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lunedì 10 maggio 2021

ANNA VINCITORIOO: "PIERRE SEGHERS"


Anna Vincitorio,
collaboratrice di Lèucade


Pierre Seghers

Le temps des merveilles – opera poetica – 1938-1978

Edizioni Seghers

 

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Mi sono domandato

chi di me era l’altro

Se era proprio quello

che cercava invano se stesso

 

Che scavava i muri nudi

al posto dell’ombra

che gridava all’eco

per rendere il suo grido

 

Ho cercato, ho battuto

il terreno più oscuro

Erano per me soltanto

questi aridi fiori…

 

 

Pierre Seghers nasce a Parigi il 5 gennaio 1906 e muore a Créteil il 4 novembre 1987.

La sua infanzia e la giovinezza nella Alta Provenza a Carpentras “dalle rosse colline, la terra più dolce di tutti i paesi dove ho appreso a leggere, nuotare, amare”. Infanzia sotto il sole di Provenza che lo segnerà profondamente. I suoi studi nel collegio di Carpentras come “fuochi d’artificio nella notte”, gli rivelarono Hugo, Racine, Musset. Il giovane Pierre era il più assiduo della biblioteca Inquimbertine. Nasciamo con il desiderio di conoscenza  e l’amore per la parola. Parola, col suo mistero, che uno spirito sensibile avverte e insegue per l’intera vita.

La parola ha potenza e può guidare e trascinare verso lontani orizzonti.

Seghers in un primo tempo è stato avventizio presso uno studio di notaio, poi si  è occupato di ristoranti e alberghi. Viaggiava molto. Quando si stabilì a Parigi in Piazza Dauphine fu avvolto da quel “coin de verdure enfoncé dans Paris, triangulaire, provinciale, et silencieuse…”. Parigi lo entusiasmava, lo inghiottiva prendendolo interamente. Finalmente vita e poesia. Il giovane Seghers acquistava libri dai bouquinistes dei quais della Senna. Poi, il servizio militare, il ritorno a Carpentras dove si sposa nel 1928 con Anne Vernier. Viaggia incessantemente per il suo lavoro vendendo materiale per bar e Hotels. Nei suoi continui spostamenti, compagna la lettura. L’anonimato delle sale di attesa era colmato dai versi di Mallarmé, Laforgue, Whitman, Verlaine e poi Rilke. Il suo cammino si addentra nella poesia sempre più a fondo smarrendosi come in un labirinto interiore che lo prende e lo assorbe con i suoi affascinanti segreti. “Ero sdoppiato, la mia sola zona di calma, di riflessione, il mio pozzo segreto era la poesia”. Intorno al 1930 conosce a Baux de Provence il tipografo ed editore Louis Jou. Respirare per la prima volta l’odore dei libri, il suono sotto le dita dei fogli di carta. L’incontro con la poesia di Omar Khaiam: “una notte indimenticabile dove la poesia, la vita e Dio erano unità”. Nel 1937 la sua prima raccolta Buona Speranza. Non trova un editore e decide nel 1938 di creare una casa editrice. Scoppia la guerra. Lui è soldato di 2ª classe mobilitato alla caserma Vallongue di Nîmes. La scoperta che nella stessa caserma 25 anni prima c’era Guillaume Apollinaire, lo segna. È destino; non può che occuparsi di poesia e precisamente di una rivista di “poeti soldati”. Poètes casqués.

Molti scrittori si abbonano per incoraggiarlo. Tra di loro: Max Jacob, Jules Romains, Gaston Gallimard. La rivista rende omaggio a poeti come Péguy, Alain Fournier, Apollinaire… Le pubblicazioni sono sottoposte alla censura. Centinaia di libri di autori ebrei vengono distrutti durante l’occupazione tedesca. La situazione è deleteria ma l’impegno di Seghers è forte e determinato a far passare con l’uso della parola poetica l’invito categorico alla Resistenza.

Si devono mobilitare i poeti soldati: lottare uniti e guardare nella medesima direzione. Attraverso la poesia servire la Patria. Sviluppare la Rivista Poesia e con essa tener uniti tutti coloro che vogliono render viva la speranza. Una lotta con la parola che penetra più di un fucile. I poeti inventeranno una lingua di evasione ricorrendo alla rima, alle forme delle ballate del Medio Evo: “alla parola di poesia, il censore si assopisce”. Questa è la Resistenza dei poeti di Seghers. Con i poemi d’amore eludere la censura. L’esempio più significativo: Libertà scritto da Paul Éluard nel luglio del 1941. Durante l’occupazione è viva l’abilità di Seghers. Un po’ come tenere due ferri al fuoco. Proseguire nel suo lavoro di editore e sottoporre alla censura tedesca i libri di poesia riuscendo a far passare le opere più sovversive con un falso visto di censura. Molte sue opere poetiche appaiono sotto falso nome: Louis Maste, Paul Rutgers, nell’Honneur des Poètes, antologia diretta da Paul Éluard. La letteratura francese è fortemente vitale e di una violenza inaudita, durante i primi tre anni della guerra. È Pierre Seghers che ha permesso allo spirito della Resistenza di soffiare su tutti i “Veli” della poesia. Inoltre lui ha dato uguale importanza a tutti i poeti sia noti che ignoti della letteratura contemporanea. Nel 1942 si forma una piccola comunità di musicisti e poeti tra cui Georges E. Clancier, Louis Borne[1]. Importante una sua relazione tratta da Le temps des merveilles: “Se la poesia non vi aiuta a vivere fate altra cosa”. Come definire Seghers: … “Sento intorno a me la vita che muore già trascorsa/ Il mio sangue la leviga ogni giorno/ Simile a un gioiello nell’alveo della sua conchiglia/ fluente come il pensiero”… “Ciò che è stato non mi pesa. Invento, immagino/ Intreccio la notte, il sole/ Rispondo e offro i campi, le api/ la speranza, il giorno che immagino/ … Fingo di dimenticare l’inizio e la fine/ Non c’è niente di vero da poter dire”.

Penso che le sue parole vadano assorbite secondo la sensibilità del lettore.

Aleggia un infinito mistero legato al poeta che anticipa ma teme allo stesso tempo ciò che accadrà. Lui non può impedirlo; può però con la parola trasmettere messaggi chiari come oscuri in tutta la loro potenza e crudezza.

24 agosto 1944 – Due visioni della liberazione di Parigi.

Bei fanciulli di pietra e di pioggia/ San Sébastien del la Cité: Crivellati ai muri dell’altra estate/ per vivere la vostra verità/ voi non siete morti a terra/ Il vostro sangue non si è affatto gelato/ sulle nostre bandiere si è mescolato/ con la cenere dei visi… voi infiorerete/ L’avvenire con il passato…/ Moltitudine di ragazzi sempre in piedi/ Per battersi, il 25 agosto…

Alla punta delle lance del sole c’è sempre/ un occhio e una mosca/ una mosca di fuoco che dardeggia sui cadaveri/ tra le ali d’una armata/… L’occhio la vede. L’occhio dei morti ha strani approcci/ Già il corpo vibra come un pezzo di carne dal macellaio/ Crepitano colpi di fuoco, ci sono sementi che esplodono/ E sotto le dita degli uomini altre mosche con all’estremità/ punte di acciaio…/ Ho visto rotolare nel ruscello coloro che ci aiutavano con i fuochi/ …Le teste completamente rosse, questa tintura era del sangue/ Nero nelle uniformi e sul sentiero si effondeva…/ Sulle barelle, dalla testa ai piedi i soldati morti./ Nelle vetrine ci saranno reggiseni tricolori. Adesso la mosca del sole trascina le zampe nel vischio”.

Nella prima poesia la tenerezza e lo strazio dei fanciulli crivellati ai muri e il sangue che cola dalle bandiere. Visi di cenere. Tutta l’angoscia per vite perdute al loro aprirsi, ma anche una speranza perché questi fanciulli sono i fiori in boccio per una vittoria e una vita futura che vincerà sulla morte. Nella seconda poesia c’è crudezza e una visione surrealista: una mosca di fuoco che dardeggia. Siamo come circondati da visioni orride e queste mosche, simboliche, incombenti, che hanno all’estremità punte di acciaio. Il nemico è visto nella sua miseria ma uccide. La mosca verrà schiacciata ma solo dopo il sacrificio dei soldati morti per la libertà. Ironia finale, i reggiseni tricolori nelle vetrine.

La poesia di Seghers non è facile da assimilare. I contenuti trascendono le immagini. Per comprenderlo bisogna sentirsi patrioti e partecipi di una ricerca che viaggia nel tempo.

Stagioni in un volto dove scorre la vita nella sua follia?/ Stagioni in un viso… Nell’inverno dovrà donare al vento la sua cappa consunta…/” E come non pensare al passato?… “tempo trascorso nelle nuvole/ di amici morti o come se lo fossero…”. E ancora: “A che giova essere/ dovunque tu possa andare/ voler rivedere ogni foglia morta appassire?…”. La morte nell’uomo, ma non meno triste di quella della foglia nell’autunno che simboleggia l’imminenza della fine. Può aiutare la preghiera: “Noi che viviamo con parole profonde/ che mutano di colore/ dal nero al rosso,/ dal verde al viola/ … Noi maghi con le nostre palle di cristallo/ …ci volgiamo al cielo ma in questa vita che fugge, quale certezza?/ Lasciateci essere, lasciateci essere il segno più puro”.

Devo dire che alcune immagini surreali di Seghers mi affascinano come ad esempio in Epifania, l’inizio: “Quadrighe di cavalli/ protesi verso il sole/ sotto la nera matassa/ del sonno verso il sonno…”. A mio modesto avviso la poesia va ascoltata e, percepirne il suono, è più importante della sua piena comprensione. Siamo di fronte a un ignoto che ci trascina in una veglia senza fine. Però il poeta trasmette anche speranza attraverso i doni della terra: “Quando noi rivedremo il grano battuto/ dalle mani dell’uomo/ quando vedremo brillare le tagliole nel sole/ quando i tre cavalli del futuro/ si proietteranno sull’area tersa/ allora noi accenderemo dei fuochi/ di collina in collina/ fuochi in ricordo del pane impastato/ di notte dei nostri fratelli/…” Cosa però resta del nostro sentire? “Coloro che contano i loro giorni ogni giorno/ sulle loro dita/ Sono questi che prediligono il silenzio”. Rimane regina la parola quando è ben usata. E la parola del poeta, nella sua autenticità, accompagna e può anche fugare la paura. Seghers continua ad essere molto attivo; anche dopo la fine della guerra scrive e pubblica canzoni.

Nel 1955 con Gérard Philippe registra delle poesie di Paul Éluard e dice: “La canzone, io credo, è più naturalmente densa. È una attività dell’uomo più direttamente sensuale dove la parola, il canto, il movimento sono intimamente legati…” Unica linfa unisce poesia e canzone nel medesimo afflato. Tra i cantanti si ricordano Charles Aznavour, Guy Béart, Mouloudji e la canzone Voyou et la voyelle cantata da Juliette Greco. La vita di Seghers è un cammino ininterrotto verso varie mete: pittori, fotografi, editori, poeti, cantanti. In questo cammino la sua cordiale apertura e modestia. Ho avuto con lui una corrispondenza cordiale negli anni ‘80 che avrebbe dovuto concretizzarsi con mie traduzioni sulla sua poesia, interrotte dalla morte per cancro nel 1987 a Créteil.

Non posso che ricordarlo con stima e affinità devota attraverso alcuni suoi versi:

Il silenzio dei mari che cullava i navigli/ Ha conosciuto i pesci volanti,/ E le mani che rubavano inutili parole/ facevano sibilare il vento… Il presente sprofondava nel fango delle acque residue./ Niente accadeva, l’acqua imputridiva, l’alba e la sera si erano legate alla notte polare… Si gettava il letame nei campi/ Non cresceva niente. Ma dei grandi stormi a forma di triangolo/ fendevano il cielo.


Anna Vincitorio

12 aprile 2021

 

Agosto ‘41 (pag. 23)

  

E fu l’estate sotto il segno della carogna

La croce del Nord si vestiva di gelido sangue

Il grano puzzava di cadavere mal nutrito

Il polo celeste era affollato

Là in basso la Polonia moriva

Là in fondo s’impiccavano i falsi medium

che leggevano il futuro nelle interiora

dei buoi squarciati. I pesci si sfilavano tra le maglie

nelle città blu sangue. Era come

un grande sputo. L’uomo è un polpo di terra

che fa scoppiare la sua sacca di notte

al momento di combattere

 

Si viveva là

come tempo del pan secco;

si viveva là

cuciti nel mistero,

i corpi non venivano resi. Chi se ne andava

era crivellato di dodici proiettili

e gridava come un banditore al mercato.

Il giorno più duro che possa seguire alla notte.

Era estate, farina per i mulini del silenzio

La bella estate, cane dal sangue coperto di zecche

La calandra nel marmo dell’Attico

la radio irta dei ferri delle lance

La linfa, vomito che sale fino agli alberi;

il ventre santo delle maree colmo di marmitte

L’Estate, buon Dio, la calce viva come semenza

Buon lavoro

e se falliamo si ricomincia.


Poeta – pag. 54

  

Mi piego al mostro dei segreti senza alcun cedimento

                    Fino all’estremo esistere e all’udire;

             Mi lego al mio tempo che scorre tra le dita

             Come un braccialetto d’oro e d’ambra.

 

Sento intorno a me la vita che muore già trascorsa

                   Il mio sangue la leviga ogni giorno

Simile a un gioiello nell’alveo della sua conchiglia

                    fluente come il pensiero.

 

Ciò che è stato non mi pesa. Invento, immagino

                    Intreccio la notte, il sole

Rispondo e offro i campi e le api

             La speranza, il giorno che immagino

 

Sui miei carri la vela culla le sue navi

       Di fieno, di mari, di profumi

Fingo di dimenticare l’inizio e la fine

       Non c’è niente di vero da poter dire.



Il pane bianco (pag. 24)

  

Quando noi rivedremo il grano battuto

dalle mani dell’uomo

quando vedremo brillare le tagliole nel sole

quando i tre cavalli del futuro

si proietteranno sull’aria tersa

allora noi accenderemo dei fuochi

di collina in collina

fuochi in ricordo del pane impastato

di notte e dei nostri fratelli

In quel tempo d’estate dei martirii

avevano gettato in aria le loro braccia

spezzate, duri flagelli del futuro.

Battuti fino a morire, il chicco, la paglia,

e la speranza restava vitale; il loro sangue

colava a picco come il sole.

 

Nei campi e nelle strade verrà il tempo del chicco senza macchia

e il seminatore riderà; nella sua mano destra

stringe al petto il grano

Sorriderà il falciatore che fa roteare le zolle.

 

Anche Dio sorriderà se lo vuole,

Compagni, ecco giunta la grande muta

e la nostra terra cambia la sua pelle.

Compagni abbracciate il suo ventre e la farina

Intrecciate le vostre mani, è giunta l’ora

Lei scioglie la sua capigliatura

irrorata di sole

Lei è più forte e vera della morte

lei parte con noi colma del pane

del mondo

Parte con i suoi grandi mugnai tutti bianchi

Lei ci porta con sé e questa è la vita

a grandezza d’uomo

Ci guida nel cammino dritto già tracciato

Ci anima ed è l’incedere dei mondi

che entra in noi (ci penetra)

e noi parliamo con la sua voce

Compagni il sangue si scrosta, fa seme

Non è più tempo di alcuni ma è

giunto per tutti

Il tempo incommensurabile del pane bianco.

                                        



Di una casa – pag. 49

  

Una casa dove io vago nella solitudine

gridando un nome che il silenzio e i muri mi rimandano indietro,

Una casa che non conosco che penetra nella mia voce

e che abita il vento.

 

Io l’invento, le mie mani disegnano una nuvola

Una barca di cielo immenso, al di sopra le foreste

Una nebbia che si dissipa e scompare

come un gioco d’immagini

 

Quella che abbandoniamo e che rimane in piedi, la barca

La casa, ciò che fugge e che insieme ameremmo

Ci vorrebbe una voce più forte e l’incenso

Blu del cuore e delle parole

 

Brucerebbe là per divinità diverse dall’immaginario

Ma le finestre sono cieche e le porte murate

e la vita del mondo è estirpata

dove la terra imputridisce

 

Quando la notte degli echi costruisce su delle spugne

Un dedalo di parole dove Teseo si perderà

Una casa senza muri, senza muri simile a un topo

Per vivere nei sogni…


Traduzione di Anna Vincitorio

 



[1]     Ambedue i poeti da me tradotti e pubblicati.

[2]     Tutte le traduzioni del testo sono a cura di Anna Vincitorio.

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