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giovedì 16 settembre 2021

ANNA VINCITORIO: "UNA FINESTRA. DONNA LUNA" DI GRAZIELLA BINDOCCI


EUGENIO REBECCHI

TERZO TEMPO

L’albero dei cachi



 

 

 

 

Nella prefazione  ”. Il poeta autentico vive di attese, di eventi che si compiranno.

Lui ne è o ne sarà protagonista. Vive nella consapevolezza di profezie o meglio, anticipazioni, ma conserva il bagaglio prezioso del ricordo. Tutto ciò che lo circonda a livello animico è un’isola che contiene i suoi desideri, rimpianti, sogni, anche follie. Il suo conforto: “appoggiato ad una stella/ sogno/ un mattino a colori privo della nebbia/ di giorni grigi e tristi”. La luce con la sua chiarità allevia il poeta nella lotta per la vita. Molteplici le realtà di Eugenio spesso fuse ai sogni in una visionarietà colma di pennellate. Vive di sfumature, di attimi; ma quelli tragici pur incidendo sulla sua persona non lo annientano. Come superarli? Con volontà o fede laica riesce a trovare appigli anche nelle azzurre sfumature del cielo che lo sovrasta. Se il presente lo rende claustrofobico, allora bisogna partire verso nuove realtà bucoliche: “cuore verde dell’Italia”, l’Umbria sognata. Forte in lui l’urgenza di nuovi spazi, compagni del silenzio amico in cui immergersi. Una nuova qualità di vita. Non può mancare il commiato da “due perle lasciate nell’ostrica”. Non è abbandono ma proiezioni di un viaggio verso un ignoto fin già vagheggiato nei chiarori e visioni di albe lunari. Cosa lo circonda adesso? Niente di eclatante: “il silenzio delle notti…e di giorno il chiasso è moderato, rispettoso./ Vince la quiete ad ogni ora…”. Amici cari non si vedranno più ma resteranno in noi. D’altra parte la vita non è che un continuo commiato e la ricerca dell’isola in cui immergersi anche se il mare è lontano.

Importante è vivere “la condizione di un naufrago felice…”. Eugenio ha vissuto a lungo in un castello di carte; un tempo Imperatore, ora Matto o Viandante. Nel suo profondo essere, come e dove, per lui è importante. Il bisogno di “azzurro diffuso e inesistente/ è colore allo stato puro”. Il tempo non possiamo vincerlo ma viverlo, sì. Pienamente. Nella sua oasi procedere su lucidi ciottoli ma l’imprevisto prende improvvisamente forma. Adenocarcinoma. Realtà che non può ignorarsi. Lo ha deciso il destino, ma in lui ha inizio una sfida: “sarà lotta fino all’ultimo sangue fin quando potrò dire,/ ho vinto io!”. Essere poeta è vita anche se si manifestano i segni della sfioritura; niente però potrà impedirgli di volere tener lontana la morte. Come? Con la ricchezza del pensiero; osservare la tradizione e bere vino rosso. Vivere il presente, aspirare alla luce, lasciare la malinconia alla notte. A Monte Castello di Vibio c’è un teatro: il più piccolo del mondo. Raffinato gioiello col soffitto affrescato di teneri azzurri. Un passato che vuol continuare a vivere nell’arte. Se un tempo il castello di carte di Eugenio è crollato, adesso nell’oasi verdeggiante ce n’è uno: “si rappresenta il delirio di un uomo/ in assurdo movimento/ Gli spettatori applaudono. Teatro di ombre perché ombra diviene la vita nel suo scorrere”. “C’è un vecchio stanco che racconta a se stesso/ il perché di una vita/ trascorsa troppo in fretta./ Ma lo spettacolo va avanti comunque”. Si pensa di poter scegliere. È tutto designato ma in qualunque realtà, affiora il sorriso inconsapevole di un bimbo là dove c’è la guerra; sono immagini che possono inquietare ma fanno parte di una vita anche se da noi lontana. Possiamo cliccare e spegnere ciò che ci disturba, ma in noi la visione rimane. Il poeta necessita di azzurro e lo ruba al cielo e con un pennello immaginario, pittura i suoi sogni “ingrigiti dal tempo”. Per lui e in lui una promessa d’amore. Una mano gli è vicina e renderà chiara l’ombra dell’uomo “buio e pensoso/ a pochi passi dal cielo. Intorno a girasoli impazziti di giallo/ lungo campi che sembrano infiniti”.

Ogni sensazione del poeta si concentra divenendo chiazza luminosa.

Un pennello immaginario schiarisce i contorni dell’ombra.

“Griderò in faccia alla morte/ il mio desiderio di vita/ Ed esorcizzerò con stanchi rituali/ la possibilità del trapasso./ Tu non puoi restare sola/ perché sta scritto in chiaro,/ che finiremo insieme/ questo cercato percorso…” Ricordo di una complice luna e di un voto d’amore.

E si giunge all’albero dei cachi, ricco di frutti e di colori (v. copertina del libro). I suoi rami perderanno luce e diverranno spogli “verso le probabili nuvole novembrine”. Metafora della vita che scorre verso il suo concludersi ma si procrastina. Il presente va vissuto pienamente; l’acqua ormai lontana visione e “due o tre bottiglie per annegare più di un ricordo”.

Adesso Eugenio e Flavia vivono il loro autunno. “Tra il verde di questa terra benedetta/ ho colto fragranze sensoriali:/ ulivo e vite hanno partorito/ felice connubio fra olio e vino”. Vivere insieme e ricordarsi sempre tali “per un sicuro percorso d’amore”.

Caro amico, ho rivissuto nel leggere i tuoi versi la saggezza di un uomo in cui la rassegnazione lascia spazio alla vita. Il testo può sembrarti assurdo. Triste il risultato? No. Delinea il tuo sembiante di gigante buono. “Ho bevuto mille litri di rosso/ per cantare, più tardi, a squarciagola/ la canzone imparata stonando a più voci”. 

Anna Vincitorio –

mercoledì, 10 giugno 2021

 

FALSI PROFETI

 Il suono cerca se stesso

la luce non è innocente

galassie ruotano

soli fiammeggiano

ma la mano protesa

trova solo materia informe

in divenire

che si cerca attraverso anni

di nera e fredda solitudine

 

Chiama il vortice di luce

promette bugiardo

l'armonia dei soli

e vuol disperdere

in frammenti di stelle

e  un'opaca oscurità

senza nome

   1986     Graziella Bindocci

 

LE BAMBINE DI ALEPPO

 

Non sorridevano le bambine di Aleppo

corpo sottile magliette sdrucite rammendate

pantaloni consunti

infradito su piedi sporchi

 

Guardavano in silenzio

le bambine di Aleppo

turisti davanti al Suk ben vestiti

ben nutriti

vocianti anatre nello stagno

alla loro vorace curiosità

la guida locale dava in pasto

gente e città

 

Si avvicinò loro un uomo

sapeva di buon cibo di benessere

voleva portare nel suo paese lontano

l'immagine di due sorridenti

bambine di Aleppo

così porse loro denaro

 

con pochi Euro si può comprare molto

fra i poveri della città

anche un sorriso

 

Sembravano felici le due bambine

il turista ebbe l'immagine che voleva

ma il sorriso non arrivava agli occhi

lo sguardo rivelava antica tristezza

 

Il Suk non c'è più devastato dalle bombe

aleggia l'odore della morte

nella città di Aleppo

gelido fra mura smozzicate e cieche finestre

soffia il vento della paura

Dove sono ora le bambine di Aleppo

dal volto serio e la tristezza negli occhi ?

 

  Siria 2008 Graziella Bindocci

 

FOGLIE D'AUTUNNO

 

Non siamo che
accartocciate

rugginose foglie

crepitanti frammenti

su terra bruna

accese conchiglie di luce

palpitanti

nei colori dell'autunno

che un tremor di vento

coglie e porta via

testimonianza muta

di eterno ritorno

 

 MIO PADRE

 

Rideva mio padre

nella foto ingiallita dal tempo

giovane uomo

dai sogni intatti

amori ingordi di tenerezza

profumo fresco

di un immaginato domani

 

Il tempo dell'orrore

e della guerra

gli rubò l'innocenza

fra l'odore ferroso

del sangue e oscena morte

in ospedali da campo

intristì il suo cuore

 

Tornò dopo sette anni

un uomo cupo

triste e silenzioso

 

Non ricordo il sorriso

di mio padre

 

NOTTE DI LUNA

 

Fredda luce lunare

argentea foglia d'olivo

colline nere echeggiano

di civetta il grido

mistero e paura

cela l'ombra scura

 

Cadon le vesti

la danza inizierà

complice la luna

e vellutata oscurità

il corpo liberato

dolcemente sfiorato

dalle dita della notte

che un brivido percorre

 

Stelle punteggiano

occhi sognanti desideri proibiti

l'anima ferita piange

lacrime di fuoco

 

Grazia Bindocci

    1995         


                          UNA FINESTRA

Finestra aperta su uno spazio non commensurabile: colline, ulivi, una palma sulla destra in sofferenza per il caldo. Ancora un’altra estate in un tempo indefinito di attese. Orizzonte, ora limpido, ora velato. Poteva intravedersi il mare al confine. Sovrano il silenzio dell’uomo. Indistinto il brusio degli animali che non si vedono ma lanciano un richiamo raccolto dall’udito, non so quanto amico. Dalle travi brunite della stanza spunta la testa di un geco; silenzioso, viscido, freddo. Più allegra il brusio delle api anticipo dell’oro di un miele che verrà raccolto. Si allungano al tramonto le ombre sull’erba alta non ancora tagliata. Le altre finestre sono chiuse.

La vita scorre all’interno: il quotidiano ma anche l’ignoto al calare

dell’ombra. La donna teme il buio perché animato di ignote presenze. Non sono visibili ma le sente aggirarsi subdole. Figure sconosciute o del passato. Non hanno volto. Si allungano in spazi vuoti. Lontano, il fischio di un treno. Dove andrà? Gli occhi inseguono figure che non hanno volto. Manichini senza orbite si spalancano su angosce non definibili ma non per questo meno inquietanti. Si delinea un tempo remoto di fantasmi che risalgono all’origine dell’uomo. Non si vedono ma se ne avverte la presenza. Affiora il lontano ricordo di un incubo in cui enormi ragni neri correvano lungo il muro. Archetipi del suo inconscio. La donna non può che aspettare il buio. Resta l’enigma dell’ora sull’orologio dimenticato fermo alle 13. Sono trascorsi ben quarantasette anni da quando una vita si spezzò all’improvviso. Quello sguardo glauco, vitreo nella fissità della morte. Forse sarebbe meglio poter dormire, ma lo spazio sarà per i sogni o per gl’incubi?

C’è in lei una sensazione di solitudine ma anche, nelle enigmatiche ombre

che l’avvolgono, una pacata gaiezza. Rivede con la memoria i campi arati, le stoppie affogate nel sole; grida di bimbi inseguiti dalle oche con le manine alzate.

Forse è meglio chiudere le persiane. I pochi mobili, nella loro immobilità,

appaiono come pietrificati. La casa, al calare del buio, le diventa estranea. Fuori, il tutto e il nulla. L’infinito è mistero. Il suo spirito è predisposto a riandare alle acqueforti di Klinger e a una presa di coscienza dell’eternità e del tempo che si ferma. Studi di un tempo lontano: Zarathustra di Nietzsche.

La solitudine anche se colma del fascino dell’indefinito, diventa

opprimente se al silenzio si aggiungono le ombre. È la predisposizione d’animo a rendere le ombre liete o angoscianti.

Un bilancio della propria vita; alternanza di ricordi; l’inconfondibile blu

di mari lontani, cattedrali barocche sorte sul nulla, il ritmico danzare dei dervisci nell’immaginario di spazi senza confini. Però, con chi condividere le sensazioni e i ricordi? Ha intorno a sé oggetti di un passato diluito dal tempo ma presenti. Una fine coperta ricamata con fili di lino e angeli che si tengono per mano. Una zia mai conosciuta la ricamò per le sue nozze. Non fu mai usata per la sua morte tragica e precoce. Ancora… un quadro dipinto dalla figlia bambina: un’allegra processione di figure colorate verso chissà quali sogni. Davanti ai suoi occhi una enorme pergola verdissima diffonde fresche ombre. Osserva una tavola al di sotto e, con gli occhi del ricordo, vede una cena cristallizzata nel tempo e un uomo ai confini della vita che abbracciava con gli occhi i presenti.

       Complice un tramonto dai lunghi caldi colori.

       Una telefonata al mattino. Un invito per andare a Pisa.

       Nel caldo ventoso è festa e sul Lungarno si affaccia il Palazzo Blu svettante di bandiere. – Mostra di Giorgio De Chirico –

       Prendono corpo le visioni della notte: “Sulle piazze quadrate le ombre si allungano nel loro enigma matematico: dietro i muri le torri insensate appaiono coperte di piccoli drappi dai mille colori e dappertutto è l’infinito e dappertutto è il mistero… Quando la profondità ancora glauca della volta celeste dà la vertigine a colui che immerge lo sguardo; egli trasalisce e si sente attirato dall’abisso come se il cielo fosse sotto di lui”.

                                               Giorgio De Chirico.

                                               Firenze, 11 agosto 2021

                                                    Anna Vincitorio


GRAZIELLA BINDOCCI

Donna Luna

Blu di Prussia

  

Il titolo fa pensare alla luna umanizzata nella stessa autrice. Luna, intesa come luce di freddo argento che alimenta il mistero della notte; “colline nere echeggiano/ di civetta il grido/ mistero e paura/ cela l’ombra scura”. Luna è anche donna, sensualità, corpo sfiorato “dalle dita della notte/ che un brivido percorre”.

       Il testo scorre come la vita di Graziella che emerge “da profondità abissali” per poi manifestarsi. Sensazioni scaturite dal sogno. Nel sogno viviamo vite parallele apparentemente in contrasto perché esse stesse fanno parte del nostro essere. Tutto ciò che in noi emerge proviene da profondità lontane. Pulsioni, desideri inconfessati, frutto di inquietudini e sensazioni che alimentano e anche colmano le nostre incertezze. Nell’autrice, l’ignoto compagno e ladro per lei: “ad una rosa il profumo/ l’energia alla primavera/ i colori all’alba/ e la notte non conosceva/ il mistero della luna/ perdeva le stelle/ si popolava di fantasmi”.

       Graziella si racconta. Lunga la strada. Sono i momenti tristi e lieti del suo percorso dove i giorni colmi di tristezza si alternano a sorrisi. “Un ponte una strada/ diversi ogni volta/ perché io diversa/ più veri ogni giorno/ perché io più vera”.

       La sua vita una ricerca negli altri. Voler essere consapevole di verità terribili. La sua mano ferma fissa nell’obiettivo realtà lontane, spesso atroci che fa sue. Occhi che denunciano e, intorno a lei, “non solitudine. Ma folla di volti intorno…”. Lei è coloro che le si fanno incontro. C’è solitudine, la veste dei poeti, e voci, pianti nel mare della vita. Ricordo del padre a cui l’orrore della guerra rubò l’innocenza e dopo sette anni, il ritorno. “Un uomo cupo/ triste e silenzioso”. Graziella non ricorda il sorriso del padre. Il sangue, la morte, gli ospedali da campo.

       La sua è una poesia di vissuto e la vita è popolata di ombre vaganti, di eventi lontani o vicini che l’hanno segnata. Potremmo dire che il suo cuore batte con la stessa intensità della mano quando scrive. Sempre di lei “compagna la notte ora cosparsa di stelle, ora manto nutrito d’ombre”. “La notte assume in lei carnalità/ di fiore notturno”. È poesia che scorre. “Una lunga vita rivive/ dolci ricordi, amarezze lutti e nascite/ ne hanno costellato il cielo/ mescolati come petali/ di fiori di campo/ alla deriva nella brezza/ su un verde prato di primavera”. E lei aspetta ad occhi chiusi… La fine? No. Per una persona così ricca di emozioni, di sensibilità, di amore non può che esserci la continuità in tutto ciò che ha prodotto, sentito, sofferto.

       Voglio chiudere con – Le bambine di Aleppo –

“Non sorridevano le bambine di Aleppo…/ guardavano in silenzio/ turisti davanti al Suk ben vestiti…/ con pochi euro si può comprare molto/ fra i poveri della città/ anche un sorriso/… Il Suk non c’è più devastato dalle bombe/ aleggia l’odore della morte/ nella città di Aleppo/ gelido… soffia il vento della paura/ Dove sono le bambine di Aleppo dal volto serio e la tristezza negli occhi?”. 

                                               Anna Vincitorio

                                               Firenze, 14 agosto 2021



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