IL SILENZIO DEGLI IMI IN MIO PADRE
dopo la consegna delle armi
10 settembre 1943, Scalo di Corfù
Parlare
del silenzio di chi è ritornato dai campi di concentramento potrebbe divenire,
almeno per me che amo troppo la scrittura, un modo per inflazionare il silenzio
stesso. Operazione utile se fosse una scelta calcolata di vita, un modo di
comodo per rifiutare le proprie responsabilità. Ma in realtà quel silenzio
rivela un male di vivere, un disagio esistenziale conseguente al vissuto
tragico in quei campi e come tale merita di essere indagato in un discorso che
rivaluti la sua giusta valenza. Questo è il silenzio a me noto, per la mia
esperienza personale di figlia primogenita di un padre Internato Militare
Italiano (IMI), e quindi da ascoltare con rispetto come voce che viene da un
lontano profondo. Il silenzio degli IMI reduci è di chi si sente in colpa di
essere sopravvissuto, di chi ha pudore di quello che ha subito, di chi teme di
far soffrire chi gli è vicino, di chi pensa di non essere creduto in una
narrazione storica troppo tardi decifrata obiettivamente, di chi non riesce a
reinserirsi nella vita civile abbandonata molto prima e diventata altra, di chi
deve riconquistarsi il suo territorio affettivo. I familiari avvertono la loro
sofferenza e cercano di aiutarli con la vicinanza, la comprensione e il
colloquio, conoscendo molto del vissuto in Grecia e in altri luoghi, poco
invece di quanto accaduto nell’orrore di quei campi: le cartoline postali o le
lettere ricevute, erano state sottoposte a censura. Non sapevano neppure delle diverse condizioni
di vita di quei 650 mila e più: per esempio che gli ufficiali vennero più tardi
costretti al lavoro, i soldati semplici invece furono da subito sfruttati in
modo barbaro in luoghi invivibili a prezzo della loro stessa salute. Quindi il
loro è un silenzio dai molteplici significati proprio di chi ha un peso dentro
tale da non riuscire a ricreare il rapporto umano perfino nella famiglia, in
cui un figlio piccolo poteva considerare come intruso e non riconoscere come
padre quell’uomo che si “intrometteva” nell’habitat familiare turbandone
l’equilibrio, chiedendo un affetto che invece doveva lentamente riconquistarsi.
Nel mio caso magica è stata la creazione da parte di mio papà della casa delle
bambole, tutta di legno e dotata di ogni comfort, di grotta e casette per il
presepio e di composite scatole porta-cucito reinventate dalla sua intelligenza
e dalla sua manualità, in quel periodo postbellico, anche per dimostraci di più
il suo amore. Patrimonio poi delle mie sorelle e della famiglia, come il mantra
del piatto da lasciare sempre pulito e del tozzo di pane da raccogliere sempre.
Quindi le condizioni esistenziali per gli IMI all’inizio erano difficili,
aggravate dal fatto che non volevano parlare di questa loro inenarrabile
esperienza: erano espressione di una loro dignità raccolta nel silenzio del
dolore. Ecco, sì, ritornando a mio padre, ascoltavo di nascosto nei suoi
incontri con gli amici reduci (Guelfi, lo zio Leone, Gruden, Paci…) le parole
piene di sconforto, sentivo il loro pianto insieme per essere sopravvissuti e
vivevo altre manifestazioni per me, bambina, indecifrabili quali la messa
domenicale, tutti vestiti con rispetto, a Terranegra, il Tempio dell’Internato
Ignoto, inquietante nome per me, per loro luogo comune del ritrovo, del
ritorno, della rinascita. Lentamente però, proprio quel senso di amicizia che
li aveva tenuti uniti nel campo di concentramento, che aveva impedito loro di
cadere in forme tremende di depressione, si rinsaldava ancor più con il ritorno
a casa in un sentimento di complicità. Contemporaneamente nasceva anche con
altre nuove conoscenze strette in via Gabelli, in via Rinaldi, o con dei
parrocchiani di Santa Sofia. L’amicizia, questa è stata la sua, la loro
salvezza che ha permesso di riconquistare la propria dimensione umana. Per tale
motivo, e lo ricordo bene, la mia casa era sempre piena di persone che mia
mamma, con la sua sapienza infinita, riuniva proprio per ridargli quel calore
affettivo, quella fiducia nella quotidiana convivenza di cui aveva bisogno
ritrovando qualche sorriso in visioni liete dei cieli e del mare greco.
Aleggiava allora l’immagine, in me sfumata, di donne greche magari incontrate,
risorte al là di qualche amico burlone per punzecchiare mia madre che sicura
andava oltre. Certo però che prevalevano i suoi silenzi assenti, le sue malinconie, le zone d’ombra
e luce, il suo amore possessivo, quasi geloso della famiglia, di noi figlie, in
particolare di me che ero la primogenita, verranno compresi troppo tardi.
Questa gelosia può essere spiegata da una
forma di paura e d’ansia di perdere il bene ritrovato, di spezzare la
sua ancora di salvezza. Così il colloquio a cuore aperto, irrealizzabile allora
per ignoranza dei fatti e per la sua morte anzitempo nel 1981 a 68 anni in un
altro campo di internamento, è avvenuto solo grazie alla poesia: È già scoccato il tocco quando / dei padri
quel segreto si disvela. / Amaro incantesimo dell’esistere. Poesia che mi
permette anche di ricostruire, nella mia primissima raccolta, una mia
interpretazione del suo vissuto nella casa per lui balsamo, attorniato da
queste figlie bambine che crescevano fiorendogli la vita, nello sfondo del suo
orto seguito con devozione, rivelando però sempre quel filo di mestizia, quella
dimensione minimale data alle cose: una diversa visione dell’esistenza segnata
da quel male oscuro che lo ha accompagnato fino alla morte. E proprio nel mondo
della poesia incontrerò, per quei casi inaspettati, un suo compagno di
prigionia, Macchini Luciano che, più giovane di lui e abile pianista, aveva
vissuto quel periodo in modo meno angosciante. Vorrei che fosse qui vivo
accanto a me per sentirlo parlare in diretta della generosità di mio padre che
divideva i suoi pacchi con i compagni, della sua operosità e manualità nel
cucire scarpe, mostrine, bottoni delle divise perché tutti loro ufficiali
mantenessero quella dignità che i carcerieri cercavano in ogni modo di
sbianchettare. Ne riferirò più tardi quando dirò di altri incontri, di altre
scoperte che mi apriranno gli occhi sul mondo degli IMI, sulla loro vicenda
nella cifra reale, e mi offriranno l’occasione, grazie allo studio appassionato
di Massimo, di testimoniare su questa trascurata e denigrata pagina di storia
in “La grande storia in minute lettere” (Valentina Editrice, 2017). Ma ritorno
ora alla poesia che già nella prima strofa comunica la conoscenza di fatti
nuovi: la tragica fine di internati che smemorati andavano a stendere i
fazzoletti sui reticolati dove li coglieva la morte assassina.
AMARO INCANTESIMO
a mio padre Gino
Nel
crepuscolo lento
mi
aleggia dentro, padre,
l’inquieto
del tuo spirito
per la
sofferta sosta in campi
plumbei,
prigioni della vita
ove
crisalidi di sangue
sui
reticoli del morire
erano
visioni del tuo vivere.
E
l’ansia sento placarsi
nell’invocata
casa, balsamo
all’anima
ora più chiara.
Oh
giorni ai Lari devoti
nel tempio
degli affetti,
sereni
al diramare
d’erba
del tuo prato,
senza
colmare d’oro
gli
otri delle ore.
Oh
giorni di sorrisi tersi
per
schiudersi in corolle nuove
l’infanzia
nostra, rosa ormai sfiorita.
Ma
nella memoria del sentire
un
mesto leitmotiv di note,
suono
a me allora oscuro:
era il
trainare quel tuo male
antico
peso, stretto sempre dentro.
È già
scoccato il tocco quando
dei
padri quel segreto si disvela.
Amaro
incantesimo dell’esistere.
[da
“Dell’azzurro ed altro”, 1998]
Oltre gli affetti ritrovati, oltre l’amicizia vera, anche l’amore per la natura è diventato per lui un dono salvifico: gli ha purificato l’anima, lo ha ricondotto in frequenti rivisitazioni ai luoghi d’origine a Villatora, proprio per quell’amore per le radici che ognuno ha in sé, rinsaldando la filiera affettiva con i genitori e tutta la famiglia di origine. Molto più tardi, a Rosapineta questa sua attenzione al Creato si manifesterà in tutta la sua valenza: nella devozione alla dicondria del prato, ai tamerici composti in siepe, alla brezza marina, al sole, al mare come elementi primi di una antica filosofia che è rimasta in me, nel ricordo dei giorni trascorsi insieme pur nel presagio della sua fine vicina, e che ora rivivo in questi versi: Ora che sento / l’umile splendore / delle note pure / su cui modulare / il canto maturo, / la mia zona segreta / da pudore dischiudo / e ghirlande intreccio / d’amore e dolore, / dono tardivo per filosofo antico. Versi che mi permettono di parlargli ancora in un colloquio che va oltre il tempo stesso, come confessione della mia comprensione tardiva del suo segreto ma anche come un ringraziamento per l’eredità in me lasciata.
PER
FILOSOFO ANTICO
a mio padre Gino
È in
me cupo lamento
il tuo
andare sofferto
tra
respiri di vento
su
tenui grappoli di tamerice.
Fiaccato
ogni giorno di più
la
vita cercavi
nell’oro-azzurro
di
spazi solari
di
scaglie marine
accesi
smalti d’elementi primi.
Terra
fuoco acqua aria
erano
il tuo pentagramma
per
musica d’anima
pastorale
antica
d’accordi-costumi
del vivere
in
armonia soave con l’universo.
Ora
che sento
l’umile
splendore
delle
note pure
su cui
modulare
il
canto maturo,
la mia
zona segreta
da
pudore dischiudo
e
ghirlande intreccio
d’amore
e dolore,
dono
tardivo per filosofo antico.
[da
“Dell’azzurro ed altro”, 1998]
Però
nella poesia, nella forza della parola intima che si fa voce, ho recepito il
modo per colmare questi suoi silenzi, lenire queste ferite anche fisiche come
l’enfisema-retaggio dei campi, il modo per stemperare le incomprensioni
generazionali e sciogliere i nodi di un periodo storico travagliato. E così ho
potuto esaltare la vitale religione in lui e in molti altri, nei grandi ideali
perseguiti, documentati nelle sue lettere, quali la fede, l’abbandono fiducioso
alla provvidenza, l’amicizia già citata, ma anche il senso di appartenenza ad
un insieme e l’affettuosità per quella Padova così cara al mio cuore perché … la città più vera erano le mani / la voce del padre della madre / che ci conducevano per
quegli spazi / della vita come luoghi dell’anima….
Ecco
non potrei capire mio padre avulso da quella città, dalla casa di via Aristide
Gabelli, dalla famiglia, da quella elegante via porticata, dall’amicizia con
Orazio e Jolanda, la Giannina, dall’affetto fraterno con il cognato Leone e con
tanti altri amici: nelle loro conversazioni sgranavano quel rosario di
contraddizioni di un’Italia difficile da comprendere, anche ora, nella sua
storia e nelle sue scelte, ricomponendole in un’accettazione anche
dell’incomprensibile. Solo alla morte di mia madre, con la scoperta di quel
sacro carteggio tra loro, abbiamo potuto ricostruire e capire il cammino degli
IMI che hanno pagato il loro contributo, con la fedeltà al giuramento di
soldati e la resistenza passiva, meglio reattiva al nazifascismo, a questa
pagina di storia molto complessa.
Espressione di un’Italia divisa fra chi collaborava con i tedeschi e
quelli che resistevano nei campi di concentramento a pressioni psicologiche di
ogni genere, magari considerati dagli altri dei traditori. E allora ovviamente
la visione si dilata poi alla vicenda di tutto il Novecento che è quanto mai
composita e crudele, ma questo mi sposterebbe lontano a ricercare le cause
remote della difficoltà di un popolo a ritrovare la propria identità. La comprensione
del vissuto degli IMI diverrà però chiara e completa con lo studio della
memorialistica, sollecitato dalla frequentazione del giornalista Giovanni
Lugaresi a Terranegra che ben ha delineato questa pagina storica rivalutandola
nella sua verità nelle pagine di “Per l’Italia – Associazione Nazionale
Combattenti Reduci, Federazione di Padova”, nella stessa “Lampada – Bollettino
del Tempio Nazionale dell’Internato Ignoto di Padova”, ma soprattutto nei suoi
rapporti con Giovannino Guareschi registrati in molti suoi scritti. E subito il
suo nome mi smuove un caro ricordo che mi porta ad una sera in cui siamo stati
da lui invitati ad accogliere quella famosa Carlotta Guareschi con cui
condividere i ricordi dei nostri padri ma una nevicata copiosa ha bloccato la
circolazione dei treni e ci ha impedito l’incontro. Ugualmente in questa
narrazione del silenzio voglio ricordare i tanti nomi autorevoli che hanno
condiviso sacrifici, momenti di cultura e di invenzioni piacevoli, di speranza
nell’impegno di difendere sempre la loro dignità di uomini: Enzo Paci,
Giovannino Guareschi, Gianrico Tedeschi, i patavini Giovanni Contarello, Oreste
Guelfi, Vittorino Gruden, Leone Schiavon… E
consolante come una preghiera, / divino nutrimento all’anima / tra voi nella
camerata a sera, / la linfa-logos dei Grandi che scorre / scavata da Paci il
filosofo, / captivo d’uguale destino, / voce-riaccensione di sé ed altri / in
archetipi-comune appartenenza / all’umano procedere sempre / oltre il limite
delle baracche / oltre lo sguardo folle del presente [tratto da “La grande
attesa – Campo di Benjaminow n. 5437” in Fragmenta, 2006]. Quest’ultima strofa
è un richiamo per passare il testimone a noi figli e nipoti ad impegnarci nella
comprensione di questo e di ogni periodo storico oltre lo sguardo folle
dell’indifferenza.
Maria Luisa Daniele Toffanin
un grazie a Maria Luisa Daniele Toffanin per aver condiviso con noi lettori del blog oltre a una significativa pagina di storia il ricordo affettuoso e dolente indimenticabile di un padre che le è stato Maestro anche con i suoi sofferti silenzi permettendole di capire e condividere esperienze che dal punto di vista generazionale erano lontane e difficili da indagare con empatia
RispondiEliminaGentile Maria Grazia, le sono grata per la sua sensibile attenzione a questo mio scritto, come pagina di storia rivalutata con obbiettività, come affettuoso ricordo di un padre che mi ha davvero insegnato nel suo silenzio i grandi valori della vita attraverso la devozione per le piccole cose quotidiane e l'amore per la natura. Con simpatia ed amicizia, Maria Luisa
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