Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade
"TERZO TEMPO",
DI EUGENIO REBECCHI
(Blu di Prussia Editore)
Il poeta, romano di
nascita, è vissuto lungamente al nord (Piacenza) per poi spostarsi in età
matura in un mite borgo dell'Umbria, Monte Castello di Vibio (Perugia), inseguendo
ritmi più umani e meno frenetici di vita. In questo Terzo tempo confessa che la lotta tra i desideri opposti di avventura
e di requie, è finita in pareggio, avendo egli compreso che un permanente quieto
vivere è insoddisfacente non meno di un perpetuo stato di turbamento e di crisi.
Difatti, la stessa ambita pace del borgo può trasformarsi in un insopportabile
torpore: "Ancora un giorno è passato / domani è già il futuro / non c'è
tempo da perdere". Conformismo e sconvolgimento, stasi e mutazione, occorrono
entrambi e hanno bisogno l'uno dell'altro.
Monca è la realtà e
monchi i sogni, se non riescono a giovarsi gli uni degli altri. Difatti,
"si è adirato l'allegro fantasma / che s'aggirava giocoso tra i saloni /
dell'antico castello addormentato / perché l'ultimo principe ha sentenziato /
che non esistono i fantasmi / nemmeno nei vecchi manieri". Esistono invece
i sogni, i fantasmi: vorrebbero giocare candidamente con noi, mentre noi li
scacciamo, oppure di fronte ad essi cadiamo in prostrazione. E' così che diventano
ostili, veri e propri mostri in agguato, anziché fratelli di dialogo, in quell'orizzonte di attesa cui accenna Antonio
Spagnuolo in prefazione, riscontrandolo in questo canto colloquiale e sommesso,
all'incrocio tra intimità e cronaca, tra vita privata e vita associata.
Un eloquio poetico fiorito
e scarno, sognante e veristico a un tempo, dove s'inseguono delusioni ed
illusioni in un'oscillazione costante. Versi non indulgenti al pessimismo, ma
neppure all'ottimismo, in quel disincanto sornione e un po' ironico, capace pur
sempre e comunque di coltivare speranze. La vita, sembra dire l'autore, è storia
di soprusi, prevaricazioni ed inganni, ma le nobili aspirazioni sono tutt'altro
che vane e svolgono anzi un ruolo importante, in divenire, da traino verso
mondi che non conosciamo: "L'amore / che mai smise / d'esser tale / è
sempiterna / promessa / d'infinito". Ci crede davvero Rebecchi, anche se
un po' gli piace giocare. Parla addirittura di palingenesi, sia pure in senso
laico e per niente religioso:
"Il dinosauro
s'è addormentato / tranquillo: ere lontane. / Piange il coccodrillo malandrino
/ dopo il lauto pasto consumato. / Non sa che il suo gioco / è scoperto, non
inganna più. / Re leone festeggia il compleanno / ma non c'è alcuna torta con
le candeline / lui mangia soltanto carne cruda. / E l'uomo vaga intorno
all'illusione / d'essere il primo tra gli animali / perché dotato di fine
intelligenza. / Urge la già invocata palingenesi / che azzeri tutto per
cominciare daccapo / e poter finalmente scoprire / l'uomo nuovo, logica
espressione / di un'umanità numero due. / Il vecchio sogno è tornato
all'improvviso / uguale a quello di tanti anni fa / quando il poeta provò a
comporre / l'opera somma che rivoluzionava / l'andamento barbaro del
mondo" (Umanità numero due).
Penso che questa sia
tra le composizioni più significative del testo. Ma andiamo per gradi. A un certo punto della sua vita, l'autore
rimette tutto in discussione. Cancella d'un colpo il passato, stanco della
consueta routine, e si rende pronto
per nuove avventure: "Ho cestinato tutto in un giorno solo / radendo al
suolo il castello di carta / che poco somigliava alla mia immagine d'oggi: / un
uomo in partenza". La silloge si apre dunque con l'immagine di "un
trasloco faticoso / chilometri di strada in direzione sud / per raggiungere
quello che chiamiamo / cuore verde d'Italia: l'Umbria sognata". "Per
voi che siete rimasti / c'è la noia dell'usura. / Per noi che siamo andati /
c'è l'incanto del nuovo. / Eccoci qui a due passi dal verde".
"Grazie a
fratello sole e sorella luna / ... / Ripartirò da qui, da questo plenilunio /
che è luce gentile per dar senso alla notte". Ma l'ironia è sempre in
agguato: "Il diavoletto allegro / s'è beffato / dell'angelo custode
intimidito / da una presenza contraria / al suo candore". Da qui "una
caduta tutta verticale", con "voli pindarici al contrario". Il
negativo prende il sopravvento, e a proposito dell'attentato alle Torri gemelle,
l'autore dice: "Ci fosse un dio del bene non lo permetterebbe; /
ricaccerebbe le bestie sanguinarie / nel suo inferno di fuoco / e libererebbe i
popoli da ogni schiavitù". La battaglia tra il bene e il male si svolge
dunque tutta nel cuore dell'uomo. Con i due teatri (quello dei mimi e quello delle ombre) dove prende corpo il dissidio tra l'apparire e l'essere, tra lo scimmiottare
dell'ego ed il rigore coscienziale.
Gli animali, dice il
poeta "parlano, ridono, hanno movenze umane", mentre le vere bestie
siamo noi. Per cui l'auspicio è che il mondo possa venire "governato da
tigri, leoni, elefanti", consentendo a noi, sotto tale guida, di tornare
ad essere veramente umani. "Al povero lupo hanno imputato / crimini vari,
nefandezze / senza valutare che il bell'animale uccide per mangiare / non
proprio come l'uomo". Una riflessione importante sul carattere necessitante, e proprio per questo libero, della natura, contro la presunta liberazione culturale e spirituale operata
dall'uomo nei confronti del creato, destinata - questa si - a creare schiavitù
e sofferenza a non finire. Una rivalutazione formidabile della materia, della
terra, della carne.
Cosa c'è oltre la
carne? si chiede il poeta a questo punto. Di chi è l'immagine, "narciso impertinente",
che si specchia "nel limpido riflesso d'una fonte"? "Chi è
costui? / Non so, non lo conosco. / Credo nella carne / che si fa carne / per
inventar barriere di concretezza / al nulla dilagante". E ben venga questa
fede, se il risultato è di far girare i nostri meccanismi psichici secondo
ingranaggi naturali e universali. Il poeta è spiazzato di fronte alla facoltà
dell'uomo di andar contro natura. E quando un verdetto medico gli rivela di
aver contratto una seria malattia, egli reagisce con la speranza di poter superare
il momento difficile per continuare "fino a cent'anni / ... / a prendere
in giro / il perché d'un'innocenza / gettata in pasto / a belve d'ogni
tipo".
Poi torna a
chiedersi: "Chi sono io?". Risponde: "Il poeta di quella
generazione / che ha pianto il perché di una guerra / non vista, appena
terminata. / Io grido nel deserto delle illusioni / il mio canto disilluso / la
mia canzone appassionata" che allude ad "un lontano orizzonte
alternativo". Quale possa essere questo "lontano orizzonte" non
è espressamente dichiarato, ma date le premesse non possiamo che pensare ad un
ritorno nel grembo della terra madre, alla natura stessa, alla carne, alla
materia vivente. A quei sensi che non mentono (come sa fare la mente) e che sono sempre allineati con
le leggi del creato. A quel Paradiso terrestre, in fondo (ma questa è una mia
illazione), che è appunto un orizzonte alternativo e lontano per l'uomo che se
ne è voluto separare, pur avendolo ricevuto in dono.
Franco Campegiani
Franco carissimo,
RispondiEliminache dirti? Come ringraziarti? Mi hai onorato, non solo di attenzione, ma hai anche elaborato un piccolo capolavoro nel commentare la mia ultima fatica poetica.
L'esame attento, la capacità di analisi, il rigoroso procedimento di valutazione mi sono noti perché conosco, seppure parzialmente, il tuo lavoro. Eppure scoprirli su un qualcosa che m'appartiene, non solo è motivo di appagamento, ma danno fiducia e, in fondo, fanno girare un po' la testa! Non certo per piaggeria (hai scritto in completa autonomia, senza il bisogno che ti richiedessi alcunché) ma, in effetti, considero quanto hai fatto come uno dei più bei regali, una cosa che conserverò quale attestato veramente importante. Ciò che hai affermato, lo scavo che hai operato tra i miei versi, i passaggi che hanno catturato maggiormente la tua attenzione sono e resteranno, per me, la sontuosa interpretazione che un intellettuale mi ha dedicato in totale libertà di pensiero.
Ti abbraccio con un velo di commozione
Eugenio
Carissimo Eugenio, che dirti a mia volta? la tua commozione è contagiosa. Non ero certissimo, data la personale e molto libera interpretazione dei tuoi versi, che questa avesse potuto trovare corrispondenza nella tua visione poetica del mondo. E' andata bene e ne sono molto felice. Una forte stretta di mano.
EliminaFranco
Mi complimento con Franco per questa lettura di "Terzo tempo" dell'amico Eugenio Rebecchi.
RispondiEliminaCredo di poter dire - conoscendo bene l'autore dell'opera - che le considerazioni di Campegiani sono appropriate e colgono aspetti che, senz'altro, costituiscono l'asse portante della personalità e del pensiero del poeta ed editore romano.
La caratteristica peculiare - a mio avviso - di Eugenio è la schiettezza: è un uomo che non ama nascondersi dietro le illusioni e neppure dietro i dogmi.
I versi - che Franco riporta e analizza - ne sono chiara conferma: "Il dinosauro s'è addormentato / tranquillo: ere lontane. / Piange il coccodrillo malandrino / dopo il lauto pasto consumato. / Non sa che il suo gioco / è scoperto, non inganna più...", e ancora: ""Grazie a fratello sole e sorella luna / ... / Ripartirò da qui, da questo plenilunio / che è luce gentile per dar senso alla notte...".
L'esegesi di Franco è molto profonda (come sempre) e - rifacendomi di nuovo alla capacità dimostrata di essere entrato nel vivo del pensiero poetante - mi piace citare questo suo pensiero: " Il poeta è spiazzato di fronte alla facoltà dell'uomo di andar contro natura...".
E il "lontano orizzonte alternativo" - cui lo stesso poeta fa riferimento - è con acume identificato, da parte del Critico, in "un ritorno nel grembo della terra madre, alla natura stessa, alla carne, alla materia vivente....A quel Paradiso terrestre, in fondo (ma questa è una mia illazione), che è appunto un orizzonte alternativo e lontano per l'uomo che se ne è voluto separare, pur avendolo ricevuto in dono".
Sandro Angelucci
Grazie, carissimo Sandro, per questo tuo limpido ed esplicativo contributo. Conosci da molto tempo Eugenio, e molto meglio di me, per cui mi conforta il fatto che tu abbia trovato appropriate le mie argomentazioni. Mi gratifica in particolare la tua citazione del passo in cui parlo del Paradiso terrestre, alludendo ad una spiritualità della materia che, ahimè, si fatica non poco ad accettare.
EliminaFranco
Straordinaria la tua lettura, Franco, della Silloge del carissimo Eugenio, che affreschi in tutte le sfumature, consentendo a noi lettori di vederlo saltare fuori dal testo, di carezzarlo, di seguirlo in tutti i cambi di rotta, in tutti i dubbi e gli interrogativi che alimentano i suoi giorni. Sai calarti in modo eccellente nella realtà di questo Poeta che nei versi, come nella vita, è veemente, appassionato, vero, a volte vicino al disincanto, ma mai di ritorno dall'avventura dell'esistenza. I suoi non sono bilanci, ma riflessioni, e sono rimasta ipnotizzata da questo estratto: "Gli animali, dice il poeta "parlano, ridono, hanno movenze umane", mentre le vere bestie siamo noi. Per cui l'auspicio è che il mondo possa venire "governato da tigri, leoni, elefanti". Eugenio rivela di essere Poeta nel senso più alto del termine. Riconosce nelle miracoli Poetici del Creato l'anima... e un'anima molto più volta al bene della nostra. Sono perfettamente d'accordo con lui. Lo stimo e lo ammiro infinitamente. Tu sei il recensore ideale per questo testo di seta e oro riposto nello scrigno di Leucade. Ringrazio te e il Poeta Franco caro, e vi abbraccio unendo nella stretta il Condottiero che ci permette incontri così felici.
RispondiEliminaCara Maria, sono d'accordo con te: Eugenio è poeta "a volte vicino al disincanto" (un disincanto rivolto all'essere umano), ma anche profondamente affascinato dai "miracoli poetici del creato" e dalla superiorità morale della natura sull'arrogante e microcefalo bipede, distruttore delle armonie naturali. Grazie per questo tuo appassionato contributo.
EliminaFranco