Franco Campegiani, collaboratore dei Lèucade |
Marina Caracciolo su Dentro l’uragano di Franco Campegiani.
Prefazione di Aldo Onorati (Pegasus Ed., Cattolica,
luglio 2021; pp. 84, euro 10,00)
Franco Campegiani possiede in alto grado la capacità di accordare la raffigurazione poetica con il pensiero filosofico, l’afflato lirico con la riflessione razionale. E si badi bene che non è per nulla semplice intrecciare armoniosamente questi due aspetti. Hegel sosteneva che la poesia, come pure la musica e l’arte figurativa, sono inferiori alla filosofia, in quanto esse si esprimono per immagini mentre la filosofia si esprime per concetti. Il filosofo tedesco – pur potendosi obiettare che la sua affermazione sia almeno in parte discutibile – aveva in ogni caso stabilito la fondamentale differenza e distanza fra i due mezzi espressivi.
Aldo Onorati, nella
sua prefazione, vede lui pure indissolubilmente fuse nei versi dell’autore la
poesia e la “cogitazione”, mentre scopre con stupore “metafore di una potenza
descrittiva e gnomica straordinaria”. Non meno evidente, in questo processo di
fusione tra immagini e concetti, fra sentimento e pensiero, è la risultante
musicalità, dove, dice ancora il prefatore, essa “non è mai un assolo, ma un
concerto di vari strumenti”: ebbene questo magnifico concertare, questo spontaneo
(eppure con rara sapienza costruito) fluire dei versi in un crogiuolo che fonde
concettualità e intuizione lirica in una superiore euritmica armonia non
sarebbe possibile senza la capacità di cui si è detto.
Protagonista della
silloge è la nostra Madre Terra; ma meglio ancora, forse, si potrebbe dire che
vero protagonista è il profondo amore per la Terra da parte del
“poeta-contadino” che venera questa mirabile donatrice di vita con uno spirito
non certo bucolico ma tuttavia inequivocabilmente georgico, virgiliano.
L’uomo moderno
continua a trascurare e a sfigurare il suo pianeta, senza comprendere che
mentre esso avrà la possibilità di rinascere e ricostruirsi – come sempre l’ha
avuta in milioni di anni – lui, che con i suoi guasti conduce se stesso alla
rovina, non avrà mai una seconda chance.
Da questa
riflessione, disperata e insieme immaginosa, nasce il tono profetico, quasi
biblico di questi versi di Campegiani. Emblematica, a questo proposito, si
rivela la lirica intitolata: “Case nere lungo i viali asfaltati”: Il male d’oggi è chiuso in un recinto / di
plastificate muraglie, / ghetto refrattario in una cupola / agli spiragli di
luce. / E solo tenebre incontri / senza più coscienza delle tenebre, / case
nere lungo i viali asfaltati / senza più finestre, / un dolore inconsapevole, /
una notte senza sbocchi / che rifiuta l’impasto con le aurore, / un nulla
radicale in estinzione / un nero che più non genera nero, / un incubo,
un’oscura follia / superba e paga di se stessa [...]”. Si noti il senso inesorabilmente
claustrofobico di quel “recinto di plastificate muraglie”, del “ghetto nero”
tenebroso e sconosciuto a se stesso... L’uomo ha toccato il fondo, si è
incatenato e chiuso da sé in una prigione di cui sembra ignorare quanto siano
alte e invalicabili le mura. Si domanda quale sarà il prezzo di questa
colpevole ignoranza, di questa folle corsa sempre più vicina al precipitare
nell’abisso? La tragedia sta nel fatto che l’uomo, nella sua irresponsabilità,
pare irridere lo sfacelo che da tempo sta provocando, e la Terra, personificata
dal poeta come una madre partoriente, grida nel suo travaglio, ma il momento
ora, drammaticamente, non porta all’alba di vite nuove perché è un urlo di
distruzione Nella lirica successiva (Stazione metro) si vede la gente che si
aggira in un delirio geometrico
metropolitano, in un nonluogo
maniacale, dove sembra “essere agita” più ancora che agire. Gli esseri
umani sono schiavi di un’assurda routine che li trascina, che si è fatta loro
padrona e tiranna, sottraendogli libertà e autonomia e spirito critico.
Suggestiva l’immagine dei viaggiatori che non hanno più corpo e sono soltanto ombre, spettri, vuoti simulacri / ombre
fuggenti alla deriva”.
È chiaro che il
contraltare di questa stagnante e annichilita piattezza delle metropoli non può
che essere la campagna, il regno della vita che si rinnova, degli immutati riti
ancestrali della coltivazione, della semplicità dell’esistenza che è anche
incontaminata purezza del cuore. È là che la Terra si prende la sua rivincita,
è là che idealmente l’uomo dovrebbe ritornare, rituffandosi, come per
un’abluzione purificatrice, nella celeste
libertà dei mari. Ed è proprio questo il luogo ideale in cui il poeta
ritrova fiducia e respiro, in cui riapre il suo sguardo e le sue braccia alla speranza.
Senza peso incontro vorrei andare / alla
festa opalescente del mattino. / Senza peso potermi inginocchiare / di fronte
al padre ruvido ulivo. / E il ciliegio fraternamente carezzare / grato per il
suo bianco sorriso. Ecco: la Madre Natura si riconcilia e sorride di
fraterna amicizia, lei che il poeta – alleggerito di ogni colpa – può amare con
la santa gioia di Frate Francesco ma anche con la profonda pietas del pre-cristiano Virgilio: un identico sorriso di innocenza
che viene dalle roride aurore / con passi
lievi e alati.
Non una poesia
totalmente pessimistica, dunque, quella del poeta Campegiani, ma un pensiero
vigile che, seppure attraversato da una consapevole e amara deplorazione, trova
la forza di rialzarsi, di ritrovare e di far ritrovare strade positive,
sentieri di luce.
E questo sciame di pensieri e immagini non è monocorde: in esso si presentano figure differenti, persone e personaggi che da luoghi e tempi diversi si affacciano alla mente del poeta suggerendogli considerazioni e intuizioni che egli sa ben cucire, senza visibili suture, al suo pensiero fondamentale. Compare per esempio Pasolini, di cui si ricorda la civiltà rude e gentile, il sangue contadino della sua origine friulana; oppure, per contrasto, il protagonista di un’opera di Jean-Paul Sartre, o ancora il filosofo greco Parmenide, i cui principî il poeta discute e contesta, e altrove celebri vati come Shelley e Keats, o il nostro Leopardi, i quali ultimi non poco hanno lasciato, della loro sovrana aura romantica, nella stupenda lirica intitolata Mi hai trovato infine. Figure disparate, che nulla in apparenza sembrano avere in comune, e che pure entrano a far parte di un tutto adagiato all’interno di una costruzione poetica sempre smussata, senza punte e spigoli; in un’immagine del mondo – reale o ideale che sia – visto, in una sintesi suprema di filosofia e poesia, come una bolla di essere e tempo / di crepuscoli eterni / appesi ad albe immortali, che si desidera contemplare senza sosta, senza mai saziarsi, per potersi ogni volta arricchire di infinito.
Marina Caracciolo
Grazie, cara Marina. Una lettura, la tua, che mi riempie di gioia per avere chiarito aspetti fondamentali della mia poesia. Ad iniziare dal rapporto di essa con la filosofia. Giustamente, a mio avviso, contesti Hegel per il primato da lui concesso alla filosofia. Si potrebbe tranquillamente rovesciare l'assunto, considerando la maggiore concretezza delle immagini rispetto alle fumosità concettuali della filosofia. Ma a che serve, se parliamo di attività dello Spirito, dove tutto è unito inscindibilmente, immagini e pensieri, prassi e teoria? La divisione è quanto di più deleterio possa esistere, ed è quella che in fondo ha condotto alla tragica disarmonia fra Cultura e Natura che oggi lamentiamo, la cui contestazione tu trovi e sottolinei nella mia poesia.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Grazie, caro Franco, per il tuo commento di risposta. Hegel riteneva anche la musica inferiore alla filosofia: evidentemente ogni arte si esprime per immagini (sonore, visive, verbali) mentre la filosofia si esprime per concetti astratti (che tuttavia parlano anche della realtà fenomenica!). Del resto Platone "condannava" l'arte poiché - diceva - è di tre gradi distante dalla realtà. Già la realtà è copia dell'idea, e l'arte, copia della realtà, pretende dunque di copiare ciò che a sua volta è una copia! Ma l'arte è in sommo grado fantasia e pertanto - pur tenendone conto inevitabilmente - si distanzia dalla realtà stessa, altrimenti, in quanto arte (ossia "artificio") si negherebbe come tale. Che forse i filosofi abbiano talora "invidiato" gli artisti?... Un caro e affettuoso saluto.
RispondiEliminaMarina Caracciolo