Orazio Antonio Bologna
Pensieri sparsi su
La dimensione umana
dell’esistere
di
Patrizia Stefanelli e Nazario Pardini
Credevo che in questo periodo,
nel quale della Poesia si ha un concetto diverso e, per certi aspetti,
discutibile, la corrispondenza in versi fosse da tempo scomparsa, e per sempre.
Era un ludus, cui si dedicavano con passione anime elette, personaggi
forniti di straordinaria cultura e di finissima sensibilità. Molto spesso,
nelle più disparate occasioni questi personaggi, strani almeno agli occhi dei
profani, si rispondevano per le rime e nelle forme più inconsuete. Di
così gloriosa tradizione, che affondava le radici nella cultura classica, oggi
è rimasto poco o niente. L’epistola metrica ha origine nella cultura di Grecia
e, soprattutto, di Roma e trova la sua più completa, e perfetta, realizzazione
in Orazio, che, al tempo di Augusto, scrisse due libri di epistole. Di queste
alcune sono state realmente inviate ai destinatari, altre, come sembra, costituiscono
un ludus, per richiamare l’attenzione su personaggi fittizi, per mezzo
dei quali il dotto venosino bolla difetti, condanna vizi. La tradizione si è perpetuata
nel Medio Evo, nel quale i maggiori esponenti sono Dante e Petrarca con una
ricca e bene articolata serie di epistolae metricae. Essi, senza allontanarsi troppo da Orazio,
mediante questo genere letterario trasmettono ai posteri notizie autobiografiche,
ricordano accadimenti politici, eventi di pretto sapore popolareggiante. Il
genere letterario prima di Dante e Petrarca aveva trovato terreno fecondo nella
produzione occitanica e provenzale della tenzone, che si trova anche in
un’opera attribuita al grande Poeta fiorentino.
Senza dilungarmi su questo genere letterario,
mi soffermo su un libro di recentissima pubblicazione, cui ha dato vita un
vivace e stimolante scambio epistolare, intercorso tra Nazario Parini e
Patrizia Stefanelli. I due Poeti, esponenti di spicco nel variegato e complesso
panorama della poesia contemporanea, nel giro di pochi giorni, hanno dato libero sfogo alla fantasia, all’inventiva,
a una feconda e stimolante produzione lirica, raccolta nel volume, che reca un
significativo titolo: La dimensione umana dell’esistere, dialogo in versi
sulla poetica di N. Pardini. Tutti i brani virgolettati nella silloge sono
tratti dai volumi Alla volta di Leucade
e Dagli scaffali della biblioteca del
Pardini. La silloge si potrebbe, a grandi linee, definire Diario dell’anima in
poesia più che Diario poetico: i temi e gli argomenti trattati, infatti, non
conducono il lettore nella trita quotidianità, costituita da accadimenti ora
interessanti, ora estranei all’animo dei protagonisti, ora insulsi, come scipiti
componimenti oggi di moda, ma lo invitano a riflettere su originali e profonde
riflessioni esistenziali e filosofiche, pur nella bonomia del dettato
apparentemente semplice.
Il lettore certamente noterà
che Patrizia e Nazario con il loro accorto e, sovente, ironico approcciarsi
alla realtà tanto psichica quanto metapsichica, ripetono, almeno come genere letterario
di partenza, con liriche ben calibrate e curate il canto amebeo dei pastori e
dei mietitori, che nelle letterature antiche è ampiamente attestato prima in Teocrito
e, successivamente, in Virgilio. In Italia epigoni di tale genere letterario
continuarono per lungo tempo la gloriosa e feconda tradizione iniziata con le Bucoliche.
I nostri Poeti, però, nel
continuo scambio, non si fermano ad aspetti esteriori, non si abbandonano a
frivolezze trite e obsolete, non riversano nelle liriche piagnucolosi ricordi
della vita passata oppure rimpianti di occasioni perdute. Indulgono, al
contrario, a un esame accurato, approfondito e obiettivo sulle ragioni della
vita, con tutti gli inevitabili risvolti e contraccolpi; sulle scelte operate,
che, a lungo andare, hanno prodotto frutti e offerto occasioni a volte esaltanti,
a volte poco consone con le segrete aspettative. Nella serena e obiettiva
meditazione sui diversi eventi accanto alla rassegnazione all’ineluttabilità
del destino serpeggia la segreta speranza nel bene operato, per aver anteposto
il bene altrui al proprio.
La silloge nasce da un
rapporto dialettico ora teso, ora pacato e lirico tra due Poeti, diversi per
età, per formazione, per cultura, per esperienza di vita. Nonostante ciò, il
loro diverso intendere la Poesia insieme con i personali trascorsi, che l’hanno
inevitabilmente arricchita, converge in un punto di particolare importanza: la
Poesia non è un piacevole intrattenimento, ma l’occasione per veicolare i valori
imperituri, insiti nell’anima mediante un accorto equilibrio e con la capacità
di tenere a bada la retorica o il sovrabbondante profluvio dei versi. Il
sottofondo di tutto ciò è costituito dalla musicalità insita nella scelta
attenta e meticolosa dei lessemi e dei sintagmi. I due Poeti, Nazario e
Patrizia, hanno costantemente tenuto presente l’aurea massima, che Orazio offre
a chi si dedica alla poesia: omne
tulit punctum, qui miscuit utile dulci, cioè ottiene unanime consenso chi unisce l’utile al piacevole.
Il grandissimo Poeta romano in poche parole dice che raggiunge la perfezione il
poeta che riesce a unire l’utile al dilettevole. Questo importante e fondamentale
carattere paideutico della poesia nel corso dei secoli, almeno dai Poeti degni
di tale nome, non è stato mai accantonato. Orazio con questo verso si riferiva
al poeta, ma ancor più interessante è quanto suggerisce nel successivo: lectorem
delectando pariterque monendo: il lettore nel tempo stesso deve trarre
piacere e insegnamento. Accanto al dettato del grande maestro romano tanto
Patrizia quanto Nazario, profondi conoscitori della letteratura italiana, hanno
tenuto certamente presente la nota affermazione del Manzoni, secondo il quale
la letteratura deve avere l’utile per scopo, il vero per soggetto e
l’interessante per mezzo. Manzoni e Orazio con parole diverse esprimono il
medesimo concetto.
Il
volume ancora, sebbene frutto di un intenso e continuo rapporto epistolare, non
è un’accozzaglia di liriche rabberciate alla meglio, con versi sciatti, con
lungaggini o pezzi di bravura destinati a stupire il lettore, secondo il monito
di Giambattista Marino: è del poeta il fin la maraviglia … chi non sa far
stupir, vada alla striglia. Le singole liriche celano a monte un accurato lavoro di
cesello e riflettono ancora una volta l’oraziano labor limae e,
in modo particolare, la callida iunctura, che nella vera e grande poesia
si traduce nell’accorta disposizione delle parole e nell’articolato dettato del
periodo poetico. I due Autori, infine, per conseguire lo stile perfetto e
armonioso della scrittura, consapevoli di non spingersi oltre i limiti imposti
dall’ars, accolgono e volentieri mettono in pratica un ulteriore e
fondamentale monito oraziano. Per tal motivo entrambi tengono costantemente
presente i precetti di Callimaco, che Catullo nella dedica del Libellum
all’amico Cornelio riassume nella brevitas, nella doctrina e nel labor
limae. Con i presupposti di siffatti autorevoli personaggi, che hanno
plasmato generazioni di Poeti, invito il lettore a non lasciarsi ingannare
dalle date e dall’orario segnato all’inizio di ogni lirica, perché ognuna
riflette un lungo e paziente lavoro di esperienza.
C’è
ancora da sottolineare che i due Poeti non solo conoscono la metrica classica
sotto l’aspetto teorico e tecnico, ma la utilizzano in modo magistrale per esprimere
i segreti moti dell’anima, le più lievi sfumature dei sentimenti, l’impercettibile
quid, che solo l’arte e la Poesia possono generare. Prima che una lirica
prenda consistenza, ha bisogno di lunga riflessione, di attenta meditazione, di
lungo lavorio interiore. Senza questi passaggi il prodotto dell’improvvisazione è caduco e lascia il
vuoto: nasce dal nulla e dopo di sé lascia il nulla. Ciò non si può dire della
silloge, che mostra al lettore più esigente grandi sprazzi di vera poesia,
intensi e struggenti squarci lirici, profondi pensieri per la meditazione sui
diversi aspetti della vita con tutti i suoi risvolti; invita alla riflessione
sul presente come sul passato. E questo tra lo scherzo e l’ironia, sempre
presenti, ora più ora meno. Nata e concepita come lusus, nella realtà è
una raccolta scritta a quattro mani. È una contentio, che, scaturita per
caso tra Patrizia Stefanelli e Nazario Pardini, presenta al lettore un ampio e
solido sostrato poetico, circoscritto da intimi profili, ora accennati, ora dipanati
con accorati richiami all’inesorabile scorrere dell’esistenza. I due protagonisti
si cimentano nell’espressione del proprio sentire e del proprio essere mediante
una continua tensione psichica, che proietta il loro io vero una rispondente
e ricercata perfezione metrica e stilistica, accolta e condivisa dall’io ricevente.
Nell’impianto
metrico, fondato per lo più sull’accorto e controllato uso dell’endecasillabo
sciolto, nel quale risuonano spesso rime interne, e omoteleuti, entrambi i
poeti concretizzano l’essenza ideale dell’arte. Con più accoratezza Pardini si
sofferma con leopardiana malinconia sullo scorrere inarrestabile della vita,
che non di rado presenta come paradigma per lo spunto di penetranti riflessioni
umane e filosofiche. Entrambi tendono verso una perfezione metrica e stilistica,
che travalica il contingente per proiettarsi verso un futuro ideale, saldamente
ancorato al presente. Coscienti della dimensione metafisica e metatemporale
della Poesia, i due Poeti dialogano come se fossero presenti: la psiche e,
soprattutto, l’ideale che li unisce permette loro di sentire all’unisono i
palpiti di una natura ancora vergine e di annullare idealmente e fisicamente la
distanza, che li separa: Pardini vive a Pisa, a Itri, in provincia di Latina, Patrizia.
Anche in casi molto difficili, come la pandemia,
che ha costretto, e costringe ancora, alla prudenza, alla chiusura e al ritiro,
la Poesia travalica le dolorose contingenze e unisce voci, pur così distanti e
diverse per concezione e formazione, a unirsi, a innalzare un canto alla vita,
profondamente minata e intimorita dall’incombente mortalità. Le due voci si sentono,
si incontrano e innalzano pure un canto ora gioioso e spensierato, ora triste e
malinconico.
Davanti all’obiettiva situazione e alla storicità
dell’uomo il poeta ora volge lo sguardo sui campi assolati, ora sulla
fanciullezza e sulle difficoltà vissute e affrontate con coraggio e costanza,
ora sull’età, che avanza e conduce ineluttabilmente al tramonto. Non meno triste,
dolorosa e difficile è stata la fanciullezza della poetessa, figlia di madre profuga istriana. Entrambi
i poeti, Nazario e Patrizia, sono accomunati dalla tenacia di non arrendersi,
dalla lotta contro le più dure avversità, dal desiderio e dalla voglia di non
cadere nella massa amorfa dei vinti. Dallo scambio delle liriche trasuda e aleggia
prepotente l’innato orgoglio di non essere nati per viver come bruti, / ma
per seguir virtute e canoscenza, secondo il monito dell’Ulisse dantesco. Entrambi,
grazie alla ferrea volontà, all’intenso studio e al lavorio ininterrotto sovrastano
di gran lunga il profanum vulgus oraziano e occupano nel campo della
poesia un posto di assoluto e meritato prestigio.
Il dialogo poetico tra Patrizia e Nazario costituisce
un ponte, che unisce non due sponde, ma due anime accese dalle stesse emozioni, dalle
stesse sensazioni, mosse dagli stessi fremiti. I versi sgorgano spontanei, misurati,
ritmicamente strutturati; essi sono, di volta in volta, dettati dall’intima sensibilità,
che caratterizza la singola personalità in campo artistico e culturale. I
carmi, però, non costituiscono un mero passatempo, un lusus insulso, un
pezzo di bravura, perché sono attraversati, pervasi, vivificati dal senso di
profonda ammirazione per l’altro, da sincera e feconda amicizia. Questo legame
tanto decantato, oggi soprattutto, è molto difficile. Le liriche, perciò, non
sono costituite solo da parole, che viaggiano da una parte all’altra, ma da emozioni,
sensazioni liberate dal calore del cuore e racchiuse in eloquenti involucri fluttuanti
nell’armonia del verso.
Il dialogo
inizia quando Patrizia invia a Nazario per il suo compleanno la seguente
lirica:
Pardiniana (acrostico)
Nel
mattino che viene
all’unisono
scendono
zaffiri
e meraviglie:
allegri
si rincorrono
rotolando
nell’erba.
Io e
te con loro e niente
ora dispiace al cielo.
Partiamo
insieme all’òro
aliante
dentro il giorno
ricco
di tanti voli
di
pace; e come sempre
intorno
a te si annuncia
nuova
la primavera.
Io credo tu la veda.
L’augurio per un giorno così
importante nella vita di ogni uomo, soprattutto se ha superato la soglia della
vecchiezza, è racchiuso in due semplici strofe eptastiche, ben congegnate e
strutturate in un acrostico di settenari ora piani, ora sdruccioli. In
apparenza la breve lirica può sembrare, scontata,
di lontana reminiscenza pariniana, soprattutto per il metro e l’occasione. La
freschezza e la spontaneità, l’armonia e la musicalità, la semplicità e la sensibilità
sono diverse, originali e conferiscono al componimento un tono nuovo, lontano
dal ridondante linguaggio imposto dal lignaggio del destinatario. Pur nell’uso
del metro classico, Patrizia, come Nazario, non si lascia irretire dal linguaggio
ridondante e stucchevole degli Arcadi o dei Romantici. Adopera, invero, il
linguaggio corrente, elegante e colto, scevro da preziosismi dilettantistici o
da virtuose acrobazie di improvvisati e sprovveduti verseggiatori. La Poesia è
ben altro ed emerge potente e prepotente solo dalla penna di pochi eletti, cui
Natura ha concesso un dono così straordinario.
La lirica è, nello stesso
tempo, un simpatico messaggio di auguri per il compleanno, e un componimento
lirico di affascinante e accattivante bellezza. Nelle immagini delicate e semplici
serpeggia un alito impercettibile, che pochi riescono a cogliere e gustare
nella naturale fluidità e lessematica e sintagmatica. Il fonico scorrere delle
sillabe ora chiare, ora scure, ora tenui e leggere, ora marcate dall’accento,
evoca un’intensa, intima, raccolta armonia, che conduce oltre gli angusti limiti
della sillaba, della parola, del verso. Il ritmo prosegue uguale e diverso a
mano a mano che i versi vengono scanditi, uditi, assimilati. Nazario non poteva
aspettare e ottenere di meglio per il giorno più bello, il compleanno, perché,
come dice Orazio, rivolgendosi a Tibullo: sempre grato giunge il giorno che
non si aspetta. Al posto dei geniali doni di pariniana memoria Patrizia
offre a Nazario, amico poeta maestro, ciò che le è più caro e con piena
liberalità le donano i sacri spirti.
All’inatteso
e gradito dono Nazario non tarda a risponderle con affetto e tenerezza:
Cara
Patty, sei unica, diversa dagli altri, con in cuore la primavera che ci vede
giovani e pimpanti su prati fioriti.
…di
pace; e come sempre
intorno
a te si annuncia
nuova
la primavera.
Io
credo tu la veda.
Sì,
l’ho qui davanti agli occhi…
Nella dolce, pacata e garbata
risposta con la ripresa di una parte della seconda strofa e l’inizio di un’altra costituita da un solo
verso, un ottonario, si avverte un leggero velo di nostalgia, di ironia, di
rimpianti. Al Poeta non sfugge che, nonostante il tempo scorra, nella vera e sincera
amicizia vive una perenne primavera, anzi perenne primavera nell’animo del
Poeta è la Poesia, che ogni giorno nasce la stessa, e completamente rinnovata, alia
et eadem, trasformando un notissimo sintagma oraziano. Sboccia quasi per caso
un intreccio lirico di due anime vicine, che cantano all’unisono l’affetto, la
sincerità dei sentimenti, le comuni esperienze di vita.
In
una lirica, del 26 febbraio, Nazario esprime con accorato sfogo i ricordi del
passato, non sempre costellato di gioie, soprattutto quando ricorda gli affetti
più cari:
Mi porto dietro l’immagine di
loro
che mi chiedono il perché di
questo addio
ed io non so, non so che cosa
dire,
dacché il dolore per averli
persi
mi accompagna ogni istante
della vita.
Quindi vado spesso sul fiume
o in mezzo ai prati, tra i
giganti platani
dove
spesso giocavamo a biglie.
Il Poeta, uomo dotato di
coscienza e sensibilità straordinarie, non può dimenticare gli affetti più cari
e, in modo particolare, i momenti più belli e spensierati della fanciullezza,
durante la quale una corsa tra i platani o una partita a biglie era la soddisfazione
più grande e la gioia più attesa. Insieme con la dolcezza dei giochi infantili
nel ricordo affiorano gli affetti più cari, il padre e il fratello prematuramente strappati alla vita. Nell’immagine,
sempre impressa nella mente, Nazario avverte ancora cocente e straziante il
dolore nonostante l’età più che matura. Nel primo verso, Nazario evoca nella
lettrice una sottile allusione ai celebri e commoventi versi, che Dante rivolge
con affetto a Pier della Vigna: ché
’n la mente m’è fitta, e or m’accora, la cara e buona imagine paterna. Ma il non casuale lessema, come motto
incipitario, permette a Nazario uno sviluppo tematico nuovo, più intenso, liricamente
personale. È, questa, una personale riflessione a quanto Patrizia, gettando un
rapido sguardo al suo passato di bimba, gli aveva scritto qualche ora prima:
Memorie di ricordi e sangue
amaro:
figlia di istriana profuga e
di affanni
figlia venuta a caso, forse
amata,
da madre stanca, mai più
rassegnata.
Non ho malinconie da
raccontare.
Poi del collegio i giorni
passavano con le ics su una
schedina.
Io le mettevo in fretta, che
fortuna!
Ma mamma non veniva.
Non ho malinconie da
raccontare.
I giochi miei? Una bambola:
Esmeralda,
distrutta
da mio padre.
Gli intensi e fuggevoli
ricordi di Nazario erano stati sollecitati da un doloroso ricordo autobiografico
di Patrizia, la quale, come non poche coetanee, non ha avuta un’infanzia felice.
L’immagine positiva di Pardini, pregna di ricordi e di emozioni, in Patrizia
suscita orrore, terrore, paura, perché il destino le è stato avverso, ma
foriero di ben altre gioie, che travalicano i momenti idillici d’una corsa in
campagna o una partita a biglie: nella sventura ha incontrato la Poesia, il
dono più bello, che il Creatore possa istillare nel cuore della sua creatura.
La Poetessa, pur consapevole di questo dono incomparabile, non esita a esprimere,
con ironia e rabbia, con un endecasillabo deciso e perentorio non ho
malinconie da raccontare, ripetuto ben due volte, dolorosi rintocchi d’innumerevoli
tristezze represse da apparente serenità e spensieratezza. La reticenza
permette alla scrivente di evocare, non senza dolore e rimpianti, la fanciullezza
trascorsa lontana dalla mamma, la vita della
quale è stata profondamente segnata prima dalla fuga dall’Istria e
successivamente dalla morte di due figli. La madre, istriana, subito dopo la
guerra ha visto con i propri occhi gli orrori degli eventi che ne sono seguiti:
degli Italiani, che non riuscirono a riparare in Patria, molti furono arrestati
e affogati in mare, moltissimi gettati nelle foibe. Esperienza terribile, che
ha segnato profondamente i profughi sopravvissuti, negli occhi dei quali, anche
a distanza di tempo, doveva presentarsi ancora funereo lo spettro della morte,
nella loro mente risuonavano le urla angoscianti e i lamenti di quanti venivano
portati verso il mare o le cavità naturali per finirvi la vita.
Davanti agli occhi Patrizia
tiene ancora gli orrori narrati dalla viva voce della madre, non sempre tenera e comprensiva; e nel verso figlia
di istriana profuga e di affanni con sfogo cosciente e sincero, pregno di
amarezze, rievoca con celato dolore i drammi, che le hanno lacerato l’animo e
permesso, nello stesso tempo, di maturare, di guardare con fierezza in faccia
alla realtà, di forgiarsi un carattere forte, pronto per affrontare le dure
traversie della vita.
Al divertimento di Nazario,
cui piaceva giocare con le biglie, con accorata malinconia, e rabbia, Patrizia
tra i giochi infantili ricorda una bambola: Esmeralda, / distrutta da mio padre.
Evocazione non priva di rimpianti, di nostalgia, di dolore, di denuncia, di
rimprovero, che cerca invano di esorcizzare nell’amarezza verso: non ho
malinconie da raccontare, collocato dopo un’osservazione graffiante e
commovente: la vita trascorsa da bambina in collegio, nella vana attesa che la
mamma andasse a vederla, a concederle un abbraccio, a schiuderle un sorriso
mentre segnava, con le ics su una schedina, i giorni dell’attesa. Il
desiderio frustrato è espresso in versi, che, anche a distanza di tempo, hanno
il sapore del sale su una ferita ancora sanguinante. Patrizia per vivere e
studiare ha dovuto provare molto presto la dura realtà del lavoro, perché
nessuno regala niente e la vita ha bisogno urgente di soddisfare le più
elementari necessità di tutti i giorni.
Nazario
si sofferma su alcuni momenti dell’adolescenza, ma dopo i giochi infantili ha
conosciuto il duro lavoro dei campi, la difficoltà di gestire il correggiato,
la scarsezza del fuoco nei mesi più freddi e le ristrettezze di un’economia
portata avanti a forza di braccia e di privazioni. Del padre ha un ricordo
diverso, tenero; è sicuro di rivederlo come nei giorni ormai passati, ma vivamente
impressi nella memoria:
E rivedrò mio padre, un uomo
stanco,
che scaldava la fatica ad una stufa
povera
di legna in un cantone.
Questi lati tristi
dell’esistenza hanno notevolmente contribuito a maturare e a temprare un
carattere fiero, forte, sicuro, combattivo. Ciò che per alcuni è motivo di
vergogna, per il Poeta è un vanto l’essersi procurato il necessario per vivere
e condurre avanti gli studi col sudore della fronte.
Nei
due Poeti il motivo biografico, inserito in un tessuto narrativo esemplare,
costituisce un elemento portante di grande impatto sull’animo e sulla sensibilità
del lettore, soprattutto se ha sperimentato nei primi anni di vita le pressanti
difficoltà per la pura e semplice sopravvivenza. È, questo, il motivo per cui
la lirica di entrambi è venata di strisciante pessimismo. In un momento di abbandono
lirico Nazario così risponde alle perplessità di Patrizia:
Ora son qui che veglio
nell’attesa
di trovare un’uscita al mio
travaglio
di non poter capire cosa resta
di questa nostra vita da
mortali.
Mi provo a immaginare il mio
futuro
ma tutto mi rimane nella
nebbia
e non capisco perché davanti
al mare
si
soffre della nostra imperfezione.
Al
lettore non sfugge la velata e lirica presenza di Leopardi, che riflette sugli
eterni problemi che assillano l’uomo e per i quali, senza la viva fede in
valori trascendenti, l’angusta esperienza fisica non si
troverà mai soluzione. In tutta la silloge, infatti, non ricorre mai il termine
provvidenza, significativo ed evocativo anche di una superficiale
credenza e speranza nell’aldilà. La liricità dei carmi, impregnati di pura
esperienza materiale e quotidiana, snocciola interessanti e paradigmatici esempi
di vita reale, presenta speranze e illusioni, immancabili attese e delusioni.
Ma la laicità della lirica è solo apparente, perché entrambi guardano verso lo
stesso cielo e con i piedi sulla stessa terra; tendono verso la medesima meta
e, mentre si ripiegano sull’essenza della loro anima e sull’irrepetibilità
della loro esistenza protesa verso il futuro, che si staglia tra la certezza
della e l’incertezza della sopravvivenza, tengono davanti agli occhi
l’illuminante monito dantesco, Purg. III, 37-39:
State contenti, umana gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era
parturir Maria.
I
problemi di filosofia esistenziale sono solo sfiorati, almeno in apparenza,
perché entrambi nel ludus sono perfettamente consapevoli d’essere al
centro del cosmo e all’interno di un’armonia, che percepiscono, vivono ed esprimono
mediante la liricità ora mesta, ora gioiosa, ora meditativa. Entrambi, secondo
il monito dantesco, Purg. III, 34-36, sono consapevoli che
matto
è chi spera che nostra ragione
possa
trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
Nell’assidua e profonda
meditazione sul proprio essere e sulle contingenze, che limitano e danno
particolare senso alla vita i Poeti accettano non sempre di buon grado i limiti
che la Natura impone all’uomo nel suo cammino terreno saldamente piantato
sull’avvicendamento della nascita e della morte, cui all’interno di una dinamica
non sempre chiara e lineare risponde amore e odio, benessere e povertà. Questi
stilemi, oziosamente utilizzati, permettono di avvertire echi ora foscoliani,
ora leopardiani, ora angoscianti temi della produzione poetica più recente
interiorizzati e assimilati nell’afflato lirico della rielaborazione affettiva
ed emotiva.
In questa assidua e incalzante
dialettica i versi scorrono ponderati, misurati, calcolati, perché all’interno
dell’io narrante e protagonista vive il grande mistero della Poesia, la
quale sotto l’aspetto ritmico e musicale diviene interprete tanto della gioia
quanto del male di vivere. Calati nella realtà di un mondo apparentemente estraneo
al dettato poetico, Nazario e Patrizia danno voce a momenti di velata
insignificanza per universalizzare nella spiritualità dell’io
l’esperienza umana, colta e percepita nella sua dimensione terrena e
spirituale. Le parole non sgorgano a caso e non viaggiano senza emozioni,
prigioniere di pure e vuote convenzionalità.
Nella breve, ma fitta e
stimolante, corrispondenza sull’umano divenire non è estranea la riflessione su
temi filosofici appena abbozzati, su riflessioni etiche a volte pregnanti, a
volte eludenti. Il dialogo non termina, non si esaurisce con l’ultima parola
del verso finale, ma nella sua circolarità prosegue con un sereno e rassegnato
sguardo sulle inquietudini, sui contraccolpi del vivere quotidiano, sulle
aspettative d’un futuro migliore, sulla dimensione del sé a contatto con i travagli
della quotidianità, sulla costante e stimolante presenza dell’amore colto nelle
sue svariate dimensioni e sfumature.
Davanti
all’amore le anime dei Poeti distendono le ali per puri e incantevoli voli
nell’azzurro lindore anche di un’esistenza tormentata da indicibili travagli.
Paradigmatico è quanto Nazario scrive nella mattinata del 26 febbraio:
Solo l’amore
ci salverà nel mondo,
donandoci
quei brividi che più toccano
il cielo,
forse da là potremo assistere
alle
vicende strane dei mortali.
In
una manciatina di versi è racchiuso il poetico modo di intendere l’amore nella
sua sublime bellezza e universalità. Questo tema, profondamente radicato nel
cuore umano, costituisce il sottofondo di quasi tutte le liriche ora in modo
velato, ora in modo esplicito. Pochi e sfuggenti sono gli accenni alla fisicità,
poche le allusioni alla carnalità, alla sensualità, al piacere di avere tra le
braccia la persona amata, con la quale abbandonarsi alla soddisfazione dei
sensi. Entrambi ne avvertono il potere travolgente, che dominano con la fede
nella ragione e nel rispetto reciproco, anche nei momenti più impensati. Non è
quella dei Poeti purità né bigotta né manichea, ma consapevolezza dell’infinita
dimensione del dono più intimo e personale. Per cui non a caso Nazario tra
nostalgia e rimpianto evoca senza rancore o pentimento momenti di idillica e
indefinibile bellezza:
Una volta ti chiesi se potevi
restare con me sulla sponda
di questo fiume. “È tardi - mi
dicesti -
non posso perder tempo devo
andare
a casa da mia madre che mi
aspetta.”
Eppure si sarebbe potuto, di
sicuro,
vincere il destino, amarci più
che mai,
avvinti al tramonto di quel
giorno
che pettinava le acque
mentre i dintorni brillavano
per noi
che
aspettavamo l’ora dell’amore.
Consapevole che quei momenti
non torneranno il Poeta non si lascia vincere dal rimpianto e con un poderoso
colpo d’ala ricorda l’incanto dell’incontro e il mancato sapore del frutto con
due versi di inesprimibile bellezza: i dintorni brillavano per noi / che aspettavamo
l’ora dell’amore. In questa pericope pregna di ricordi rimane fisso il momento
evocativo, riflessivo, emotivo ed etico, che si perde lontano come il giorno che
pettinava le acque. Il dialogo, che si sarebbe potuto concludere nel calore
dell’amplesso, prosegue oltre gli angusti limiti dell’esperienza sensibile di
pochi attimi, permette di richiamare alla mente l’occasione perduta e gettarvi
su, a distanza di tempo, nuova luce soffusa di malinconia e di cosciente
rinuncia a un piacere effimero. Quanto vibra in questi versi declina una personalità
forte, cosciente dei propri limiti e dei confini disegnati dall’altra, pur
bramosa d’appagare le naturali esigenze di donna.
Si riscontra in questo
singolare duetto il richiamo del pubblico accanto a temi di assoluta intimità e
confidenza: alla presenza della casa, della famiglia e degli amici subentra la
solitudine, il malinconico ricordo del passato e della perenne bellezza offerta
dalla condivisione di ideali irrinunciabili. Nel fitto e appassionato carteggio
di Nazario con Patrizia queste aspirazioni non sono utopia, ma realtà che si
concretizza nell’inscindibile unità di intenti, nella Poesia.
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RispondiEliminaUna lettura appassionata, vibrante di citazioni colte come soltanto il prof. Orazio Antonio Bologna può fare. La sua grande cultura, che abbraccia vastamente molti ambiti letterari, gli ha permesso di entrare nei suoni delle
RispondiEliminaparole facendoli propri. L'emozione, nel leggerlo, è tanta, almeno quanto la fortuna di averlo quale prezioso amico.
Ma davvero ho scritto un libro con il Poeta Nazario Pardini? Forse ancora non ci credo. Eppure è qui, vicino a me, così come a lui, lo so. Grazie, Nazario, per ogni momento vissuto in poesia e amicizia, e per quelli che vivremo; e grazie, Orazio, ancora grazie, per questo tuo dono immenso che ti ha rubato il tempo, che è prezioso per ognuno, e per avermi arricchita con la tua lettura che si presenta come un'opera critica di alto livello.
Buonanotte a voi, carissimi.
Di verticalità e altre cose
(il Mastro e la mezza cucchiara)
I
Dal Mastro mio provavo a rimestare
del più e del meno in una cardarella.
Un filo a piombo stava sempre teso
da sopra un muro verso il nuovo piano
e intanto che il progetto lui creava
io rimestavo con maggiore lena.
Adesso si trattava di un bel vaso
un grande vaso (che non c’era invero).
II
E rimestavo:
– È scritto? tutto è scritto?
da sempre contemplato nelle cose
che nascono già vere nelle idee?
– Dicono. Ma se solo sposti il vaso
l’ombra del piano cambia.
– Se voglio l’ombra proprio lì nel mezzo
lascio che il vaso resti sotto il sole.
– Ma il tempo inganna, vedi?
C’è già una nube che ricopre il prato
e il leccio lì nel fondo
ha perso l’apparenza di misura.
III
Un giovane passante
scrollando la sua testa ridacchiava
vedendolo così, senza l’oggetto
a ragionare con le mani al cielo.
– Per quel che viene al mondo
e che tu senti in alto divenire
lascia i tuoi occhi
ché vedono poco, l’udito chiudi
alle risate sciocche,
richiama a te il tuo fiato
fuggito alla campagna
come un randagio, senza più padrone.
Non so perché girai nel verso opposto
quel più e quel meno mentre il Mastro mio
ancora disegnava curve in aria.
Il commento precedente è di Patrizia Stefanelli
RispondiEliminanazario