto modo di leggere e apprezzare. Il recensore ne coglie gli aspetti salienti, l'arte del frammento, del flash, e il rapporto con il silenzio e con la gamma di emozioni con profonda sensibilità. Ovviamente estendo il mio plauso alla Poetessa, dotata di carisma e di rara originalità. Li saluto caramente entrambi.
RispondiElimina